Tra i temi centrali dell’ultima crisi di governo, oltre agli scontri legati al ritorno di Giuseppe Conte alla Presidenza del Consiglio, c’è la votazione della proposta di legge del M5S relativa al taglio del numero dei parlamentari. Il “tagliapoltrone”, come l’ha ribattezzato Luigi Di Maio, ha già affrontato un lungo iter legislativo e dopo l’approvazione dell’11 luglio in Senato, aspetta il passaggio finale alla Camera. La votazione, programmata per il prossimo 9 settembre, è adesso in sospeso a causa delle dimissioni di Conte. Sia gli ex alleati dei Cinque stelle, come Matteo Salvini, sia gli ex avversari, come Matteo Renzi, hanno reso noto nei giorni scorsi che per non dover tornare a tutti i costi al voto e per cementare una nuova alleanza, appoggiare il taglio dei parlamentari è una buona idea.
Luigi Di Maio ne ha fatto una bandiera programmatica irrinunciabile: va fatto perché “gli italiani lo vogliono”, per tagliare i costi della politica. Ormai da tanti anni, la ricerca del consenso dell’elettorato passa per misure che cavalcano questa tesi: la politica costa, la politica è avida e bisogna ridurne i costi. Secondo il M5S, il taglio drastico dei parlamentari comporterebbe un risparmio di circa 500 milioni di euro ogni legislatura, in media 100 ogni anno. Ma questo risparmio è una scelta giusta? Quando si parla di riduzione dei costi della sanità, della scuola o della giustizia, la maggior parte delle persone intuisce che tagliare significa ridurre i servizi offerti ai cittadini. Quando si parla di limitare le spese della rappresentanza politica, invece, non c’è l’abitudine a chiedersi se non si sta sabotando il funzionamento stesso di una democrazia sana
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