di William J. Astore

Sin dal 2007, quando ho cominciato a scrivere per TomDispatch, mi sono schierato contro le eterne guerre degli Stati Uniti, in AfghanistanIraq o altrove. Purtroppo non sorprende che, nonostante i miei più di sessanta articoli, sangue statunitense continua a essere versato in una guerra dopo l’altra nel Grande Medio Oriente e in Africa, anche se popoli stranieri pagano un prezzo di gran lunga più elevato in termini di vite perse e città in rovina. E continuo a chiedermi: perché, in questo secolo, la caratteristica distintiva delle guerre statunitensi è che non terminano mai? Perché i nostri leader persistono in una simile follia ripetitiva e nei disastri apparentemente eterni che l’accompagnano?

Purtroppo, non c’è una sola ragione evidente per questo sfacelo generazionale. Se ci fosse, potremmo concentrarci su di essa, affrontarla e forse persino correggerla. Ma non abbiamo così tanta fortuna.

Dunque perché le disastrose guerre degli Stati Uniti persistono? Posso pensare a molte ragioni, alcune evidenti e facili da comprendere, come l’interminabile perseguimento del profitto mediante le vendite di armi per quelle stesse guerre, e alcune più sottili ma non meno significative, come radicata convinzione a Washington che la volontà di condurre la guerra sia un segno di durezza e serietà. Prima di proseguire, tuttavia, c’è un altro aspetto distintivo del nostro momento di eterna guerra: avete notato che la pace non è più nemmeno un tema negli Stati Uniti oggi? La parola stessa, un tempo almeno parte della retorica dei politici di Washington, è essenzialmente caduta interamente dall’uso. Si consideri l’attuale rosa di candidati Democratici alla presidenza. Una, la deputata del Congresso Tulsi  Gabbard, vuole por fine alle guerre di cambiamento di regime, ma per altri versi è un autodefinito falco sul tema della guerra al terrore. Un altro, il senatore Bernie Sanders, promette di por fine alle “guerre infinite” ma è attento a esprimere un forte sostegno a Israele e all’ultra-costoso caccia da combattimento F-35. L’altra dozzina, o giù di lì, tende a emettere suoni vaghi riguardo ai tagli alla spesa della difesa o a un ritiro graduale dei soldati statunitensi da varie guerre, ma nessuno di loro prendere neppure in considerazione il parlare di pace. E i Repubblicani? Anche se il presidente Trump può parlare di por fine alle guerre, dal suo insediamento ha inviato altri soldati in Afghanistan e in Medio Oriente, contemporaneamente estendendo di molto gli attacchi con droni e altri attacchi aerei, cosa di cui si vanta apertamente.

La guerra, in altre parole, è la nostra nuova normalità, la posizione predefinita degli Stati Uniti negli affari globali e la pace un antico sogno a lungo svanito. E quando la posizione predefinita è la guerra, che sia contro i talebani, l’ISIS, il “terrore” più in generale, o forse persino Iran o Russia o Cina, c’è da sorprendersi che quello che si ottiene sia la guerra? Quando si presidia il mondo con un numero senza precedenti di 800, o giù di lì, basi militari, quando si configurano le proprie forze armate per quella che è chiamata proiezione di potenza, quando si divide il globo – l’intero pianeta – in aree di dominio (con acronimi con CENTCOM, AFRICOM e SOUTHCOM) comandate da generali e ammiragli a quattro stelle, quando si spende più per il proprio esercito che non i successivi sette paesi messi insieme, quando si insiste nel modernizzare un arsenale nucleare (al ritmo di forse 1,7 trilioni di dollari) già in grado di por fine a tutta la vita su questo e parecchi altri pianeti, che cosa ci si può aspettare se non una realtà di guerra infinita?

Consideratelo il nuovo eccezionalismo statunitense. A Washington la guerra oggi è il prevedibile (e persino desiderabile) stile di vita, mentre la pace è l’imprevedibile, e malaccorta, via da seguire. In un simile contesto gli Stati Uniti devono continuare a essere la nazione di gran lunga più potente del mondo in tutti i campi esiziali e le loro guerre vanno combattute, generazione dopo generazione, anche quando la vittoria non è mai in vista. E se questo non è un sistema di convinzioni “eccezionale”, che cosa lo è?

Se dovremo mai por fine alle interminabili guerra del nostro paese nel ventunesimo secolo, tale mentalità dovrà essere cambiata. Ma per farlo dovremmo prima riconoscere e affrontare i molti usi della guerra nella vista e nella cultura statunitensi.

Guerra, suoi usi (e abusi)

Un elenco parziale dei molti usi della guerra potrebbe essere qualcosa di simile: la guerra è redditizia, soprattutto per il vasto complesso industriale-militare degli Stati Uniti; la guerra è presentata come necessaria per la sicurezza degli Stati Uniti, specialmente per prevenire attacchi terroristici; e per molti statunitensi la guerra è considerata come una misura di adeguatezza e merito nazionali, un ricordo che “la libertà non è gratis”. Nella nostra politica di oggi è molto meglio essere considerati forti e sbagliati che docili e giusti.

Come diceva in modo così adatto il titolo di un libro dell’ex corrispondente di guerra Chris Hedges: la guerra è una forza che ci dà significato. E guardiamo la cosa in faccia, una considerevole parte del significato degli Stati Uniti in questo secolo ha riguardato l’orgoglio di possedere l’esercito più duro del pianeta, anche se trilioni di dollari delle tasse sono finiti in un tentativo maldestro di conservare il diritto spaccone di essere la sola superpotenza del mondo.

E si tenga anche presente che, tra l’altro, la guerra infinita indebolisce la democrazia mentre rafforza tendenze autoritarie nella politica e nella società. In un’era di dilagante disuguaglianza esaurire le risorse del paese in modi così immorali e distruttivi presenta un esercizio impressionante di consumo che avvantaggia i pochi a spese dei molti.

In altri termini, a pochi scelti la guerra paga dividendi in modi che la pace non fa. In poche parole, o in ‘parole’ d’artiglieria, la guerra è antidemocratica, antiprogressista, antintellettuale e antiumana. Tuttavia, come sappiamo, la guerra crea eroi tra chi vi partecipa e festeggia assassini di massa come Napoleone quali “grandi capitani”.

Ciò di cui gli Stati Uniti hanno bisogno oggi è una nuova strategia di contenimento, non contro l’espansione comunista, come nella Guerra Fredda, bensì contro la guerra stessa. Che cosa ci impedisce di contenere la guerra? Si potrebbe dire che, in un certo senso, siamo cresciuti intossicati da essa, il che è abbastanza vero, ma ecco cinque altre ragioni per la duratura presenza della guerra nella vita statunitense:

  • L’idea illusoria che gli statunitensi siano, per natura, vincitori e che le nostre guerre siano perciò vincibili: nessun leader statunitense vuol essere definito un “perdente”. Nel frattempo questi dubbi conflitti – si veda la guerra afgana, oggi al diciottesimo anno, con molti altri anni, o persino generazioni, a venire – continuano a essere trattati dall’esercito come se fossero in realtà vincibili, anche se visibilmente non lo sono. Nessun presidente, Repubblicano o Democratico, nemmeno Donald J. Trump, nonostante le sue promesse che i soldati statunitensi torneranno a casa da quei fiaschi, è riuscito a opporsi alle sirene del Pentagono che chiedono pazienza (e molti altri trilioni di dollari) nella causa della vittoria finale, per quanto malamente definita, improbabile o distante.
  • Il quasi totale isolamento della società statunitense dai mortali effetti della guerra. Noi non siamo (ancora) attaccati da droni. Le nostre città non giacciono in rovine (anche se certamente soffrono di una mancanza di finanziamenti, così come le nostre infrastrutture essenziali, grazie in parte al costo di tali guerre all’estero). E’, ciò nonostante, notevole quanta poca attenzione, sia sui media sia altrove, ottenga da noi la nostra belligeranza interminabile.
  • Una segretezza non necessaria e dilagante. Come ci si può opporre a ciò che non si conosce? Avendo imparato la lezione dalla guerra del Vietnam, il Pentagono oggi classifica (in parole povere: insabbia) gli aspetti peggiori delle sue guerre disastrose. Ciò non perché il nemico potrebbe sfruttare tali dettagli – il nemico li conosce già! – bensì perché il popolo statunitense potrebbe essere destato a qualcosa come rabbia e azione da essi. Rivelatori per principio, come Chelsea Manning, sono stati incarcerati o diversamente rimossi o, nel caso di Edward Snowden, perseguiti e incriminati per aver condiviso onesti dettagli riguardo alla disastrosa guerra dell’Iraq e all’invasivo e intrusivo stato della sorveglianza. Nel processo è stato trasmesso un chiaro messaggio di intimidazione ad altri aspiranti narratori di verità.
  • Un governo non rappresentativo. Molto tempo fa, ovviamente, il Congresso ha ceduto alla presidenza la maggior parte dei suoi poteri costituzionale per quando riguarda la guerra. Tuttavia, nonostante recenti tentativi di por fine al ruolo del commercio delle armi nella guerra genocida saudita in Yemen (annullati dal potere di veto di Donald Trump), i rappresentanti legittimamente eletti degli Stati Uniti in generale non rappresentano il popolo quando si tratta delle disastrose guerre di questo paese. Sono, per dirlo schiettamente, largamente asserviti al complesso militare-industriale (e a volte permettono anche che la politica lavori per esso). Fintanto che il denaro è parola (grazie, Corte Suprema!) i produttori di armi hanno sempre probabilità di essere in grado di gridare al Congresso più forte di quanto voi e io saremo mai.
  • La persistente mancanza di empatia degli Stati Uniti. Nonostante la nostra dimensione, siamo una nazione considerevolmente isolana e soffriamo di una grave mancanza di empatia quando si tratta di comprendere culture e popoli stranieri o ciò che stiamo concretamente facendo loro. Persino i nostri soldati giramondo, quando non combattono e uccidono stranieri in battaglia, spesso permangono in vaste basi, definite nell’esercito quali “piccole Americhe”, complete di familiari negozi, fast food, e di tutto e di più. Dovunque uno vada, noi ci siamo, a mangiare i nostri grandi hamburger, a guidare i nostri grandi camion, a brandire le nostre grandi armi, e a sganciare le nostre grandissime bombe. Ma quello che tali bombe fanno, chi feriscono o uccidono, chi cacciano di casa e dalla loro vita, queste sono cose di cui gli statunitensi risultano curarsi notevolmente poco.

Tutto questo mi riporta con tristezza alla mente una canzone popolare quando ero giovane, un’epoca in cui Cat Stevens cantava di un “treno della pace” che stava “risuonando più forte” negli Stati Uniti. Oggi quel treno della pace è stato fatto deragliare e sostituito da uno armato e blindato eternamente pronto alla guerra perpetua, e quel treno sta effettivamente risuonando più forte con grande pericolo per noi tutti.

Guerra all’astronave Terra

Ecco il problema, tuttavia: persino il Pentagono sa che il nostro più grave nemico è il cambiamento climatico, non la Cina o la Russia o il terrorismo, anche se nell’era di Donald Trump e della sua amministrazione di incendiari i suoi dirigenti non possono esprimersi sul tema tanto apertamente quanto potrebbero diversamente. Supponendo di non incenerirci prima con armi nucleari, ciò significa che il nostro nemico reale è la guerra infinita che stiamo conducendo contro il pianeta Terra.

L’esercito statunitense è anche un grande consumatore di combustibili fossili e perciò un considerevole motore del cambiamento climatico. Contemporaneamente il Pentagono, come ogni sistema enormemente potente, vuole solo crescere ancora di più, ma ciò che fa bene agli altri papaveri militari non fa bene al pianeta.

Purtroppo esiste un solo pianeta Terra, o astronave Terra, se preferite, poiché stiamo tutti attraversando la nostra galassia su di esso. Da un certo punto di vista, noi siamo il suo equipaggio, solo che invece di collaborare efficacemente da suoi assistenti, sembriamo decisi a combatterci gli uni gli altri. Se una casa divisa contro sé stessa non può stare in piedi, come indicò tanto tempo fa Abraham Lincoln, certamente un’astronave con un equipaggio litigioso e autodistruttivo non ha probabilità di sopravvivere, per non parlare di prosperare.

In altre parole, conducendo una guerra interminabile, gli statunitensi si stanno anche ammutinando contro il pianeta. Nel processo stiamo rovinando l’ultima, migliore speranza della terra: uno sforzo concertato e pacifico di far fronte alle sfide condivise di un pianeta in rapido riscaldamento e cambiamento.

All’astronave Terra non dovrebbe essere consentito di restare anche la nave da guerra Terra, non quando l’esistenza di parti considerevoli dell’umanità sta diventando già sempre più precaria. Consideriamoci sofferenti di una perdita di liquido refrigerante, che causa l’aumento della temperatura della cabina mentre anche il cibo e altre risorse si riducono. In base alle circostanze, qual è la strategia di sopravvivenza migliore: ucciderci gli uni gli altri ignorando la perdita o unire le forze per riparare una nave sempre più compromessa?

Purtroppo, per i leader statunitensi le “riparazioni” restano il dominio globale militare e delle risorse, anche quando tali risorse continuano a ridursi su un globo sempre più fragile. E, come abbiamo visto di recente, la parte delle risorse di tale riparazione alimenta la sua stessa follia, come nel desiderio recentemente affermato dal presidente Trump di mantenere le truppe in Siria per rapinare le risorse petrolifere di tale paese, anche se i suoi pozzi sono in larga misura devastati (grazie, in parte considerevole, ai bombardamenti statunitensi) e anche quando riparati produrrebbero solo una percentuale minuscola del petrolio mondiale.

Se le guerre statunitensi in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Somalia e Yemen dimostrano qualcosa, è che ogni guerra ferisce il nostro pianeta, e indurisce i nostri cuori. Ogni guerra ci rende meno umani e anche meno umanitari. Ogni guerra spreca risorse quando esse sono sempre più scarse. Ogni guerra è una distrazione da bisogni più importanti e da una vita migliore.

Nonostante tutti gli usi e gli abusi della guerra, il suo fascino e le sue tentazioni, è ora che noi statunitensi mostriamo un po’ di padronanza di noi stessi (nonché di decenza) ponendo fine al caos. Ben pochi di noi vivono in prima persona le “nostre” guerra ed è precisamente per questo che alcuni idealizzano il loro proposito e idolatrano chi le pratica. Ma la guerra è un caos sanguinario, omicida e quelli che la praticano, quando non uccisi o feriti, sono rovinati a vita perché la guerra rende funzionalmente assassini tutti coloro che vi sono coinvolti.

Dobbiamo smettere di idealizzare la guerra e di idolatrare i suoi cosiddetti guerrieri. In gioco non c’è nientemeno che il futuro dell’umanità e la possibilità della sopravvivenza, come la conosciamo, sull’astronave Terra.

William Astore, un collaboratore regolare di TomDispatch, è tenente colonnello in pensione (Aviazione USA) e docente di storia. Il suo blog personale è Bracing Views.

Questo articolo è comparso inizialmente su TomDispatch.com, un weblog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni alternative da Tom Engelhardt, a lungo direttore di edizione, cofondatore dell’American Empire Project, autore ‘ The End of Victory Culture’ e di un romanzo, ‘The Last Days of Publishing’. Il suo libro più recente è ‘A Nation Unmade by War’ (Haymarket Books).

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte:  TomDispatch.com

Originale: https://zcomm.org/znetarticle/american-exceptionalism-is-killing-the-planet/

Traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2019 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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