di FrancoFerrari

L’elevata astensione registrata alle elezioni comunali e accentuatasi al turno di ballottaggio al punto da avvicinarsi al 60%, è stata in genere commentata come potenziale crisi della democrazia, come espressione della crisi dei partiti oppure come inadeguatezza dei candidati. Non è mancato chi abbia ripescato la vecchia tesi per cui se l’elettore si astiene è perché in fondo è soddisfatto per come vanno le cose e chiunque vinca sa che continueranno ad andare per il meglio.

Nessuno, per quanto ne so, tra i frequentatori di maratone e salotti televisivi, ha ipotizzato che questo importante declino della partecipazione sia anche, se non principalmente, frutto dell’assetto istituzionale e dei meccanismi elettorali sui quali si basano le elezioni locali. Non stupisce più di tanto, dato che i grandi media sono stati sempre e pressoché unanimemente sostenitori di quel modello e ostili invece al ritorno a meccanismi di rappresentanza proporzionale.

Le elezioni comunali in particolare (ma lungo la stessa direttrice si muovono anche quelle regionali) si basano su due principi cardine: la semplificazione bipolare e la personalizzazione del confronto. Questo avviene anche a costo di (o proprio per) produrre importanti distorsioni nella rappresentanza. Si pensi che a Roma il PD avrà 18 consiglieri regionali, solo uno meno di tutti quelli attribuiti alle forze di opposizione. Ma con la differenza che il PD ha ottenuto il 16% dei voti, mentre le liste di opposizione (destra, 5 Stelle, Calenda) hanno ottenuto complessivamente il 70% dei voti.

Molto si è discusso sull’”adeguatezza” dei candidati, in particolare come ovvio per chi ha perso, senza interrogarsi se questa concentrazione dei poteri istituzionali attorno al “Sindaco-Re” che spesso si crede onnipotente perché votato direttamente e quindi superiore alle stesse forze politiche che lo hanno sostenuto, si traduca nel concentrarsi sulla persona, piuttosto che sul progetto politico e sugli interessi sociali di cui è portatrice. I sindaci eletti con questo sistema hanno un potere sproporzionato rispetto al contesto istituzionale (assessori, consigli, partiti, liste) ma tendono a diventare debolissimi nel confronto coi poteri economici e con i gruppi di interesse, perché si appoggiano su un vuoto di consenso e di partecipazione. Che ne siano o meno consapevoli, finisce che scelgono già in partenza di essere sempre più rappresentanza di questi centri di potere, che sono attivi e influenti ogni giorno, mentre l’elettore tende a svanire nel nulla e non più solo tra un’elezione e un’altra, ma nel giorno stesso del voto.

In questo contesto vanno valutati vincitori e vinti. Il PD esce vincitore anche se, come è stato notato i candidati eletti raccolgono spesso gli stessi voti dei perdenti di 5 anni fa. Ad esempio a Torino, vince Lo Russo per il centro-sinistra grazie ad un numero elettori corrispondente a quelli che ottenne Fassino  quando fu sconfitto dall’Appendino. Saranno necessarie analisi più raffinate per poter arrivare a conclusioni certe, ma sembra evidente che la composizione sociale del voto al centro-sinistra non si sia sostanzialmente modificato. Il PD, che domina largamente eterogenee coalizioni fatti di liste improvvisate o marginali, resta il riferimento di un ampio settore di oligarchia economico-finanziaria, di una quota importante di ceto medio garantito, di settori di società civile che si collocano un po’ più a sinistra (associazionismo, reti varie, persino qualche centro sociale) che abbisognano spesso di un sostegno istituzionale per sopravvivere e attorno ai quali si aggrega una quota di opinione che, pur critica verso il PD, ritiene che l’alleanza sia l’unica strategia possibile. Il cuore dell’elettorato PD resta insediato in quelle che sono state battezzate “zone ZTL”.

Dal lato degli sconfitti figurano due diverse opzioni populiste, quella più eterogenea e trasversale dei 5 Stelle (in un senso più ristretto, l’unica vera forza populista) e quella dei due partiti di destra (Lega, Fratelli d’Italia). Non è ancora chiaro se i 5 Stelle riusciranno a convertirsi in una versione populista “light”, componente stabile di un’alleanza di centro-sinistra a dominanza PD. Il loro dilemma è che più diventano un PD bis e più sono affidabili come alleati, e meno portano un elettorato diverso e quindi diventano relativamente inutili. Resta evidente che il progetto populista ha funzionato come aggregatore elettorale di scontento, ma l’analisi fondamentalmente sbagliata della crisi italiana, su cui hanno fondato la contrapposizione “popolo contro casta” e la conseguente incapacità di costruire una proposta politica coerente e un corpo di dirigenti e di quadri politico adeguato a sostenerla, ne hanno determinato la rapida crisi e forse l’inesorabile declino. I 5 Stelle hanno però rappresentato una reazione trasversale di settori di opinione provenienti dalla destra come dalla sinistra ad alcuni elementi di crisi del modello di sviluppo liberista in salsa italiana e non si può dire che quei nodi strutturali siano stati sciolti.

La variante della risposta populista interpretata da Salvini e Meloni, intesa in questo caso non come trasversalità nella frattura destra/sinistra ma nella radicalizzazione e semplificazione di un messaggio che resta fondamentalmente conservatore-reazionario e nella costruzione di una finta contrapposizione popolo (di destra)/ élite (di sinistra), ha sofferto di un momento di sconfitta. Non è facile prevedere se questa difficoltà temporanea porterà ad una effettiva riduzione di un consenso che resta ad altissimi livelli (circa il 40% secondo i sondaggi). In parte entrambi scontano una difficoltà oggettiva, in questo momento specifico, a trovare consensi all’estremizzazione verbale del conflitto. Poi però hanno difficoltà proprie che li differenziano.

La Lega nazionale di Salvini ha cercato di mantenere e consolidare il blocco elettorale del nord, con una forte impronta della piccola e media imprenditoria e di un ceto medio periferico, impaurito da alcuni effetti della globalizzazione e dallo sviluppo della dimensione sovranazionale europea, ma fondamentalmente ancorato ad un’ideologia liberista aggressiva. Contemporaneamente cavalcando l’insoddisfazione di settori di ceto medio ed anche popolari che si collocano tra i perdenti della globalizzazione. Questa coalizione elettorale è stata consolidata attorno all’asse xenofobo e alla paura degli effetti dell’immigrazione. Nel momento in cui questo tema tende a scivolare fuori dall’agenda politica, il consenso di Salvini, che richiede di essere alimentato dalla sovraeccitazione comunicativa (il contrario di ciò che fa Draghi), ha cominciato a sfaldarsi e il suo blocco di riferimento ha iniziato a spingere in direzioni diverse (come si è visto sulla questione del green pass).

Il partito di Giorgia Meloni si è inserito abilmente nelle difficoltà della Lega per sottrarre consenso. A sua volte soffre però di altre contraddizioni. Una delle quali, emersa con molto clamore in queste settimane, è il rapporto con la tradizione neofascista. Fratelli d’Italia, nasce dichiaratamente per evitare la dispersione di quella tradizione (la “sicura fede”, “l’idea”) ma la sua notevole crescita di consenso, pone in contraddizione questo desiderio di continuità storica e identitaria con l’acquisizione di un profilo di partito di governo, in grado di dirigere l’intero centro-destra. Per questo dovrebbe essere sufficientemente “potabile” per i poteri economici e finanziari (per i quali le nostalgie fasciste non hanno mai costituito una barriera insormontabile) e in grado di stare dentro il conflitto esistente tra l’establishment dell’Unione Europea e i governi della destra populista e neo-autoritaria senza mettere in difficoltà il sistema produttivo italiano. Si è molto ricamato sull’inadeguatezza di Michetti, quale candidato voluto dalla Meloni per la competizione romana. Il problema è che questa candidatura non è dovuta ad un infortunio politico, ma è effettivamente l’espressione di una visione politica che immagina di poter proporre un candidato esterno all’establishment ma vicino a certi umori popolari di piccola borghesia e di sottoproletariato, raccolti ed espressi attraverso una radio che alimenta temi complottisti. Il problema evidenziato dalla candidatura di Michetti è che rappresenta esattamente il “popolo immaginario” della Meloni ed esprime pienamente la sua incapacità di egemonia e di alleanza con settori più ampi di società. Salvini non sembra in grado di svolgere un’altra parte in commedia. Per ora non sembra che ci riesca nemmeno la Meloni, la cui vantata “coerenza” sembra più legata all’aver scelto di tenersi lontana da tutti i Governi e dalla disponibilità a cavalcare fasce di malcontento di scarso respiro, che non ad una vera visione complessiva dei problemi italiani e della loro soluzione.

Se questo è il quadro che abbiamo davanti (limiti del bipolarismo nell’ingabbiare il consenso di molti elettori, soprattutto nei ceti popolari; incapacità anche del PD post-renziano di uscire dalle “zone ZTL”; difficoltà e contraddizioni nelle diverse proposte populiste, quella trasversale e quella radicale di destra) si può ritenere che la situazione politica, anche alla luce delle prospettive economiche e sociali di medio periodo, non sarà di piena stabilizzazione. Esiste uno spazio almeno nel medio periodo di costruzione di uno strumento politico che dia rappresentanza alle esigenze di settori sociali che restano scoperti dalla attuale dimensione bipolare. Questo però richiede un lavoro di analisi e la costruzione di una proposta politica che non può essere la mera reiterazione di quelle esistenti.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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