Giulio Chinappi

Anziché pensare a controllare l’epidemia negli Stati Uniti, Donald Trump continua ad inanellare figuracce sulla tematica coronavirus. Ed uno studio proveniente da Taiwan dimostra come la pandemia potrebbe aver avuto origine dagli Stati Uniti, e non dalla Cina.

Nella giornata di lunedì, Donald Trump ha pubblicato un tweet nel quale ha etichettato il nuovo coronavirus (COVID-19) come il “virus cinese”, generando una valanga di critiche: “Gli Stati Uniti supporteranno con forza quei settori, come le compagnie aeree e altri, che sono particolarmente colpiti dal virus cinese. Saremo più forti che mai!“, ha scritto il presidente degli Stati Uniti.

Ancora una volta, Trump ed il suo governo dimostrano di utilizzare l’emergenza coronavirus per attaccare gratuitamente la Cina, il più grande rivale di Washington sullo scacchiere geopolitico internazionale. La smentita, tuttavia, è arrivata da un’autorità degli stessi Stati Uniti, il Center for Disease Control and Prevention (CDC), che ha sottolineato la necessità di combattere pregiudizi e discriminazioni verso persone, luoghi o cose. Come ha sottolineato il CDC, lo stigma e la discriminazione si verificano quando le persone associano una malattia, come il COVID-19, a una popolazione o nazionalità, creando ingiustificatamente paura o rabbia verso questo gruppo di persone.

Il presidente Trump farebbe meglio ad occuparsi dell’emergenza sanitaria in corso nel suo Paese, acuita da un sistema di sanità privata orientato unicamente verso il profitto piuttosto che verso i bisogni dei cittadini. Lo stesso Orange Man è stato costretto ad ammettere che l’epidemia negli Stati Uniti potrebbe prolungarsi fino a luglio o agosto, e che l’economia del Paese “potrebbe” dirigersi verso una recessione.

Il possibilismo del presidente si tramuta in certezza se si leggono le parole di Sourabh Gupta, dell’Institute for China-America Studies di Washington. Lo studioso ha affermato che le conseguenze sul mercato dell’epidemia saranno più gravi rispetto a quelle della “guetta commerciale” tra le due potenze economiche: “Durante la guerra commerciale, il mercato era instabile. In questo momento si sta avvicinando al panico“, ha affermato. Tra le ragioni di questa reazione, Gupta nomina proprio le significative carenze di capacità del sistema sanitario degli Stati Uniti, che potrebbe causare una diffusione incontrollata del virus: “Un significativo crollo della domanda potrebbe portare ad una recessione“, ha concluso.

Intanto, aumentano gli elementi che metterebbero in dubbio l’origine cinese del nuovo coronavirus, o di almeno parte della pandemia che sta colpendo quasi tutti i Paesi del mondo. Diversi studi sia cinesi che occidentali hanno già confermato che il mercato di Wuhan non sarebbe il luogo di origine del virus, ma che questo avrebbe avuto una serie di fonti non ancora identificate, per poi diffondersi a partire dalla città cinese.

Uno studio pubblicato sul sito scientifico ChinaXiv afferma che i dati sul genoma del virus dimostrano che il COVID-19 avrebbe avuto origine in un altro luogo, e che il paziente zero (non ancora identificato), abbia poi trasmesso il virus ai venditori e ai clienti del mercato, un luogo molto affollato che facilita la trasmissione del virus, portando ad un’ampia diffusione dello stesso a partire dal dicembre 2019.

Ricercatori indipendenti cinesi e giapponesi hanno concluso che il virus sarebbe giunto in Cina solamente in un secondo momento. Raccogliendo campioni in dodici Paesi di quattro continenti, le autorità cinesi hanno identificato diverse varietà e mutazioni nel genoma del nuovo coronavirus, anticipando l’inizio dell’epidemia a novembre, alla conclusione dei Giochi Mondiali Militari ospitati dalla città di Wuhan, che hanno visto la partecipazione di un importante contingente statunitense (clicca qui).

Secondo Zhong Nanshan, considerato un luminare delle malattie respiratorie in Cina, ha affermato che “sebbene il COVID-19 sia stato scoperto per la prima volta in Cina, ciò non significa che abbia avuto origine dalla Cina“. Un’origine del virus al di fuori della Cina spiegherebbe anche la difficoltà riscontrata dagli scienziati nell’individuazione del paziente zero.

Nel mese di febbraio, la testata giornalistica giapponese Asahi ha rilanciato l’idea secondo la quale il virus avrebbe avuto origine negli Stati Uniti, e non in Cina. Secondo i giornalisti giapponesi, afferma che le autorità nordamericane non sarebbero state in grado di individuare il virus, confondendolo con quello dell’influenza stagionale, stimando che 14.000 dei 20.000 morti registrati negli Stati Uniti per influenza sarebbero in realtà riconducibili al coronavirus. Sempre secondo i giornalisti nipponici, le autorità sanitarie statunitensi non avrebbero effettuato i test necessari o avrebbero evitato di pubblicarne i risultati. La notizia è stata ripresa più volta dai media cinesi e di altri Paesi asiatici, ma è passata curiosamente sotto silenzio in Europa e negli stessi Stati Uniti.

Dai risultati di questi studi, si è fatta sempre più strada l’ipotesi di un passaggio del virus dagli Stati Uniti alla Cina in occasione dei Giochi Mondiali Militari di Wuhan, in seguito ai quali il virus avrebbe potuto subire delle mutazioni genetiche che lo avrebbero reso più mortale e contagioso.

Un’altra importante testimonianza arriva da uno studio proveniente da Taiwan, particolarmente rilevante visto il conflitto politico che oppone il governo della Repubblica Popolare Cinese a quello della sedicente Repubblica di Cina, con sede a Taipei. Per intenderci, una prova che vale doppio in quanto proveniente da un nemico giurato di Pechino. I media taiwanesi, infatti, hanno specificato che “si tratta unicamente di uno studio scientifico, che nulla ha a che fare con i problemi geopolitici“.

Lo studio taiwanese afferma che il tipo di coronavirus presente sull’isola, che attualmente conta 77 casi, non esiste in Cina, ma è presente solamente negli Stati Uniti e in Australia, dunque può solamente provenire da queste aree. Inoltre, lo studio dimostra come negli Stati Uniti siano presenti ben cinque ceppi diversi del virus, tutti quelli oggi conosciuti, mentre in tutta la Cina ne esiste solamente uno, così come a Taiwan e in Corea del Sud, o ancora in altri Paesi asiatici (Thailandia, Vietnam, Singapore) ed europei (Inghilterra, Belgio, Germania). La logica vuole che il luogo dove siano presenti più varianti del virus debba essere quello di origine dello stesso, dal quale provengono dunque gli aplotipi esistenti nel resto del mondo.

Come anticipato, inoltre, gli aplotipi presenti a Taiwan ed in Corea del Sud non sarebbero uguali a quelli di Wuhan, suggerendo che il virus sarebbe arrivato in questi Paesi dagli Stati Uniti, e non dalla Cina. Ciò spiegherebbe anche la bassa mortalità della Corea del Sud rispetto alla Cina, trattandosi di una variante forse più infettiva ma meno mortale.

Lo studio taiwanese non prende in considerazione altri due Paesi molto colpiti, l’Iran e l’Italia. Tuttavia, le ricerche condotte in questi Paesi, come quella del Sacco, affermano che il genoma prevalente mostra importanti differenze con il coronavirus di Wuhan, suggerendo l’idea che l’epidemia italiana e quella iraniana non abbiano avuto origine dalla Cina. Anche in questo caso, la notizia è stata inizialmente ripresa dai mass media, ma è poi passata in secondo piano. Anche in questo caso, ecco fornita la spiegazione del perché i tassi di mortalità di Italia ed Iran non sono allineati con quelli cinesi né con quelli sudcoreani, risultato più elevati.

A causa dell’enorme quantità di copertura mediatica occidentale focalizzata sulla Cina, in molti casi anche in cattiva fede, gran parte del mondo considera un dato di fatto che la diffusione del nuovo coronavirus sia partita dalla Cina, ma quanto esposto in precedenza sembrerebbe dimostrare il contrario.

Secondo lo studio taiwanese, l’epidemia da nuovo coronavirus potrebbe addirittura aver avuto inizio nel mese di settembre negli Stati Uniti, dove sono stati segnalate più di duecento morti sospette classificate come causate da “fibrosi polmonare”, ma con sintomi e conseguenze diverse rispetto a quelle abituali di questa patologia. Vi è ad esempio il caso di alcuni turisti giapponesi risultati infetti dopo aver visitato le Hawaii nel settembre del 2019, e senza mai essere andati in Cina. Ciò potrebbe indicare che il coronavirus si era già diffuso negli Stati Uniti, forse in una forma più lieve, portando alla diagnosi errata di altre malattie.

Il sito cinese Hanqiu, ad esempio, ha riportato la notizia di una donna del Colorado ufficialmente morta per influenza, ma il cui certificato di morte riportava “coronavirus” come causa del decesso.

I più attenti, hanno anche notato come nell’agosto del 2019 le autorità statunitensi abbiano deciso la chiusura del laboratorio di Fort Detrick, in Maryland, un centro di ricerca su virus e batteri spesso mortali, come il virus dell’ebola. Ufficialmente, nessun agente patogeno infettivo o materiale patogeno è stato trovato al di fuori della struttura, tuttavia la motivazione della chiusura affermava che “le misure di sicurezza erano insufficienti per prevenire con certezza la fuga di agenti patogeni“. Nessun collegamento certo con il coronavirus, ma la storia sembra quasi parallela a quella che era stata raccontata da molti del laboratorio di Wuhan incapace di contenere la fuga del virus.

Ancora una volta, si tratta di ipotesi e tasselli, non di certezze. Quanto basta, però, per dimostrare la scarsa attendibilità dei mass media occidentali, che raccontano solamente una versione della storia e spesso fanno più propaganda che informazione.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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