La Corte di Appello di Napoli chiede alla Corte Costituzionale e al giudice europeo di pronunciarsi sulla compatibilità della disciplina sui licenziamenti collettivi, come modificata dalla riforma del lavoro renziana, all’ordinamento: secondo i magistrati, l’attuale situazione sarebbe irragionevole e non garantirebbe una tutela effettiva dei diritti dei lavoratori.
Dopo la pronuncia del Tribunale di Milano del 5 agosto scorso, la Corte d’Appello di Napoli affronta ancora il problema del Jobs act e, in particolare, della legittimità della disciplina sui licenziamenti collettivi, con un doppio rinvio, alla Corte Costituzionale e alla Corte di Giustizia UE.
Che cosa sono i licenziamenti collettivi e che cosa succede se l’impresa non rispetta i diritti dei lavoratori
Si parla di licenziamenti collettivi nei casi di imprese che occupino più di quindici dipendenti che, per cessazione, trasformazione o riduzione dell’attività, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni nell’ambito del territorio di una stessa provincia. La disciplina in materia, delineata dalla legge 223 del 1991, prevede specifiche procedure. Senza entrare nei dettagli, basti dire che l’impresa ha un obbligo di comunicazione verso le rappresentanze sindacali aziendali e le associazioni di categoria: la comunicazione deve essere preventiva e per iscritto e deve contenere le motivazioni per cui non si possa evitare la mobilità, il numero e i profili professionali dei lavoratori in esubero e i tempi di attuazione, oltre a eventuali misure previste per mitigare l’impatto dei licenziamenti. A questo obbligo di comunicazione, si aggiungono altri obblighi che vanno da un apposito versamento INPS al confronto con le rappresentanze sindacali e le associazioni di categoria in diverse fasi. Qualora l’impresa, rispettate queste procedure, resti ferma nel proposito di riduzione del personale, sarà irrogato il licenziamento a ciascuno dei lavoratori. Per individuare i dipendenti da licenziare, però, devono essere seguiti i criteri previsti dai contratti collettivi o, in mancanza, si devono valutare carichi di famiglia, anzianità ed esigenze tecnico-produttive e organizzative.
Che cosa succede se queste procedure non sono rispettate? Prima del 2012, nella forma originale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la soluzione a ogni violazione delle regole sul licenziamento era la reintegrazione (o, in alternativa, a scelta del lavoratore, il risarcimento). Con la riforma Fornero, i rimedi si sono diversificati, prevedendo anche casi nei quali si conferma la fine del rapporto e ci si limita a risarcire il lavoratore. Nel caso di licenziamenti collettivi, nei rarissimi casi in cui manca la forma scritta c’è la tutela della reintegrazione piena (rientro nel posto di lavoro e risarcimento di almeno cinque mensilità); qualora non siano rispettati gli obblighi di procedura, il lavoratore avrà solo una tutela indennitaria, cioè un risarcimento calcolato tra le 12 e le 24 mensilità, mentre nei casi di violazione dei criteri di scelta, si ritorna al rimedio della reintegrazione, sebbene attenuata (ossia l’indennità risarcitoria è di massimo 12 mensilità).
Tutto questo, però, prima del Jobs act e, in particolare, del decreto legislativo 23/2015.
Che cosa è cambiato con il Jobs act e perché ci sono dubbi di legittimità
Sebbene il punto focale del d.lgs. 23/2015 fossero i rimedi al licenziamento ingiustificato, la strategia del governo Renzi fu la creazione di un nuovo tipo di contratto, il contratto a tutele crescenti. In questo modo, la disciplina dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori resta vigente, ma tutti i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 stipulano un nuovo tipo di contratto a tempo indeterminato, rispetto al quale si applicano specifiche garanzie contro il licenziamento ingiustificato. Queste tutele sono definite “crescenti”, perché strettamente legate all’anzianità di servizio (e calcolabili a priori): nel testo originale, l’indennità dovuta al lavoratore ingiustamente licenziato sarebbe stata di due mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro mensilità e non superiore a ventiquattro mensilità. Questo automatismo (non intaccato dal Decreto Dignità, che si è limitato ad alzare i limiti minimi e massimi da sei a trentasei mensilità) è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale un anno fa: la Consulta ha infatti rilevato come l’indennità calcolata sulla sola anzianità di servizio non possa essere un rimedio efficace contro i licenziamenti ingiustificati, perché né ripara il danno subito dal lavoratore, né dissuade le imprese da comportamenti illegittimi. Quella pronuncia, relativa all’art. 3 del d.lgs. 23/2015, pur evidenziando chiaramente l’incostituzionalità dell’impianto della riforma, ma non ha potuto operare un riordino della disciplina (competenza che, come in altri casi, spetterebbe alla politica).
Per quanto riguarda i licenziamenti collettivi, ad esempio, resta vigente l’articolo 10 del decreto legislativo. Il risultato, come fa notare la Corte d’Appello di Napoli nell’ordinanza di rinvio alla Corte Costituzionale, è che in una stessa procedura di licenziamenti collettivi, di fronte a una stessa situazione, cioè la violazione dei criteri di scelta, ci sarebbero addirittura tre diversi rimedi. Il lavoratore assunto prima del 7 marzo 2015 otterrebbe la reintegrazione attenuata, cioè il rientro nel posto di lavoro con l’aggiunta di un’indennità risarcitoria quantificata dal giudice (ma non superiore a dodici mensilità), oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, e ingiustamente licenziati in una procedura collettiva con violazione dei criteri di scelta, non c’è invece mai reintegrazione, né ricostituzione integrale della posizione previdenziale: l’unico rimedio è nell’indennità monetaria, compresa tra 4 e 24 mensilità, in caso di assunzione tra il 7 marzo 2015 e il 13 luglio 2018, o tra 6 e 36 mensilità, se il lavoratore è stato assunto dopo il 13 luglio 2018.
Proprio sull’irragionevolezza di trattare situazioni analoghe, in una medesima procedura, con rimedi tra loro diversi, si basa il rinvio della Corte di Appello di Napoli alla Corte Costituzionale. Ma non è l’unico vizio che i giudici partenopei hanno evidenziato. Gli articoli della Costituzione violati dalla disciplina del Jobs act sarebbero infatti 3, 4, 24, 35, 38, 76, 111 e 117. Oltre alla disparità di trattamento tra lavoratori nella medesima situazione e ai rilievi sull’efficacia processuale dei rimedi, la Corte d’Appello ipotizza anche l’eccesso di delega: il Jobs act, infatti, è una riforma del lavoro basata su una legge delega e diversi decreti attuativi. Nelle indicazioni del Parlamento al Governo, infatti, non era prevista la modifica della disciplina in materia di licenziamenti collettivi.
Non solo. La nuova disciplina per la tutela contro le irregolarità nei licenziamenti collettivi violerebbe anche il diritto dell’Unione europea: ecco perché la Corte d’Appello di Napoli ha deciso di emettere non una, ma due ordinanze di rinvio, una alla Corte Costituzionale, l’altra alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Con questa seconda ordinanza, si richiede il parere della Corte di giustizia UE rispetto alla compatibilità del rimedio previsto dal Jobs act per licenziamenti collettivi illegittimi rispetto al diritto dell’Unione e, in particolare, sulla base della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la Carta di Nizza). In particolare, si chiede di valutare se la legge italiana rispetti la parità di trattamento (art. 20), il divieto di discriminazione (art. 21) e se garantisca la tutela contro i licenziamenti (art. 30), l’accesso ai sistemi di previdenza (art. 34) e il diritto a un rimedio giurisdizionale effettivo (art. 47).
Insomma, la questione sui licenziamenti collettivi non è diversa da quella che ha portato la Consulta a pronunciarsi nel senso dell’illegittimità costituzionale del calcolo automatico dell’indennità previsto nel Jobs act: la prevedibilità e l’esiguità del rimedio previsto per il lavoratore ingiustamente licenziato rendono la soluzione proposta dal governo Renzi inadeguata a riparare il danno subito dal lavoratore e a dissuadere le imprese da comportamenti illeciti. Come infatti sottolineato dalla sentenza dello scorso anno, non bisogna perdere di vista che i licenziamenti in questione sono ingiustificati, atti illeciti che producono effetti per scelta del legislatore: se esiste un diritto al lavoro, con il profondo significato di dignità assegnatogli nella Costituzione, non può essere ignorato per le esigenze dell’impresa e sacrificato in cambio di una (per di più misera) somma di denaro. Per adesso non resta che aspettare la pronuncia delle due corti o, magari, l’intervento del legislatore per risolvere problemi che la giurisprudenza ha già ampiamente segnalato.