Il Partito democratico in questi giorni sta dando il peggio di sé stesso: al governo e in maggioranza, per sentenze dei propri ministri e per dichiarazioni del proprio segretario nazionale. Non è facile capire se il peggio in questione è peggio di altri peggio espletati nel corso della vita dell’anomalia politica unica in Europa che ha fuso due grandi culture novecentesche (quella popolare e quella socialdemocratica).
La classifica finale la si potrà fare quando l’anomalo bicefalo sarà archiviato e superato da altre formazioni politiche: per ora tocca prendere atto del fatto che le mosse autunnali del PD lettiano, nel secondo anno pandemico, non sono affatto trascurabili in quanto a contesa del primo, secondo o terzo posto di un podio francamente inglorioso.
Vediamo dunque il peggio di oggi: il ministro Orlando svolge il suo ruolo politico aderendo pienamente alla linea draghiana sullo sciopero generale, senza muovere un benché minimo di autocritica. Legittima manifestazione di protesta, costituzionalmente prevista, nonostante i tentativi di ostacolarla con obiezioni di carattere tecnico-organizzativo, con il recupero di 3,8 miliardi di euro dalle tasche dei cittadini (tagliando finanziamenti alla sanità, alle infrastrutture ferroviarie…), ma del tutto inopportuna – sostiene il titolare del dicastero del lavoro – in questo momento di crisi strutturale: economica (anche se i magnificat sul PIL in ripresa al 6.5% non cessano di far felice Confindustria), sociale, sanitaria e politica.
Il PD di governo svolge una missione completamente alternativa a quella di un partito sociale, di sinistra, pure vagamente riformatore. Dunque, deve dimenticare volutamente qualunque lotta o, per meglio dire, non dimenticarne opportunamente persino il sapore e il piacere. Chi si propone di governare i processi economici dagli altari delle istituzioni repubblicane, il più delle volte trasformate in protesi delle istanze confindustriali e finanziarie, non ha scelta: la piena e incondizionata adesione al libero mercato.
L’antico impegno costante, legato un tempo ad una ideologia marcatamente sociale, per quanto riformista fosse, è andato pensionato, marginalizzato, rimosso e posto alla riserva. Le politiche socialdemocratiche erano, nel bene e nel meno bene, atti concreti che trattavano sull’impatto delle pretese padronali nei confronti della fragilità operaia e del mondo del lavoro generalmente inteso.
Sostanzialmente i governi del post-pentapartito, partecipati da PDS prima e DS poi, più che essere influenzati e compenetrati da una linea riformatrice e progressista, sono stati la palestra di addestramento di una nuova generazione di liberal-liberisti che, in nome della compatibilità economica e dello “sviluppo del Paese” (nonché quindi del suo “interesse” per antonomasia, quello borghese) hanno consolidato le già molto aperte strade delle privatizzazioni degli ultimi trent’anni.
I vent’anni di berlusconismo, in alternanza con gli esecutivi del centrosinistra, hanno plasmato la nuova identità egoistico-imprenditoriale di una Italia slegata ormai dalla partecipazione di massa non solo alla politica propriamente detta, ma da tutti i momenti di costruzione di una intellettualità collettiva che – tanto per parte (ex)democristiana quanto per parte (ex)comunista e socialista – uniformava le lotte, le rendeva pervasive del contributo di tutti: dalle fabbriche al terzo settore, dalla scuola alle università, dal mondo della cultura a quello della scienza.
L’avanzamento del privato, come cuneo antidemocratico e antisociale infilato nel profondo del corpo repubblicano, ha dato seguito a misure che non sottendevano, ma anzi apertamente reclamano una tutela dei privilegi dell’alta borghesia e della finanza intese come il motore unico della produttività italiana nel contesto europeo. Esattamente lo stesso cui oggi si devono delle risposte, visti i 209 miliardi di euro di prestiti e concessioni vincolate a riforme istituzionali e a politiche economiche indirizzate ad un rafforzamento di un nuovo status quo che non metta in discussione il ruolo dell’imprenditoria e del privato nei settori strategici della nazione.
Il PD di governo ha la sua sponda naturale e conseguente nel PD-partito vero e proprio: Enrico Letta da un lato lavora alle “Agorà democratiche” per allargare un centrosinistra dove si verifichi la condizione di un bilanciamento tra le forze cosiddette “di sinistra” e il Movimento 5 Stelle, adoperato geopoliticamente in questa fase come “settore di centro“.
In realtà, viste certe prese di posizione nei dibattiti parlamentari e persino a Palazzo Chigi – tralasciando la mala pagina della finta “transizione ecologica” di Cingolani – la fisiognomica del M5S sembrerebbe parlarci più di un partito liberale dai tratti progressisti che, infatti, ha rovesciato la sua missione originaria, la sua impostazione populista e interclassista per scegliere le compatibilità del sistema capitalista entro un contesto di moderata critica dei suoi eccessi liberisti. Il PD pare invece la trasfigurazione di una sinistra di governo già abbondantemente compromessa con una accettazione acritica del mercato e di tutti gli effetti che riversa su masse di lavoratori costretti ad un’indigenza dai tratti esponenziali.
Siccome al peggio, per davvero, non c’è mai fine, Letta ha deciso di partecipare – come tanti altri leader di forze politiche sia di centrodestra sia di centrosinistra – alla kermesse di Fratelli d’Italia, Atreju, dialogando con un partito che sarà anche utile per allargare il consenso elettoral-parlamentare per il voto sul nuovo inquilino del Quirinale, ma che rimane un soggetto politico impenitentemente non antifascista, incluso nella legittimità costituzionale al pari di come lo era l’MSI di un tempo (di cui eredita la fiamma tricolore persino nel simbolo).
Il mancato antifascismo della Meloni non è l’unico problema che si dovrebbe porre chi pensa di poter dialogare con un sovranismo becero e neonazionalista: se storicamente FdI non prende le distanze da un passato che non passa, venendo ai giorni nostri preoccupano le relazioni internazionali con partiti neofranchisti come Vox o con paesi apertamente autocratici, repressivi e conservatori ultracattolici, antiabortisti e omofobi, pur dentro la sempre più stretta famiglia dell’Unione Europea.
Liberismo economico al governo e dialogo con i sovranisti non antifascisti, ce n’è abbastanza per poter classificare tutto ciò come l’ennesima ambiguità di un Partito Democratico che si lascia definire “di sinistra” dalla grande informazione nazionale e che, al contempo, interagisce disinvoltamente con le forze più reazionarie del Paese.
Lo schema del governo Draghi non viene tradito da queste interlocuzioni tra democratici in maggioranza e meloniani all’opposizione: anzi, ne esce semmai rafforzato, perché non tanto Forza Italia o la Lega, che fanno parte dello stesso esecutivo in cui siedono i ministri del PD e di Articolo Uno, ma proprio questi che dovrebbero essere i settori più progressisti della “grande” maggioranza di unità nazionale lavorano ad una stabilizzazione liberista del quadro istituzionale della Repubblica: da Palazzo Chigi a Quirinale.
Il centro propriamente detto, quello di Renzi, Calenda e di Forza Italia stessa, farà la sua parte di valore aggiunto nelle dinamiche definitrici degli equilibri parlamentari in vista dell’elezione del Capo dello Stato. E’ naturale che sia così. Ma sarebbe tutto molto diverso se il PD scegliesse di rappresentare nel centrosinistra di nuovo modello una forza veramente social-liberale, liberando anche i giornalisti dall’obbligo di classificarlo come “sinistra” per semplificare un quadro politico sempre barcollante e incerto nei suoi passi tra apparenza progressista e realismo liberista.
Così come Fratelli d’Italia non può dichiararsi apertamente antifascista senza perdere una parte consistente del proprio elettorato, altrettanto il PD non può dirsi esplicitamente ciò che è: una forza politica che non ha più nulla a che fare con il mondo del lavoro e dell’operaismo, del disagio sociale e dell’indigenza diffusa. Tutte situazioni che ha contribuito ad alimentare e diffondere stando nei governi cui ha preso parte con soluzioni di continuità in cui si sono inseriti esecutivi tecnici che hanno sempre meglio tracciato la linea filo-capitalista da seguire con dovizia di intenti.
Al peggio non c’è mai fine, si diceva e qui siamo innanzi già ad un buon livello di “peggiorismo“. Sarà superabile?
MARCO SFERINI