Segnali piccoli magari, ma uguali e contrari si avvicendano e interessano aspetti di vita quotidiana che vengono surclassati da temi di cronaca nera, nerissima o da chiacchiericci tipici della resa dei conti dei dati di fine anno. Una fine d’anno che dovrebbe portarsi appresso anche il bilancio (negativo) di un cambio di governo in cui non si ravvisano grandi miglioramenti sul piano della difesa e dell’ampliamento diritti sociali e civili.

Tenendo ben presente che non è possibile fare una classifica dei diritti e che se anche se ne perde per strada solo uno, alla fine si rischia di perderli tutti, tanto per l’esecutivo quanto per la civiltà giuridica del nostro Paese assurge all’onore delle polemiche e degli scontri interni alla maggioranza la “riforma della prescrizione“. Cominciamo da questo “segnale” e poi arriveremo al secondo.

La nostra Costituzione, precisamente nell’articolo 111, così recita:
La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. […]“.

Ragionevole durata. Una garanzia costituzionale, anzitutto. Come accaduto per altre tutele previste dalla Carta nei confronti di tutti i cittadini (caso famoso, tra tanti, è l’immunità parlamentare), poiché se ne è fatto in molti casi un abuso da parte di altrettanti singoli cittadini, non proprio comuni ma magari impegnati in attività amministrative o grandemente economiche, la prescrizione nell’interpretazione che ne danno i Cinquestelle sembra divenuta il demone dell’ingiustizia, che impedisce alla Legge di seguire il suo corso e di trasformarsi in quella certezza della pena che altrimenti verrebbe impedita, amputata, negata e vilipesa.

Intanto, va detto, non occorre essere giudici, avvocati o pubblici ministeri per sapere che la certezza di un giusto processo non deve necessariamente portare alla certezza della pena, visto che l’approdo finale del procedimento può non essere la comminazione di una pena, ma anche l’assoluzione per insufficienza di prove, perché il fatto non sussiste, con tante scuse del tribunale in merito ad accuse rivelatesi magari teoremi infondati.

Dunque la prescrizione, qualora un processo si trascinasse oltre la finestra temporale prevista dall’articolo 157 del Codice Penale (“…la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria“), diviene un elemento di assoluta garanzia per il cittadino che ha il diritto di ottenere giustizia (sia in quanto parte civile, sia per la funzione penale esercitata dallo Stato, sia per la parte imputata in giudizio).

Sospenderla, superando l’attuale normativa che la regolamenta, è quell’obbrobrio giuridico che invece il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nella conferenza stampa di fine anno a Palazzo Chigi, ha negato essere tale: i presupposti della civiltà giuridica – seppure siano sovrastrutturali rispetto ai movimenti ed al regime economico dominante – rappresentano uno dei fondamenti su cui si deve considerare la civiltà di un Paese e non è possibile pensare che la Legge, poiché incappa in tanta burocrazia e cavillosità, debba autoassolversi e proclamare di essere giudice permanente per presunti reati che escono fuori dall’assetto spazio-temporale in cui sono stati prodotti e che finiscono per essere non solo anacronistici ma privi di qualunque valenza dentro al contesto del processo stesso.

I costi della democrazia, del mantenimento dello Stato di diritto, come si vede non sono solamente economici: non riguardano soltanto le auto blu, gli stipendi dei deputati e dei senatori, ma concernono soprattutto il funzionamento complicato ma necessario dei poteri istituzionali, che devono essere preservati in quanto tali se si vuole far sopravvivere formalmente un regime Parlamentare dialettico, una Magistratura indipendente e un potere esecutivo altrettanto equidistante da tutto il resto.

Ma dei segnali piccoli e magari privi di rilevanza nelle più serie questioni di Stato interne, tra cui la sostituzione del ministro dell’Istruzione e lo spacchettamento del ministero in due distinte funzioni (tema non di poco conto da affrontare… visto che si separano amministrazione della scuola primaria e secondaria con amministrazione delle università senza, peraltro, mettere mano alle precedenti riforme che tanto hanno depotenziato strutturalmente e cognitivamente l’impianto complessivo della scuola della Repubblica…), si può trovare traccia se si riporta per un attimo alla mente la vicenda dell’assoluzione di Marco Cappato nel caso di eutanasia praticato a DJ Fabo. Dall’accusa di aver aiutato il giovane artista a suicidarsi.

I giudici hanno stabilito che DJ Fabo ha scelto liberamente di mettere fine a quella che per lui non era più rappresentabile e considerabile come “vita” ma come una vera e propria sofferenza costante, senza attimi di tregua, senza un distacco dal dolore e dall’incomprensione del dover permanere in una condizione di paralisi verso qualunque elementare atto di espressione di sé stessi nella quotidianità.

La morte può arrivare ancor prima della morte vera e propria e può prendere le forme di uno stato di non-vita, di degrado della persona, della sua dignità: deve essere terribile non poter esprimere più i propri sentimenti con abbracci affettuosi, con baci, carezze; pronunciare parole dolci e anche di rabbia, fare tutto quello che noi ogni giorno facciamo e vivere: vivere peggio di un vegetale che vive in quanto tale e quindi non prova sofferenza nell’acclimatarsi attorno a sé con gli altri della sua specie.

Ma noi non siamo fiori di campo e non possiamo nemmeno trasformarci in sassi privi di incoscienza, attaccati a macchine artificiali per mantenerci in vita creando un non-senso dentro al già pesante fardello del non-senso più che altro metafisico della vita stessa.

Chi parla di “omicidio di Stato” non solo non ha a cuore alcuna specifica particolarità della singolarità umana e degli accadimenti che la possono influenzare; ma prima di tutto non tiene in considerazione la volontà dell’essere umano, il diritto a scegliere – scevro dalla padronanza dello Stato o di un qualunque dio su sé stesso – come porre fine alla propria vita in caso ci si trovi ad esistere ma non a vivere.

Forse l’assoluzione di Marco Cappato è passata un po’ sotto silenzio. E forse è anche per questo che ci piace ricordarla qui, a fine anno. Anche per rendere omaggio ad un combattente per i diritti civili, un uomo che è lontano dalle nostre idee e ideologie, che non la pensa come noi circa la trasformazione in senso socialista della società, ma le cui lotte ci portano nella direzione di una evoluzione culturale, sociale, civile e morale necessaria per andare oltre questo sistema che corrompe l’essere umano in svariati ambiti della sua vita.

Il giorno della sentenza sul presunto “aiuto al suicidio” per DJ Fabo, Marco Cappato ha ricevuto la notizia che sua madre era morta. Eppure è rimasto in aula ad attendere la sentenza. Non certo con la freddezza impassibile di chi è insensibile alla dipartita della persona forse più importante della nostra vita. Ma con coraggio, con determinazione, lasciandosi certamente attraversare da tutti i sentimenti del caso, piangendo, circondato dai suoi familiari. Ma rientrando in aula subito dopo, per veder affermato un diritto sacrosanto che certamente avrebbe voluto anche per i suoi cari e che, personalmente, vorrei vedere riconosciuto anche a me se dovessi trovarmi nella situazione di non poter più vivere ma diventare una epifenomeno della mia vita che si nasconde dietro ad un corpo ormai inerte.

Sono queste le azioni rivoluzionarie che cambiano la nostra società e che la migliorano: non la prescrizione abolita, ma la lotta contro ogni bigotteria ed oscurantismo clericale, contro ogni tendenza assolutista nel campo della morale, sganciando il tutto dal sistema capitalistico che, lo si voglia vedere o no, domina – prima ancora del potere dello Stato, le nostre vite.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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