Una società sempre meno bisognosa del ricorso alla Legge è una società che già gli antichi romani, legislatori ossessivo-compulsivi, definivano come ideale, più equilibrata ed armoniosa al suo interno. Lo “ius“, a distanza di tremila anni ab Urbe condita, rimane lo strumento regolatore principale di una vita complicata dentro la complessità di un sistema che non si affaccia soltanto più sulle sponde del Mediterraneo, ma che è globale.

La Legge, dunque, dovrebbe semplificare i rapporti di ogni tipo: economici, civili, morali tra gli altri. E dovrebbe fare in modo di impedire gli eccessi, le prevaricazioni, le prepotenze, gli abusi e tutte quante le discriminazioni.  Questo in linea di principio. Perché la constatazione della realtà è ben diversa.

Si tratta di un discorso che non riguarda soltanto l’Italia di oggi, quella impregnata di sovranismo, liberismo, immersa nella crisi pandemica, ma tutti i popoli, tutti i continenti. Siccome non esiste una legge universale, a parte le belle carte dei diritti dell’uomo e del cittadino un po’ datate ma sempre attuali, che uniformi i comportamenti degli esseri umani su tutta la Terra all’unisono, ne consegue che le nazioni viaggiano per conto loro, obbedendo alle leggi del mercato uniformando ai rapporti economici quelli personali: dalle relazioni di comunità a quelle singole.

Una società che ha bisogno di una legge per memorizzare e ricordare i crimini commessi durante la Seconda Guerra mondiale è del tutto evidente che ha un problema che riguarda non solo l’apprendimento scolastico in merito ma, più di tutto, il tipo di rapporto di un popolo con la sua storia, col suo recente e moderno passato.

Così, una società, proprio come quella nostra, che ha bisogno della “Legge Zan” per marcare meglio la gravità dei reati connessi ad istinti omofobi e calcolate crudeltà nei confronti di tutte le persone LGBTQIA+, nonché delle persone con handicap fisici o mentali, è un luogo del pianeta dove vi sarà anche molta ricchezza e prosperità, ma dove la povertà intellettuale, morale e civile si fa sentire e si mostra in tutta la sua deprimente oggettività.

La mancanza di una legge, dunque, può essere un dato interpretabile: da un lato può significare che un popolo non ha bisogno di una regola perché quel determinato problema o tema è già autonomamente regolamentato nella società e non servono strumenti di diritto per sostenerne il normale corso quotidiano; dall’altro, però, come nel caso in questione, può volere invece dire che ci troviamo davanti ad una vacatio legis, ad un vulnus che va colmato perché si verificano fatti che sovvertono la libertà di ciascuno di poter vivere la propria intrinseca personalità nella sua pienezza, nella sua particolarissima espressione, e ciò significa che non vi è adeguata tutela in merito.

In questo secondo scenario, la mancanza di una legge è il sintomo di un deficit sociale, di una lacuna anche pregressa che si riversa nel presente nel momento in cui è la società stessa a farsi portavoce presso le sue istituzioni di una domanda pressante di garanzie, di diritti di cui si avverte il bisogno con il mutare dei rapporti tra le persone, con il cambiamento della morale, con la mutazione antropologica che ne consegue.

 Se obbedissimo alla retorica del “Ma è sempre stato così, perché ora volete cambiare?“, saremmo prigionieri di una controetica che risponde ai dettami del peggior conservatorismo: la sicurezza consolante e psicologicamente appagante che ciò che conosciamo e cui siamo abituati è più rassicurante del mutamento, dell’evoluzione, della trasformazione necessaria, di una dialettica che è prima di tutto materialistica ma che ha – come si può ben vedere – tutti i suoi risvolti sovrastrutturali, tutte le sue implicazioni pratiche in fenomeni apparentemente di carattere intellettuale.

L’opposizione pregiudiziale delle destre al Disegno di legge Zan non ci deve sorprendere, perché è perfettamente in linea con una visione conservatrice di uno Stato che dovrebbe fondare le sue radici, proiettate in un orrorifico futuro, nel trittico più inflazionato da chi guarda alla Vandea come ad un fulgido esempio di rivolta popolare o al fascismo come ad un periodo ammirevole della storia d’Italia: Dio, Patria, Famiglia.

Chiaro che si può essere credenti, patrioti e familisti senza per forza essere omofobi, xenofobi, antizigani e magari pure un po’ antisemiti. Cum grano salis, avrebbero detto gli antichi. Tuttavia, a prevalere nel Parlamento italiano sono le spinte peggiori del conservatorismo cattolico, del nazionalismo esasperato e della visione paternalistica di una famiglia dove l’uomo-maschio ha la prevalenza e finisce col tollerare il ruolo della donna-femmina che, seppure emancipata, deve rispondere ai canoni della classicità ortodossa.

Il finto liberalismo delle destre non lo scopriamo certamente oggi: Forza Italia adesso, innanzi all’involuzione sovranista, fa la figura del partito moderato e, per certi versi, lo è pure; ma rimane un soggetto politico nato per proteggere gli interessi di un imprenditore senza scrupoli, che ha segnato la storia del Paese per vent’anni e ha fatto strame di quel progressismo che si era fatto largo in mezzo al monolite democristiano e ai suoi satelliti compiacenti. Non si può credere, a meno di non essere in aperta malafede, che in Italia esista una destra “moderna“, “adeguata ai tempi“. Proprio i tempi del liberalismo sono finiti: le forze conservatrici o sono di ispirazione liberista o sono sovraniste.

La modernità, che si vorrebbe uniformasse i comportamenti di una destra becera e retrograda, è proprio una delle principali cause della retrocessione anticulturale, antisociale e incivile cui abbiamo assistito ieri, un secondo appena dopo la proclamazione dell’esito della votazione al Senato sul DDL Zan. La sguaiatezza, le urla scomposte e l’eccitamento dei parlamentari della Lega e della parte di emiciclo che ha contribuito all’affossamento del disegno di legge contro i crimini dettati dall’odio omo-transfobico, sono il vero pensiero di quei senatori sul tema in esame: tutte le altre belle parole di circostanza, adatte alla solennità della Camera Alta, sono puri esercizi di retorica formalista.

Il desolante spettacolo dato dal Senato della Repubblica non corrisponde però ad una società che è già oltre la “tagliola“, oltre qualunque legge dello Stato in merito. E’ vero: ci sono moltissime persone omofobe, piene di pregiudizi e di manifesta ostilità verso il diritto di amare chi si vuole e, per questo, non dover essere oggetto di aggressioni, derisioni, bullismo, vessazioni di qualunque tipo. Ma c’è anche, anzi c’è soprattutto una empatia collettiva che emerge e che si fa largo tra le pagine dei libri, negli spettacoli televisivi, nei film e nelle fiction, e che è un respiro di sollievo per la libertà che si reclama, che si desidera e per la quale si farà qualunque lotta.

C’è un insopprimibile afflato verso la prosecuzione di un cammino che da Stonewall in avanti non si è più fermato. Legge o non legge, i diritti civili potranno farsi largo e aumentare progressivamente solo se questa società avrà anche più diritti sociali e se al centro di tutto verrà messa la particolarità di ognuno di noi. Di ogni essere vivente, non solo umano. Per questo serve un grande lavoro culturale da fare ai fianchi di un sistema che ci vorrebbe semplicisti, sempliciotti e banali. Un sistema che ci preferisce ignoranti piuttosto che consapevoli, acquiescenti ed incoscienti al tempo stesso.

I mutamenti economici e strutturali sono determinanti nel definire il grado di libertà intellettiva che ciascuno deve poter estrinsecare e vivere: la coltivazione della critica sociale è al tempo stesso coltura della cultura moderna che studia il passato per non riviverne e farne rivivere gli errori. Laddove per errori si deve sempre intendere tutto quello che è stato di nocumento tanto al diritto del singolo quanto a quello della comunità. La frizione tra queste due necessità è il primo elemento distintivo di un problema prima di tutto della società che non può, non deve trascurare nessuna minoranza, nessuna diversità, nessuna differenza.

Le leggi passano, ma il desiderio di poter vivere degnamente la vita e di essere sé stessi prescindendo dagli schemi imposti da millenni di incrostazioni abitudinarie che hanno dato vita a culture della discriminazione, rimane un diritto fondamentale, universale e che, una volta assaporato, non potrà più essere ignorato.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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