Non può essere considerato né come un incidente né come una casualità: l’omicidio di George Floyd Minneapolis si inserisce infatti nel più ampio contesto di un Paese, gli Stati Uniti d’America, le cui fondamenta poggiano sul razzismo. Dallo sterminio dei nativi, privati della propria terra, alla schiavitù, fino ad arrivare alla segregazione razziale ancora legale fino a non molti decenni fa, gli Stati Uniti devono la propria esistenza e la propria ricchezza al sangue versato da parte di schiavi e lavoratori salariati prevalentemente di etnia non caucasica.

Il fatto che il sistema permetta ad alcuni rappresentanti delle minoranze etniche di emergere, fino a diventare addirittura presidente del Paese, come nel caso di Barack Obama, non deve ingannare sulla natura di un sistema nel quale la discriminazione razziale è ancora ampiamente radicata, pur essendo formalmente contraria alla legge. Le eccezioni, tuttalpiù, possono essere utili come specchietto per le allodole, al fine di dare in pasto all’opinione pubblica nazionale e mondiale la storia del Paese democratico difensore dei diritti umani, nel quale tutti hanno pari opportunità. Nella maggioranza dei casi, poi, si tratta di quelli che Malcolm X avrebbe definito “negri da cortile”, coloro che difendono la causa dei propri oppressori, ricevendo in cambio un piccolo compenso.

Anche l’epidemia da nuovo coronavirus ha dimostrato come, negli Stati Uniti, le differenze di razza siano ancora assai marcate. I tassi di contagio e letalità risultano molto più elevati tra le minoranze etniche, che in genere appartengono anche alle classi sociali meno agiate. In tale contesto, la questione razziale e quella di classe si sovrappongono, e non sono assolutamente in contrasto fra loro: le classi lavoratrici e le minoranze etniche, che rappresentano una fetta consistente delle prime, vanno a costituire ciò che Fidel Castro, in seguito alle sue quattro visite a New York, aveva definito “il terzo mondo degli Stati Uniti”.

Non deve sorprendere, dunque, che l’ennesimo atto di violenza omicida gratuita nei confronti di un uomo di colore da parte di un rappresentante delle forze dell’ordine, dunque un rappresentante dello stato, abbia scatenato una vera e propria rivolta popolare, che, oltre a Minneapolis, luogo del fattaccio, ha coinvolto oltre trenta città in tutti gli Stati Uniti. Nella sola Minneapolis, sono state arrestate quasi 1.400 persone dall’inizio delle proteste, spesso represse con nuove violenze da parte delle forze dell’ordine e dell’esercito. Ma stiamo parlando degli Stati Uniti, e dunque quasi nessuno grida allo scandalo ed alla violazione dei diritti umani, come invece si farebbe se le stesse immagini di arresti di massa arrivassero da Cina, Venezuela o Iran.

Lo stesso dicasi per le violenze perpetrate da parte della polizia nei confronti di giornalisti e reporter che stavano documentando i fatti, in diversi casi finiti anche momentaneamente in manette, soprattutto se di carnagione troppo scura. Ma, ancora una volta, non si tratta di qualche blogger dissidente in un Paese classificato come dittatura, e dunque i mass media occidentali non trovano il fatto così scandaloso, neppure quando le vittime dei soprusi sono colleghi.

Nella città di New York, ad esempio, si sono verificati episodi incresciosi, come l’utilizzo gratuito di lacrimogeni contro i manifestanti, mentre un mezzo delle forze dell’ordine ha addirittura investito un gruppo di manifestanti; eppure, il sindaco Bill De Blasio, del Partito Democratico, ha preso le difese della polizia, affermando che si trattava di una situazione eccezionale: “Non darò la colpa agli agenti che stavano cercando di affrontare una situazione assolutamente impossibile”. Nei momenti che contano, come al solito, i politici democratici dimostrano di essere molto simili rispetto ai propri colleghi repubblicani, come il presidente Donald Trump, che, a mo’ di Bava Beccaris, ha addirittura minacciato l’uso delle armi da fuoco sulla folla da parte dell’esercito.

Ancora una volta, gli Stati Uniti dimostrano essere uno dei Paesi al mondo che perpetra il maggior numero di violazioni dei diritti umani, tanto nei confronti dei propri cittadini quanto – e soprattutto – nei confronti di quelli di altri Paesi. Come Washington si arroga spesso il diritto di giudicare le questioni di politica interna riguardanti altri stati, questa volta la lente d’ingrandimento della comunità mondiale è puntata su Minneapolis e dintorni. L’Unione Africana, ad esempio, ha condannato l’omicidio di George Floyd e le violenze razziali perpetrate nel Paese nordamericano contro i cittadini di colore.

Il generale, Abolfazl Shekarchi, portavoce dell’esercito iraniano, ha affermato che gli scontri che si stanno verificando negli Stati Uniti rappresentano i prodromi del prossimo “crollo del Paese”. Shekarchi, inoltre, ha affermato che la repressione delle manifestazioni è disumana, e che questa dimostra la fallacia della democrazia a stelle e strisce: “In questi giorni l’arrogante governo degli Stati Uniti ha mostrato, più che mai, il suo volto disgustoso e disumano nell’affrontare le proteste popolari e ha scosso le basi della sua fallace democrazia ricorrendo ai metodi più violenti e repressivi”. Le autorità iraniane hanno inoltre classificato come razzisti gli atteggiamenti del presidente Trump.

Tra l’epidemia da nuovo coronavirus, che negli Stati Uniti ha già causato oltre 100.000 morti, e l’ondata di proteste popolari per l’omicidio di George Floyd, il presidente Donald Trump si trova in una situazione che potrebbe seriamente compromettere la sua rielezione. Ma tale contesto potrebbe anche contribuire a riscrivere qualcosa di più importante, come la storia di un Paese che, come al momento della sua nascita, continua a fondarsi sulla discriminazione, sul razzismo e sullo sfruttamento. La mera condanna da parte del poliziotto omicida, Derek Chauvin, non sarà sufficiente ad imporre questo cambiamento: solo la persistenza della lotta popolare potrà raggiungere tale obiettivo.

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Giulio Chinappi – World Politics Blog

Di Giulio Chinappi - World Politics Blog

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, “Educazione e socializzzione dei bambini in Vietnam”, Paese nel quale risiede tuttora. Nel suo blog World Politics Blog si occupa di notizie, informazioni e approfondimenti di politica internazionale e geopolitica.

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