È una bella mattina di giugno. Adelaide legge il giornale, mentre guarda i bambini che giocano nel parco del Lindenhof. I primi soldati degli Stati Uniti sono sbarcati in Francia: forse l’arrivo degli uomini di quel paese lontano riuscirà finalmente a mettere fine alla guerra.
Posso sedermi? 
Nei giorni scorsi Adelaide ha già visto quella donna camminare da sola per il parco. Ha grandi occhi neri, è molto bella, ma c’è in lei qualcosa di malinconico e di sottilmente inquietante.
Certo.
Sono i suoi figli?
No. Adelaide sorride. Sono i figli di due amiche. Visto che io lavoro di sera mi piace portarli fuori durante la giornata, così aiuto le loro madri. 
Io ho quattro figli, due femmine e due maschi. Sono rimasti a Monaco. Con il padre. Mi mancano.
Adelaide capisce che quella donna ha voglia di parlare. E cosa vi impedisce di tornare?
Sto facendo dei controlli medici qui a Zurigo, anche se mio marito continua a dire che non ho nulla. Eppure io sto male. Sono stata anche in un sanatorio qui in Svizzera cinque anni fa. E lei ha figli?
No, non sono sposata.
Mi spiace.
Non ne faccio un dramma.
Non mi sembra tedesca?
No, sono italiana.
Parla bene la nostra lingua. L’ha studiata in Italia?
Adelaide non ha problemi a raccontare quella storia: è vera e non rischia di compromettere quello che lei e Giulio stanno facendo a Zurigo. Mio padre era austriaco, era assegnato all’ambasciata a Roma. Nel 1870 ha deciso di rimanere in Italia, si è trasferito a Bologna, insegnava italiano agli studenti tedeschi che frequentavano l’università. In quella città ha conosciuto mia madre. Lei è tedesca?
Sono nata in Baviera, da una famiglia di Berlino. Mio padre è professore di matematica all’università di Monaco, mia madre prima di sposarsi faceva l’attrice. Ha insegnato a me e ai miei fratelli ad amare il teatro.
Il mese scorso sono stata a vedere Arlecchino e Turandot di Busoni.
C’ero anch’io. Con mio marito. Mia madre conosce bene Moissi. L’ho trovato, come al solito, un po’ eccessivo.
Ha detto di avere dei fratelli?
Sì, quattro, tutti maschi. Peter è professore di fisica, Heinz è archeologo, il mio gemello Klaus insegna composizione. Di Erik ormai né i miei genitori né i miei fratelli vogliono parlare. E così anch’io non ne parlo più: è morto, lontano. Anch’io ho studiato: nel 1901 sono stata la prima ragazza di Monaco a ottenere l’abitur per andare all’università. E ho frequentato corsi sia scientifici che di filosofia. Mia nonna allora era molto fiera di me. Lei ha sempre sostenuto che le donne devono poter fare tutte le cose che fanno gli uomini, che devono poter studiare e votare.
È giusto. Adelaide non avrebbe voluto dire quella frase. Ha paura di essersi scoperta. Ma quella donna non le sembra proprio una spia. Solo una persona che ha bisogno di parlare.
Mia nonna Marianne è una donna che ha sempre lottato. Lo fa ancora adesso, che ha ottantasei anni. Scrive articoli contro la guerra.
Sono sempre gli uomini a fare la guerra.
Forse ho preso marito troppo in fretta. Avevo ventidue anni quando mi sono sposata, a febbraio, e a novembre è nata Erika. Ho dovuto lasciare i corsi all’università. La mia vita è cambiata. Mia nonna aveva detto di aspettare. I miei non erano molto contenti, ma non perché era presto, perché gli sembrava poco per la nostra famiglia. Uno scrittore. Anche se aveva già scritto quel suo romanzo sulla crisi di una grande famiglia di Lubecca. Ma poi quando ci siamo trasferiti nella villa al numero 1 di Poschingerstraße sembrava loro tutto a posto. Avevamo un cuoco, una cameriera, una bambinaia e anche un autista. E io ho cominciato a stare male, a tossire, a perdere peso, ad avere dolori al petto. E mi sentivo in colpa a sentirmi male proprio in qual momento, quando i miei figli avevano bisogno di me. Sono stata a Davos. I medici dicono che non ho nulla, eppure io sto male.
La donna è sul punto di piangere. Adelaide le prende le mani, le stringe.
Non so se lui mi ama. Lui crede che la mia malattia sia tutta qui, nella mia testa. Ma lui non sa come sto. Vive solo per scrivere: quando è venuto a trovarmi al sanatorio ha cominciato a immaginare una storia ambientata lassù, il racconto di un uomo sano che va a trovare un cugino e che una volta là si scopre malato. Lui capisce la malattia di Hans meglio della mia; è come se lui fosse più reale di me. Non so nemmeno se lui mi può amare, però so che ha bisogno di me. Ha bisogno dei miei soldi per non lavorare e poter continuare a scrivere. Ma soprattutto ha bisogno che io lo protegga, che gli dia equilibrio. È un grande scrittore, credo che la mia missione sia fare in modo che lui scriva. Non so per quanto ancora ne avrò la forza.
Forse stai chiedendo troppo a te stessa. Adelaide si accorge che ormai le è naturale dare del tu a quella sconosciuta, di cui non conosce neppure il nome. Dovresti pensare più a te. 
Adelaide. Abbiamo fame: è ora di pranzo. I bambini sono accanto alla panchina, dove le due donne stanno abbracciate.
La sconosciuta sembra riprendersi. Vedi, c’è sempre qualcuno che ha bisogno di noi. 

continua… 


per chi se le ha perse, ecco la “puntate precedenti“…

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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