Fotografia di Sebastião Salgado pubblicata su Ancora Fischia il Vento. Gruppo di hutu che fuggono il massacro. In primo piano machete l’  arma principale per massacrare.

Francesco Cecchini

“In Ruanda vidi la brutalità totale, vidi la gente morire a migliaia al giorno. Persi la fiducia nella nostra specie. Non credevo che fosse più possibile per noi vivere.”                                                  

Sebastião Salgado

L’  ultimo numero di Le Monde diplomatique pubblica un importante dossier sul genocidio in Ruanda. Dal  6 aprile al 16 luglio 1994 si compì in Ruanda, piccolo stato dell’Africa centrale, nella regione dei Grandi Laghi, il genocidio dei Tutsi e degli Hutu moderati per mano  degli ultrà dell’Hutu Power e dei membri dell’ Akazuo, un’   organizzazione estremista Hutu. Per circa 100 giorni, in Ruanda vennero massacrate sistematicamente, a colpi di armi da fuoco, machete pangas e bastoni chiodati, da 800.000 o 1.000.000 persone, non esiste una contabilità precisa. In 4 pagine, dal titolo Ruanda, Luci sul Genocidio, Le Monde diplomatique racconta le responsabilità che hanno favorito uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità del XX sacolo.

LA RESPONSABILITA’ DEL BELGIO.

Innazitutto vi è la responsabilità storica del Belgio potenza coloniale. Nel 1923 la Società delle Nazioni affidò al Belgio le colonie tedesche del Ruanda e del Burundi. I belgi si trovarono ad amministrare in Rwanda una popolazione che comprende gli allevatori guerrieri, i Tutsi, e i coltivatori, gli Hutu, che sono la maggioranza. I Tutsi, ritenuti più adatti al comando, vennero designati come alleati del potere coloniale. Gli Hutu, invece, vengono messi ai margini. Nel corso degli anni l’odio tra i due gruppi etnici cresce proporzionalmente al potere che i belgi attribuiscono alla minoranza Tutsi. I belgi introdussero anche  un sistema di carte d’identità  etniche che differenziava gli hutu dai tutsi.

L’  azione del Belgio sulle sorti future del Ruanda f u decisivo. Le divisioni fra Hutu e Tutsi furono pietrificate. Gli Hutu vennero esclusi da tutte le cariche della società civile e politica. Fra gli Tutsi cominciò a serpeggiare un sentimento di superbia favorito dalle politiche razziali belghe. Il risentimento degli hutu crescerà giorno dopo giorno nei confronti dei Tutsi. Agli occhi degli Hutu, i Tutsi erano corresponsabili di tutti i torti e di tutte le angherie subite, dall’  imposizione del lavoro forzato a tutte le espropriazioni imposte. Se da una parte i Tutsi si convinsero della loro “superiorità genetica”, gli Hutu cominciarono a vederli come invasori venuti dall’Etiopia a soggiogare gli originari e legittimi abitanti della terra ruandese: gli Hutu.

LA RESPONSABILITA’ DELLA FRANCIA.

Nel maggio 2019 il presidente Emanuel Macron ha ordinato la creazione di una commissione per analizzare il ruolo della Francia in Ruanda dal 1990 al 1994 attraverso ricerche d’archivio, anche se non tutti gli archivi siano stati resi disponibili. Il rapporto della comissione, guidata dallo storico Vincent Duclert, ha concluso che sebbene non vi siano prove di complicità, però la Francia ha avuto “responsabilità schiaccianti” nel genocidio del 1994 in Ruanda ed è stata “cieca” ai preparativi per i massacri.

Comunque oltre e prima del rapporto Duclert esisteva una vasta documentazione, che provava il coinvolgimento attivo e consapevole della Francia nei preparativi del genocidio. Parigi era a conoscenza del piano di sterminio e lo aveva supportato e facilitato. L’ analisi della giornalista investigativa Linda Melvern, autrice del libro Conspiracy to Murder: The Rwanda Genocide: The Rwandan Genocide del 2004,  fatta sui documenti rilasciati dall’archivio di Parigi dell’  ex presidente François Mitterrand mostra come l’   invasione del RPF di Paul Kagame nell’ottobre 1990 fosse considerata da Parigi come una chiara aggressione da parte di un vicino anglofono in un paese francofono. La Francia nel 1991 impedì a Paul Kagame di conquistare il Ruanda, combattendo  i ribelli tutsi e respingendoli oltre frontiera in Uganda. I soldati francesi supportati dalla Guardia Presidenziale dello Zaire, combatterono per conto del regime  ruandese degli Hutuin quanto le sue forze armate erano incapaci di sostenere lo scontro militare contro i ribelli di Kagame. Quando Parigi constatò che la sconfitta inflitta al RPF era una vittoria di Pirro, nel governo Mitterrand nacque la convinzione dell’esistenza di un piano Anglo Americano per diminuire l’influenza (e gli affari) francesi nella Regione dei Grandi Laghi. La convinzione dettò la necessità di sostenere senza riserve il regime HutuPower di Habyarimana e successivamente il governo provvisorio formato dalla moglie e i generali dopo aver liquidato il Presidente ruandese e i ministri Hutu moderati. La tesi si basava sulle alleanze di Kagame: Uganda, Etiopia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Israele, con beneplacito del Canada.

Già nel 1998 lo storico Gérard Prunier era stato ascoltato a Parigi alla Camera dei Deputati nell’   ambito di una Missione d’   Informazione sul Ruanda. In lungo e dettagliato intervento Gérard Prunier, autore The Rwanda Crisis: History of a Genocide del 1995,  criticò il comportamento della Francia in Ruanda e puntò il dito sull’ operazione Amarlillis e sulla Turqoise.  Nei primi giorni del genocidio, la Francia lanciò Amaryllis, un’operazione militare con l’impiego di 180 paracadutisti, assistiti dall’esercito belga e da UNAMIR, per evacuare dal Ruanda gli espatriati. L’  operazione fu  descritta da Gerard Prunier come una vergogna, dato che francesi e belgi non permisero ad alcun tutsi di seguirli; quelli che erano saliti sui camion dell’evacuazione furono costretti a scendere ai posti di blocco del governo ruandese, dove venivano uccisi. I francesi separarono anche alcuni espatriati dai rispettivi coniugi tutsi, mettendo in salvo gli stranieri ma abbandonando i ruandesi alla probabile morte. I francesi, tuttavia, salvarono effettivamente alcuni membri importanti del governo di Habyarimana, ed anche sua moglie, Agathe.                                           Critcò anche l’  Operazione Turquoise, missione francese su mandato dell’  Onu, avviata nel giugno ‘94 con l’  obiettivo di porre un freno alle violenze in atto nel paese, perché si dimostrò incapace di fermare o almeno porre un limite ai massacri in corso. Alla fine di giugno 1994, la Francia lanciò Opération Turquoise, una missione a mandato ONU per creare zone umanitarie sicure per sfollati, rifugiati, e civili in pericolo; da basi nelle città zairesi (Congo) di Goma e Bukavu, i francesi penetrarono nel Ruanda sudoccidentale e istituirono la zone Turquoise, nel triangolo Cyangugu–Kibuye–Gikongoro, una zona equivalente a un quinto del Ruanda. Radio France Internationale stima che Turquoise abbia salvato vite,  ma la scelta di tempo dell’ invasione, quando il genocidio volgeva al termine e l’  RPF, Rwandan Patriotic Front,  prendeva il sopravvento, indusse molti ruandesi ad interpretare Turquoise principalmente come una missione volta a proteggere dall’  RPF gli hutu, anche quelli che avevano partecipato al genocidio. I francesi rimasero ostili all’  RPF, e la loro presenza arrestò temporaneamente l’avanzata RPF. Secondo HRW( Human Rights Watch), Opération Turquoise aveva uno scopo: impedire una vittoria dell’  RPF.  HRW riferì che alcuni ufficiali a Parigi avevano apertamente parlato di “spezzare la schiena dell’RPF.”  Ad ogni modo, la presenza militare francese aiutò di fatto gli autori del genocidio a sottrarsi all’  RPF riparando nel vicino Zaire (Congo).

LA RESPONSABILITA’ DELL’ ONU.

UNAMIR, United Nations Assistance Mission for Ruanda, fu una missione dell’  ONU che durò dall’  ottobre 1993 al marzo 1996. Lo scopo dell’  UNAMIR era quello di calmare le tensioni etniche nel paese tra gli Hutu, che governavano il paese, e la minoranza Tutsi, in gran parte raccolta nel Fronte Patriottico Ruandese (FPR). Il mandato era quello di assicurare la sicurezza della capitale Kigali, monitorare il rispetto del cessate-il-fuoco tra le parti, la smilitarizzazione delle fazioni, garantire sicurezza nel paese durante il governo di transizione, indire nuove e democratiche elezioni, coordinare gli aiuti umanitari ed effettuare lo sminamento del paese.

L’   UNAMIR è considerato il più grande fallimento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, per la mancanza di regole di ingaggio chiare e soprattutto per non essere riuscita ad evitare il genocidio ruandese.  Il telegramma in codice che il generale Dallaire, capo di UNAMIR, testimone diretto ed autore di un diario sui giorni del genocidio,  inviò a New York il 15 gennaio 1994, chiedendo il permesso di smantellare i nascondigli di armi, non ebbe la risposta che si aspettava: il dipartimento delle operazioni di mantenimento della pace, diretto a quel tempo da Kofi Annan, vietò ogni intervento (Romeo Dallaire, J’ai serré la main du Diable, la faillite de l’humanité au Ruanda, La Libre Expression, Montréal, 2003).

È paradossale che l’  allora segretario generale dell’Onu fosse Boutros Boutros Ghali, colui che da ministro degli Esteri egiziano aveva aperto il canale di convogliamento delle armi francesi in Ruanda, poi utilizzate per il genocidio. Ancor peggio è dover constatare che i funzionari le cui scelte condussero al genocidio furono poi premiati con prestigiose promozioni.

Kofi Annan che, capo del dipartimento Onu di peacekeeping (Dpko), nel gennaio 1994 vietò al generale Dallaire di condurre le azioni che avrebbero potuto impedire il genocidio: Annan fu in seguito eletto segretario generale dell’Onu nel 1997 e insignito del Nobel per la Pace 2001. A Kofi Annan va addebitata gran parte delle scelte che portarono dal rifiuto di ogni azione preventiva (nel gennaio 1994) fino alla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu del 21 aprile 1994 di ridurre drasticamente gli effettivi della Forza Onu in Ruanda (UNAMIR), quando il genocidio procedeva al ritmo di oltre 10 mila vittime al giorno. Con ciò, la comunità internazionale dava di fatto via libera allo sterminio, non appena i militari francesi e italiani avessero completato l’evacuazione di tutti i “bianchi” presenti in Ruanda. Il genocidio fu interrotto solo tre mesi (e un milione di vittime trucidate) più tardi, dal Fronte patriottico ruandese di Paul Kagame, che conquistò Kigali il 4 luglio 1994.

L’ IRRESPONSABILE SILENZIO DEI PAESI AFRICANI.

Nel 1995 la conferenza africana francofona si aprì con un minuto di silenzio in memoria del presidente Habyarimana, ma nessuno ricordò le vittime del genocidio. Nonostante l’ energica presa di posizioni di Nelson Mandela i paesi africani non hanno denunciato il genocidio in Ruanda, probabilmente interpretandolo come un fatto puramente interno.

LA RESPONSABILITA’ CATTOLICA.

Durante il Ruanda colonia belga missionari cattolici seguirono le indicazioni del cardinale Charles Lavigerie, che raccomandava di scommettere sui tutsi, ritenuti “più adatti al comando” e già agli occhi dei tedeschi una “razza superiore” originaria dell’Abissinia.

Il 24 marzo del 1957 viene pubblicato in Ruanda un documento di 12 pagine intitolato: “Note sull’aspetto sociale del problema razziale indigeno nel Rwanda”, redatto da nove intellettuali hutu che si definiscono “cristiani impegnati”.

Alcuni studiano presso il seminario di Kigali, Kayibanda e Niyonzima sono i redattori del giornale ufficiale della chiesa cattolica Ruandese: “Kinyamateca”, che è l’unico organo di stampa locale permesso dalle autorità coloniali belghe. Uno di loro, Milidadabi è il segretario al vescovato di Kabgayi oltre che direttore dell’ Azione Cattolica in Ruanda. Un ruolo fondamentale nella redazione e nella diffusione del Manifesto Bahutu lo ebbe la congregazione missionaria belga dei “Padri Bianchi” mascherando l’appoggio al Manifesto con “la promozione di un’era di maggior giustizia e democrazia nella societa’ ruandese”.

Il documento, chiamato Manifesto Bahutu,  si basa sulla teoria “storico-etnica” inventata dal colonialismo belga che individua i tutsi come una popolazione nilotica proveniente da Etiopia e Egitto che colonizzò il Ruanda schiavizzando la popolazione locale Hutu. Questa è la teoria dalla cui partenza il Manifesto Bahutu rivendica un “processo democratico” nel paese capace di metter fine alla secolare supremazia dei tutsi e al “servilismo feudale” cui gli hutu erano costretti. Si può notare come gli autori del documento, attraverso un abile falsificazione storica, identificano gli hutu come vittime del “colonialismo tutsi”. La tesi è sviluppata grazie alla teoria del “colonialismo a due fasi” che individua come “prima fase” il colonialismo dei tutsi sugli hutu e come “seconda fase” il colonialismo belga in Ruanda. Il manifesto Bahutu è quindi in realtà un manifesto razziale, che si basa sulla distinzione di due blocchi etnici incitando una parte della popolazione (gli hutu) a ribellarsi contro i tutsti anziché parlare di popolazione ruandese nel suo insieme e individuare nel colonialismo belga il vero male del paese.

Durante il genocidio cattolici locali massacrarono. Molte delle vittime sono morte per mano di sacerdoti, ecclesiastici e religione, secondo alcuni resoconti dei sopravvissuti e il governo ruandese ha dichiarato che molti sono morti nelle chiese dove i civili perseguitati avevano disperatamente cercato rifugio. Nei primi giorni caotici del genocidio, più di 2mila persone avevano cercato rifugio nella più grande chiesa cattolica del Paese, l’église de la Sainte-Famille della capitale Kigali. Molti furono consegnati agli assassini da uno dei parroci, arruolati ufficialmente nelle milizie hutu. Significativa la vicenda del sacerdote Jean-Baptiste Rutihunza accusato di gravissimi crimini nell’ ambito del genocidio in Rwanda, rifugiatosi in Italia al quale nel 2014 è stata negata l’ estradazione e può stare in Vaticano presso il quartiere generale dei Fratelli della Carità. Padre Rutihunza era rappresentante legale di una struttura religiosa gestita dai Fratelli della Carità presso la cittadina di Gatara, nel distretto meridionale di Nyanza. Il centro ospitava in quel periodo centinaia di bambini con gravi problemi motori e, stando a quanto raccontato da diversi sopravvissuti ma non accolto dal Tribunale italiano, il religioso che oggi risiede in Vaticano avrebbe giocato un ruolo più che attivo negli eventi genocidari, indicando ai gruppi paramilitari hutu, tra cui i noti interahamwe, bambini hutu disabili da prelevare e uccidere.

Sacerdote Jean-Baptiste Rutihunza

CONCLUSIONI.

A 27 anni di distanza, il Tribunale penale internazionale per i crimini commessi in Ruanda sta ancora portando avanti un lavoro di ricerca per condannare i responsabili anche se si tratta di un processo delicato e complicato. I carnefici, infatti, non sono identificabili facilmente perché ogni persona di etnia hutu avrebbe dovuto partecipare al massacro. Chi si fosse rifiutato sarebbe stato ucciso a sua volta. Per questo motivo si stima che le persone coinvolte nel genocidio sarebbero oltre mezzo milione tra mandanti, esecutori e altri crimini. .Delle difficoltà né è prova l’ assoluzione il 31 marzo scorso di Félicien Kabuga, che era, tra l’ altro accusato di aver creato, insieme ad altri, le milizie hutu Interahamwe, le principali organizzazioni armate del genocidio contro i tutsi del 1994. E per aver usato la sua fortuna, proprietario di centinaia di ettari di coltivazioni di tè, di molti beni immobiliari, nonché di una grossa azienda di import-export, per consegnare, tra l’ altro, migliaia di machete ai miliziani. E’ stato l’ ex presidente della famigerata Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM), che trasmise appelli per l’uccisione di tutsi, che chiamava scarafaggi.

Fotografia di Sebastião Salgado sul genocidio in Ruanda pubblicata su Ancora Fischia il Vento.

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

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