Qual è la situazione ideale per un ricominciamento radicale? Qual è lo stato interiore migliore entro il quale spendere tutte le energie a disposizione? Qual è la dimensione dell’essere umano per lui più feconda e carica di desiderio vitale, che lo incita a smuovere quelle sabbie fino a quel momento troppo inabissate per essere sollevate?
Secondo la psicologia del profondo una delle risposte più concrete è esattamente lo stato di emergenza. È nel punto più basso della parabola, quella vicino alla linea di terra, anzi, nel punto leggermente sotto quella linea, è lì che si tocca lo stato di emergenza. Ed è proprio lì che si creano le condizioni per una rinascita.
Lo psicologo junghiano James Hillman a proposito di questo stato limite diceva che è attraversandolo che si fa esperienza di un’«iniziazione ad una nuova coscienza della realtà»[i]. Sempre utilizzando il suo linguaggio potremmo dire che l’esperienza del «tradimento» (stato di emergenza) permette all’infante (puer) di imparare l’arte della responsabilità. Quindi in quella criticità assoluta, di fare un vero e proprio balzo in avanti, e diventare adulto (senex).
Chiunque abbia esperienza di questo (riflettendo sulle molteplici occasioni in cui si è riusciti a uscire da una condizione di soffocamento o di pericolo per la propria esistenza) non farà fatica a cogliere come ovvia questa “semplice” verità. Solo partendo da questa valutazione fenomenologica dell’anima umana è possibile considerare come potenzialmente positiva ogni forma di emergenza, di destabilizzazione e di aiuto che, volente o nolente, siamo costretti ad affrontare.

Negli ultimi mesi siamo stati tutti accomunati da uno stesso stato di emergenza. Dalla politica alla società civile, tutti si sono percepiti come imprigionati nella terribile morsa dell’emergenza. Mascherine, distanze, abluzioni continue, sono solo alcuni dei gesti esemplificativi che da mesi condizionano la nostra esistenza, facendo da sfondo a questa distopica realtà. Una realtà emergenziale che come abbiamo avuto modo di sperimentare ha almeno due modalità di infiltrarsi nella vita quotidiana di ognuno di noi: la modalità infettiva e quella economica. Entrambe mortali.
Eppure, stando alle considerazioni fin qui tenute, se spostassimo il discorso dal particolare – l’interiorità dell’uomo – e lo estendessimo all’universale – l’intero paradigma socio-culturale dominante – scopriremmo che oltre all’aspetto drammatico c’è una dimensione più profonda della crisi, dove ciò che impedisce una svolta collettiva e unitaria è la mancanza di una interpretazione potenzialmente evolutiva dello stato di emergenza. Dopo essere stati redarguiti e richiamati all’ordine in forme e maniere che nel migliore dei casi potremmo definire scolastiche e infantili (es. le autocertificazioni); dopo aver attraversato momenti di totale restrizione e di mancanza d’aria; dopo tutto questo – a oggi – resta ancora un miraggio qualsiasi ricorso al pensiero creativo. A quel pensiero capace di trasformare la pena in opportunità, l’emergenza in occasione. Ma dove sono le parole e le immagini per una proposta che sia davvero di crescita e di progresso? Dove sono le risposte giuste, all’altezza della sfida che stiamo vivendo globalmente?  

Arrivati a questo punto c’è da fare qualche precisazione per non rischiare malintesi. Infatti, quel particolare stato che ormai abbiamo considerato come propizio, rivelativo, potenzialmente salvifico – lo stato di emergenza – è da intendersi in questo modo solo ed esclusivamente se circoscritto all’interno di uno spazio esperienziale limitato nel tempo. Lo stesso Hillman parla di stato «paranoide» quando questa evoluzione non avviene, e si rifluisce ristagnando nella tragedia, nello shock dell’emergenza. Bene, a me sembra che questo intoppo si stia verificando. Ed è normale che ciò accada se non si mettono in moto, contemporaneamente alle legittime tecniche di amministrazione, di contenimento dello stato infiammatorio, quelle altre tecniche che permettono di osservare la situazione dall’alto, e di proiettarsi in un futuro di guarigione dove ciò che era impossibile può divenire attuabile. Mi riferisco al pensiero, all’arte(tecnica) dell’infinitamente imperscrutabile. Solo attivando quest’altra parte della nostra ragione, non necessariamente fissa sulle decisioni temporanee, riusciremo a risolvere ogni trauma.
Per fare un esempio di estrema attualità, quando il 28 luglio 2020 ho letto su la Repubblica che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, dichiarava che «la proroga dello stato di emergenza non incide sui poteri del presidente del Consiglio di emanare decreti» e che «il potere di emanare Dpcm è al momento correlato alla data del 31 luglio non perché ci sia una formale connessione tra Dpcm e stato di emergenza ma perché questo prevede la norma di rango primario legittimante»[ii] la domanda che mi sono posto è: fino a che punto è legittimo parlare di proroga? In quale momento sarebbe più opportuno ritornare a una situazione “normale”? Il presidente del Consiglio e i parlamentari che hanno approvato questa richiesta di proroga sono coscienti di vivere in un tempo storico che non ha solo alcuni periodi di emergenza, bensì, è esso stesso emergenziale? Allora dovremmo avere sempre «un cauto livello di guardia» – come dichiara il presidente Conte – e perché, in caso, non lo avevamo anche prima? 

Tale precisazione sembra una scrematura di superficie, ma non lo è. Ogni prolungamento dello stato di emergenza è un rischio per la tenuta democratica di un Paese. È un precedente temibile. Persino l’autorevole giuspubblicista ed ex giudice costituzionale Sabino Cassese se n’è accorto, e ha sottolineato il fatto che «se scoppiano nuovi casi preoccupanti, si può sempre dichiarare l’emergenza in un’ora, il tempo di riunire il Consiglio dei ministri»[iii]. Lo stesso filosofo Giorgio Agamben ha da sempre ricordato nei suoi scritti la delicata condizione dello “stato di eccezione” elaborato da Carl Schmitt. «Il funzionamento dell’ordine giuridico – scrive Agamben – riposa in ultima istanza, nella prospettiva schmittiana, su un dispositivo – lo stato di eccezione – che ha lo scopo di rendere applicabile la norma sospendendone temporaneamente l’efficacia. Quando l’eccezione diventa la regola la macchina non può più funzionare»[iv], a meno che – aggiungo io – non si desideri inaugurare una deriva oligarchica a tutti gli effetti. 

Allora forse è bene ribadire che sì, c’è differenza tra oligarchia e governo popolare; e che tale differenza si evidenzia proprio nei momenti in cui lo Stato “forte” arriva a soddisfare l’esigenza di tutela complessiva delle minoranze e della salute pubblica, ma mai portando in nuce il desiderio di prolungarsi nel tempo. Anzi, più uno Stato è “forte” – in democrazia – più dovrebbe sentire il bisogno di depotenziarsi al più presto. Se ciò non accade, è bene mettersi in guardia. Spesso infatti, negli ultimi anni, ciò che ha preoccupato una certa parte della politica e dell’intellighenzia di sinistra è stato lo spettro di un certo revanscismo nostrano, spesso bannato come “fascismo” che – a detta di costoro – sarebbe il pericolo più grande contro cui combattere. Può darsi. Però a me sembra che si sottovaluti sempre più l’altro spettro di natura più invisibile, partorito da uno specifico modo di intendere il liberalismo. Uno spettro che potremmo definire con un termine tranchant, totalitario, che non guarda in faccia nessuno, e che si impone nell’agorà nazionale e internazionale come un capo reggimento piovuto dall’alto. Senza che nessuno possa intimargli né l’arresto, né la fine dei giochi. Su quest’ultimo caso, a mio avviso, c’è ancora molto da meditare. Evitando di farsi troppi scrupoli poiché «i nemici più pericolosi sono quelli da cui l’uomo non pensa a difendersi»[v] scriveva il poeta Arturo Graf. Ma il poeta, si sa, è l’ultimo degli uomini ascoltati e presi sul serio sul pianeta: da sempre, da chiunque, e in ogni tempo. Per questo egli vince, dove gli altri perdono per mancanza di tempismo.

Vorrei ora riprendere il filo del discorso iniziale che, per motivi dialettici, si è articolato concentrandosi sulla critica – condivisibile o meno – del modus operandi di questo specifico governo.

Il punto fondamentale verteva sulla necessità di riuscire a convertire lo stato di emergenza, in cui noi tutti siamo immersi, in una convinta e sana lotta per la conquista di un incremento di libertà. Il poeta boemo Rainer Maria Rilke scrisse in una lettera: «le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essersi spinti, in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare»[vi].
Anche se in questo caso l’esperienza ci ha sopraggiunti, invece che scaturire da una nostra cosciente volontà di indagine creativa, credo che queste parole possano comunque aprirci a quella che Hillman chiamava una «nuova coscienza della realtà». Il «limite estremo» di cui parla il poeta, nel nostro caso, è già stato superato da molto tempo. Lungo è l’elenco delle realtà limite che oggi risultano essere degli ultimatum: dall’allarme ecologico planetario, alla crisi della rappresentanza politica; dalla degenerazione di una tecnica prometeica, alla scomparsa di un orizzonte di vita comune e sostenibile. Tutto questo è il vero stato di emergenza da cui decidere di ripartire. Sono sicuro che questo nostro “pericolo” sia il preludio per l’avvento di una enorme, globale e impensata, opera d’arte. Ma resto altrettanto sicuro del fatto che nessuna novità futura potrà avvenire senza una seria presa di coscienza del baratro in cui ci troviamo.
Nel 1992 un grande pensatore profetico, il cui nome era Ernesto Balducci, scrisse alcune parole che mi sono rimaste impresse nella mente. Si tratta di una di quelle sintesi argomentative capaci di essere, da sole, la cifra del nostro tempo e del tempo a venire: «la lezione che ci viene dalla storia della specie è che, messa di fronte ai dilemmi estremi – e ormai il dilemma è tra vita e morte – essa è in grado di rivelare insospettate risorse creative. La novità è affidata alle viscere della necessità»[vii].
Finché non saremo in grado di tradurre questa novità in un discorso comune che possa toccare la pancia delle persone e farle sentire partecipi di quella che è la lotta per la vita; se non riusciremo a superare la paura dell’emergenza e gli annessi corollari di decadimento culturale e politico che quest’ultima si trascina dietro; se non riusciremo in questo intento allora, andremo rovinosamente di baratro in baratro senza nessuna via di uscita. La necessità di cui parla Ernesto Balducci è esattamente questa. A noi la scelta.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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