Se accetti di equiparare i fascisti repubblichini di Salò ai partigiani, alla fine puoi anche fare un governo con la Lega, con Forza Italia e continuare ad affermare che, nonostante tutto quello che ti hanno fatto ingoiare, sarai un partito democratico, progressista, magari un po’ liberale sul fronte dei diritti, magari un po’ liberista su quello economico, ma sì, in fin dei conti sei pienamente inquadrabile nel contesto politico e sociale di un Paese privo di riferimenti ideologici.

La deriva della sinistra di governo, quella nata col craxismo, che uccise l’anima e l’essenza di quel che rimaneva di socialismo nel PSI, proseguita con il partiticidio del PCI e la nascita del PDS, per terminare (?) con la fusione a freddo tra socialdemocratici e popolari, può segnare oggi una sua ulteriore tappa di evoluzione involutiva.

La probabile nascita del governo Draghi è la migliore cartina di tornasole per denudare un re che già da tempo ha dismesso i suoi vestiti: come si possano difendere i diritti dei lavoratori e dei ceti più deboli del Paese avvallando un esecutivo che avrà come maggioranza l’intero Parlamento, esclusa soltanto Giorgia Meloni e il suo partito conservator-sovranista, è un mistero risolvibile soltanto facendo ricorso alla divinazione, oppure alle tante capriole di incoerenza e di costante allontanamento dalla missione originaria persino di una forza iper-riformista come il PD.

Ma tanta sorpresa e tanto stupore si dissolvono ben presto se si guarda indietro, se si ripercorre la storia politica e sociale italiana degli ultimi quarant’anni. La ristrutturazione capitalistica degli anni della “Milano da bere“, mentre diveniva fase di ridimensionamento dei diritti operai nei rapporti con i sindacati, apriva un confronto con le istituzioni di amichevole scambio relazionale, facendo da apripista e da sostenitrice del prorompente ingresso sulla scena del craxismo, asse portante del connubio tra affari e politica (e viceversa).

La sinistra moderata, che perde inesorabilmente la sua anima, sembra in quei decenni risparmiare ancora il PCI, almeno fino al crollo del Muro di Berlino, allo schianto dell’URSS e alla possibilità per gli anticomunisti di ogni bandiera di dichiarare morto “il” comunismo, come se quello sovietico lo avesse rappresentato alla perfezione nella sua declinazione da “capitalismo di Stato” che avrebbe fatto venire l’orticaria tanto a Marx, Engels, Lenin e Rosa Luxemburg.

Dal 1989 in poi la storia ci racconta di una moderatismo riformista di sinistra che punta al governo a qualunque costo e che sacrifica tutta la sua storia, il rapporto con il suo popolo e persino sé stesso con lo scopo di essere comunque protagonista delle decisioni che vengono prese a Palazzo Chigi. Anche nell’apertura dell’era Draghi, il “governismo” è forma mentis di una disposizione non equivocabile al passaggio dall’ideologia alla prassi, tentando di mostrare e dimostrare che siano fattori in antitesi fra loro e che non possa esservi più sintesi tra aspirazione alla giustizia sociale e regole del mercato da moderate con un timido approccio progressista.

La scissione vera, a sinistra, si verifica in questa dicotomia: le ideologie sono frutto di fantastiche utopie e sono pertanto irrealizzabili. Ciò che conta è il momento presente, l’agire in funzione dell’interesse cogente dei mercati che vengono riconosciuti come gli unici possibili regolatori del benessere collettivo: le contraddizioni della globalizzazione pongono i riformisti neoliberisti ad una considerazione circa le imperfezioni del sistema. Un capitalismo che non va più stravolto, capovolto e superato: va solamente adeguato ai tempi e contenuto nelle sue pretese più voraci.

Per questo non deve sorprendere più di tanto se il PD si è dichiarato fin da subito, ma con meno veemenza di Italia Viva, fedele sostenitore di Mario Draghi: la storia di questi ultimi quarant’anni non solo comprende, ma sviluppa questo ulteriore salto di squalificazione per un partito che, a torto, viene ancora volutamente definito “di sinistra” da quella grande stampa nazionale che ha tutto l’interesse a mostrare il contrario di ciò che invece realmente accade.

La derubricazione delle idee a variabili dipendenti dei rapporti di forza tra i mercati è lo spirito teorico di una tattica, non tanto moderna quanto opportunista, che mira a un riposizionamento nella rivoluzione politica in corso. Davvero si può credere alla favola delle “conversioni” delle varie forze di ex maggioranza e di ex opposizione, solo per il fatto di avere davanti a sé Mario Draghi? Il futuro Presidente del Consiglio, fatta salva la sua indubbia capacità di organizzazione e gestione di grandi rami finanziari e bancari internazionali, è ciò che vogliono un po’ tutti, ciò che attendevano da tempo: una figura che viene percepita sincreticamente come la simbiosi tra rispetto istituzionale e rispetto dei bisogni dei grandi mercati.

Giuseppe Conte, a cui va riconosciuto il merito di essersi in due anni e mezzo costruito una personalità politica d’eccellenza in un palcoscenico istituzionale degli ormai soliti noti, non avrebbe potuto mai e poi mai essere alla bassezza di questo compito. Per quanto il suo governo meritasse una opposizione di sinistra di alternativa vera, non deve sfuggire che con Draghi siamo innanzi ad un abbandono del compromesso tra le parti: politiche, sociali, corpi intermedi. La fase delle consultazioni regala questa illusione: l’ascolto di tutte e tutti, assolutamente democratico e, del resto, almeno formalmente opportuno (e opportunistico).

Ma il governo che sta per nascere avrà nella supervisione dell’occhio e della mente di un uomo della grande finanza e delle grandi banche, senza dubbio l’ultima parola. Il confronto tra le posizioni differenti di una maggioranza di governo tutta politica, lascia ora il passo a qualcosa di inatteso e di inconsueto nella storia repubblicana dell’Italia. Le vecchie grandi alleanze che mettevano insieme cattolici e comunisti rifondati, saranno un ricordo del passato, perché a sostituirle per altezza e lunghezza (ma non per spessore) sarà un enorme rassemblemant il cui unico punto di incontro è la concorrenza politica nella spasmodica ricerca del posto di neo-rappresentanti degli interessi economici dominanti.

Discorso a parte merita Liberi e Uguali, dalla consistenza politica somigliante ad una confederazione di partiti indipendenti. Fratoianni ha dichiarato, a nome di Sinistra Italiana, di mettere come unica pregiudiziale per un suo ingresso nella grande maggioranza draghiana l’esclusione della Lega. Ma, davvero, viene servita su un piatto d’oro la critica che ne consegue: adesso una sinistra antiliberista, quale si dichiara essere SI, accetta nel nome del “bene della nazione” di condividere quello spazio di gestione pubblica con un partito come Forza Italia?

Siamo davvero molto oltre i confini del vecchio “Ulivo” e perfino del perimetro ben più ampio de “L’Unione“. Sia detto con obiettività, ma davvero Sinistra Italiana e LeU nel suo insieme ritengono di poter condizionare “da sinistra” una maggioranza eterogenea e così liberisticamente ampia come quella che si va formando? La residualità evidente delle posizioni di sinistra dovrebbe essere lampante, lapalissiana: dovrebbe essere la prima evidenza che salta agli occhi. Non fosse altro per il punto di partenza e di accomunamento su cui tutti si dicono convergenti: un banchiere dell’alta finanza, un regolatore delle politiche di austerità europee in piena sintonia con il Fondo Monetario Internazionale e con le altre centrali economiche del pianeta.

Un tempo non vi sarebbe stata nemmeno discussione in merito: un partito avversario del capitalismo liberista, delle privatizzazioni, della precarietà lavorativa, avrebbe detto immediatamente NO a qualunque proposta di convergenza con forze di destra. Adesso, visto che Forza Italia appare come soggetto politico moderato rispetto al sovranismo dei suoi alleati sovranisti, può cadere la pregiudiziale verso il partito di Berlusconi. I programmi possono solo peggiorare questa miope visione di valorizzazione delle forze di sinistra rimaste nel Parlamento, visto che l’agenda di Draghi parla apertamente di “europeismo” (non certo dei popoli e della giustizia sociale) e di “atlantismo“.

Il dilemma in cui si dibatte Sinistra Italiana è da rispettare: chi ha fatto la scelta di aderire al governo Conte bis, è restio ad abbandonare l’asse del tridente formatosi tra LeU, PD e Cinquestelle. Per questo, la soluzione più semplice, ossia un voto contrario a Draghi e una valutazione di volta in volta dei provvedimenti presentati dal governo alle Camere, diventa paradossalmente quella più complicata. Ma le incognite sul terreno restano molte: prima fra tutte la piattaforma Rousseau e il voto slittato, così da permettere a Grillo di tenere (si fa per dire…) in scacco Draghi fino alla composizione del governo.

Ma gli attorcigliamenti della sinistra moderata non lasciano molto margine di speranza nel vedere, prossimamente, una opposizione in Parlamento che non abbia esclusivamente il marchio sovranista e neonazionalista della Meloni come unico emblema, come unica critica possibile al draghismo. Significherebbe lasciare alla destra estrema la protesta popolare che emergerà, favorendo così due volte i peggiori volti della politica italiana: una Lega che dal governo si fa “rispettabile” grazie alla sua svolta europeista e Fratelli d’Italia che dall’opposizione raccoglie il resto.

Uno scenario a dir poco inquietante, di cui potremmo pagare il prezzo tra non molto tempo…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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