Giulio Chinappi

Le continue crisi che attraversano le due principali compagnie aree italiane mettono in luce la necessità di nazionalizzare il settore del trasporto aereo, garantendo i posti di lavoro ed un servizio fondamentale per i cittadini.

La storia di Alitalia è una delle più tormentate nella storia dell’economia italiana: nata nel 1946 come compagnia di bandiera e con il nome di Alitalia – Aerolinee Internazionali Italiane, questa subì numerosi tentativi di privatizzazione a partire dagli anni ‘90. Per lungo tempo, i tentativi di svendita della compagnia nazionale fallirono, mentre il settore pubblico si impegnava in una gestione scellerata di Alitalia, proprio al fine di giustificarne la privatizzazione, vendendo la favola del privato come più efficiente.

Nel 2008 si giunse quasi alla cessione di Alitalia al gruppo Air France-KLM, ma l’affare sfumò il 21 aprile. Il giorno seguente, Silvio Berlusconi fa approvare dal Consiglio dei ministri un decreto legge che concede un prestito ad Alitalia di 300 milioni da restituire entro il 31 dicembre. Il 21 maggio, il governo Berlusconi IV converte il prestito ponte in patrimonio netto per la società.

La cessione di Alitalia arriva il 12 gennaio 2009, quando la compagnia area passa nelle mani della holding finanziaria italiana CAI – Compagnia Aerea Italiana S.p.A., guidata da Roberto Colaninno, per poco più di un miliardo di euro. In questo modo, gli italiani hanno di fatto regalato circa cinque euro a testa (i 300 milioni di cui prima divisi per circa 60 milioni di abitanti) ad un privato. Ai 300 milioni del prestito ponte mai restituito, vanno aggiunti i 1.700 milioni per la mancata vendita ad Air France, più 1.200 milioni di debiti rimasti alla cosiddetta “bad company” statale Alitalia LAI, tutti costi sostenuti dallo Stato italiano senza alcun ritorno. Il calcolo non considera inoltre i costi sociali per i licenziamenti, le società aeroportuali pubbliche come SEA (Società Esercizi Aeroportuali) e i risparmiatori.

Mentre lo Stato italiano ha dovuto sostenere le perdite, il privato ha dunque fatto affari grazie al marchio di una compagnia nota al grande pubblico italiano ed internazionale. Tale schema è esattamente in linea con la logica liberista dei costi pubblici e dei profitti privati, che regola il sistema economico vigente a svantaggio della moltitudine ed a beneficio della classe dominante. Tuttavia, il privato non si dimostrò affatto più efficiente dello Stato italiano, portando, tra le varie cose, alla chiusura delle attività di Air One, storica compagnia low cost fondata nel 1983 e rilevata da Alitalia nel 2008.

La liquidazione di Air One avvenne nell’ambito di una nuova tratattiva di vendita, questa volta per cedere Alitalia ad Etihad Airways, compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti. L’8 agosto 2014 era infatti stato siglato a Roma l’accordo che prevedeva l’acquisizione del 49% delle quote di Alitalia da parte di Etihad Airways. L’accordo prevedeva proprio la chiusura di Air One entro fine settembre, con la conseguente vendita della flotta per far fronte ai debiti di Alitalia.

Dal 1º gennaio 2015 viene ufficialmente costituita Alitalia – Società Aerea Italiana S.p.A., joint venture tra Alitalia-CAI, con una quota maggioritaria del 51% tramite MidCo S.p.A., ed Etihad Airways, con una quota minoritaria del 49%. Tuttavia, queste operazioni tra privati non hanno portato alcun beneficio alle casse della compagnia aerea, che ha chiuso il 2014 con 580 milioni di passivo, limitando le perdite a 199 milioni nel 2015, per poi ripiombare a -600 milioni nel 2016.

A pagare il prezzo dei disastrosi anni della privatizzazione, sono stati naturalmente i lavoratori italiani. Per evitare il fallimento di Alitalia, infatti, il 14 aprile 2017 venne stilato un pre-accordo tra i sindacati e l’amministrazione che prevedeva, tra le altre cose, 980 esuberi, tagli medi degli stipendi dell’8% e la diminuzione delle ferie per i dipendenti. L’accordo venne però sottoposto ad un referendum, e bocciato dal 67% dei lavoratori. Il 2 maggio 2017 il Consiglio di Amministrazione ha deciso all’unanimità di presentare l’istanza di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, con la nomina di tre commissari: Luigi Gubitosi, Enrico Laghi e Stefano Paleari.

Mentre la storia di Alitalia è lunga e nota al grande pubblico, meno conosciute sono le vicende di Air Italy. Nata nel 1963 come Alisarda, con il fine di promuovere il turismo in Sardegna, questa venne ribattezzata Meridiana nel 1991. Il 2 settembre 2017, Qatar Airways annunciò l’acquisto del 49% di AQA Holding, società che controllava il 100% di Meridiana. Il 7 novembre 2017 venne comunicato che Meridiana avrebbe incorporato definitivamente Air Italy, compagnia nata nel 2005 e sotto il controllo della prima dal 2011. Il 19 febbraio 2018, fu la compagnia Meridiana ad essere ribattezzata Air Italy, con l’intento di rilanciarne le sorti.

Tuttavia, anche nel caso di Meridiana / Air Italy, la gestione affidata alla compagnia qatarina si è rivelata disastrosa: l’11 febbraio di quest’anno, il CDA ha deliberato lo scioglimento della società e la successiva liquidazione volontaria, con la messa a terra dell’intera flotta, e consequenzialmente la cancellazione di tutto l’operativo a partire dal successivo 25 febbraio. Le conseguenze per i lavoratori saranno, come al solito, disastrose.

Tali vicende non possono non spingerci ad affermare che l’Italia ha l’impellente necessità di dotarsi di una propria compagnia di bandiera direttamente controllata dallo Stato. Il governo dovrebbe intervenire per la salvaguardia dei lavoratori, per garantire un servizio di importanza primaria per i cittadini che vivono o viaggiano in determinate aree del Paese, nonché per orientare il settore del trasporto aereo verso il rispetto dell’ambiente.

In seguito alla nazionalizzazione del settore del trasporto aereo, lo Stato dovrebbe procedere con la progressiva eliminazione delle rotte aeree che coprono distanze brevi o città servite dalle linee ferroviarie ad alta velocità, che rendono di fatto superflue rotte aeree quali l’insulsa Roma-Napoli, per fare un esempio. Tale mossa andrebbe chiaramente a ridurre l’inquinamento causato dal trasporto aereo, ma allo stesso tempo andrebbe messa in pratica in maniera progressiva per salvaguardare i posti di lavoro dei dipendenti, che andrebbero poi riposizionati altrove.

Al contrario, lo Stato dovrebbe garantire e potenziare le rotte aeree che servono le isole maggiori e località molto distanti fra loro oppure non servite dalle linee ferroviarie ad alta velocità. Con queste due mosse, si andrebbero a garantire sia i diritti dei lavoratori del settore aereo che quelli di coloro che viaggiano per motivi lavorativi, familiari o di diletto, senza affidare un servizio di tale importanza a privati e compagnie stranierie pronti ad attaccarsi alle società italiane come sanguisughe per poi restituire carcasse moribonde.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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