È stato attraverso un indebitamento senza precedenti nei mercati finanziari che Netflix ha ristrutturato completamente il settore audiovisivo. Una storia che mostra il legame tra piattaforme e finanziarizzazione dell’economia

«I film non mi interessano», diceva il personaggio interpretato da Lindsay Lohan protagonista di The Canyons di Paul Schrader: un film che non a caso iniziava con una sequela di sale cinematografiche abbandonate, vuote e in rovina. Le immagini – sosteneva Schrader implicitamente in quel film – oggi non vivono più nei cinema, ma tra gli smartphone, nei social network, nel variegato mondo della riproduzione visiva del digitale. E basterebbe provare a chiedere a un ventenne di oggi quale sia la sua esperienza delle sale cinematografiche per verificare come la realtà sia ormai universalmente questa: per la maggior parte delle persone il cinema è un’esperienza saltuaria, che viene fatta massimo due o tre volte all’anno, magari per vedere il nuovo film della Marvel o il sequel (o spin-off) di Guerre Stellari. L’esperienza delle immagini in movimento viene ormai fatta per la stragrande maggioranza dei casi individualmente o comunque in uno spazio privato, attraverso uno dei molti servizi di video on demand in streaming, come YouTube o Netflix.

A prima vista potrebbe sembrare un cambiamento quasi naturale, dovuto a trasformazioni tecnologiche astratte e inevitabili, come le connessioni internet a banda larga e la diffusione degli smartphone. E invece c’è dietro una storia tutta politica – come sempre avviene nelle trasformazioni tecnologiche – che ha avuto un momento di accelerazione negli ultimi anni quando una delle tante aziende dot-com della Silicon Valley è riuscita a conquistare sempre più larghe fette di mercato e ha finito per ristrutturare completamente tutta la filiera della distribuzione audio-visiva.

In realtà non tutto è iniziato con Netflix. La sua premessa necessaria è stata la trasformazione del mercato cinematografico dall’immagine analogica supportata da pellicole in 35mm all’immagine digitale.

Le trasformazioni tecnologiche non sempre avvengono in modo indipendente e poi vengono sfruttate a fini capitalistici: più spesso vengono pensate e progettate direttamente per risolvere alcuni problemi dell’accumulazione capitalistica. E il problema degli studios di Hollywood negli anni Novanta era che la rete di distribuzione dei film in pellicola nelle sale cinematografiche (soprattutto americane) era diventato troppo oneroso: questo perché la vita dei film si andava accorciando sempre di più e c’era bisogno di cambiare l’offerta in modo sempre più rapido e efficiente. Film che venivano stampati in 3-4mila copie, diventavano per lo più inutili dopo un mese di passaggi in sala. Anzi, ormai il grosso dei guadagni dipendeva quasi soltanto dalle proiezioni del primo weekend.

Bisognava passare dalle grandi e pesanti “pizze” di bobine in 35mm, costose da trasportare e da smaltire, a dei semplici file digitali (Digital Cinema Package), da proiettare in modo per altro molto più agile da proiettori per immagini digitali. Per riuscire a trasformare tutte le multisale degli Stati Uniti (e poi del mondo) in sale di proiezioni digitale – scaricando i costi sugli esercenti naturalmente – bisognava inventarsi qualcosa: fu così che vennero lanciati i film in 3D (in realtà un tentativo di ringiovanimento di una vecchia tecnologia già usata negli anni Cinquanta e Ottanta). Avatar di James Cameron fu proprio questo: un cavallo di Troia – come l’ha definito David Bordwell – per ristrutturare il ciclo della distribuzione facendo adattare gli esercenti a quello che da lì in poi divenne un nuovo standard dell’immagine.

Una volta fissato lo standard nell’immagine digitale, era solo questione di tempo perché i film venissero portati dalle sale alle case, e dalla visione collettiva a quella individuale.

Il risparmio dei costi sarebbe servito a includere un’enorme fetta di persone che al cinema ormai non andava più. Netflix nacque infatti nel 1997 come un’impresa di noleggio di DVD per corrispondenza (una tecnologia che in futuro ricorderemo come un periodo di transizione verso lo streaming on-line). Nel libro autobiografico e agiografico dove si racconta la storia del fondatore di Netflix, la leggenda vuole – in realtà tutte le leggende della Silicon Valley non sono altro che la reiterazione della solita storia – che a partire da un garage e muniti solo di una grande idea, Reed Hastings e Marc Randolph siano riusciti in pochissimo tempo a cambiare il mondo e liberare gli spettatori televisivi dalla dittatura del palinsesto e della pubblicità. Il 23 maggio 2002, Netflix è già molto più che un’idea: viene quotata al Nasdaq come società di e-commerce, con azioni che valgono poco più di un dollaro e una capitalizzazione di 300 milioni di dollari. Meno di vent’anni dopo la sua capitalizzazione è di 215 miliardi di dollari e gli utenti paganti 190 milioni in tutto il mondo (a esclusione della Cina) con un valore medio delle sue azioni si aggira attorno ai 500 dollari. Ma che cosa è successo nel frattempo per permettere un successo tanto clamoroso?

Senz’altro la tempistica dell’inaugurazione del servizio in streaming on-line nel 2007 – lo stesso anno in cui viene lanciato sul mercato l’iPhone – è più che fortunata. E l’idea di trasmettere una serie di “premium TV” nel 2013 con House of Cards, su una piattaforma che all’epoca costava meno della metà di quello che facevano pagare HBO o Showtime, ha sbaragliato i concorrenti.

Netflix ha avuto anche un impatto culturale rivoluzionario visto che è stata la prima a lanciare una serie TV tutta intera, senza aspettare che le puntate venissero trasmesse settimana per settimana, inventando quello che poi verrà definito il “binge-watching”. E tuttavia nulla di tutto questo riesce a spiegare fino in fondo il suo successo.

Come riporta “Variety” alla fine di marzo 2020 Netflix aveva un debito di quasi 15 miliari di dollari: 2,2 di essi erano appena stati sottoscritti l’autunno precedente. Ma quello che colpisce è la sproporzione del budget per gli investimenti che garantiscono una crescita sempre più accentuata: nel 2016 Netflix spendeva 5 miliardi di dollari all’anno per le proprie produzioni. Nel 2018 erano già diventati 12, nel 2019 15, nel 2020 17: nonostante ricavi da più di 20 miliardi ma con un utile netto che non ha mai superato i 2 miliardi negli ultimi anni, Netflix sembra essere un’azienda dalla crescita inarrestabile ma che dipende sempre di più da un indebitamento elefantiaco. In molti si sono iniziati a chiedere se la crescita di questo gigante dai piedi d’argilla fosse davvero sostenibile.

Nel 2019 Aswath Damodaran, professore di finanza alla Stern School of Business della New York University, sosteneva sul “Financial Times” che Netflix «per un decennio, ha investito sempre più soldi in nuove produzioni per attirare utenti e aumentare la capitalizzazione di mercato. E per ora ha funzionato. La domanda è: come è possibile scendere da questo tapis roulant? A un certo punto, spendere il 75% di ogni dollaro in contenuti non sarà sostenibile. Il prossimo anno sarà la grande sfida».

L’anno dopo però c’è stato un evento che nessuno poteva immaginare: la pandemia Covid-19. E mezzo mondo è stato costretto a passare molto più tempo a casa di quanto non facesse di solito: Netflix ha quindi avuto un boom di abbonamenti che nemmeno nelle sue più rosee previsioni era concepibile, conquistando nei primi tre mesi dell’anno oltre 15 milioni di nuovi abbonati, per la maggior parte dall’Europa e dall’Asia.

Tuttavia, qualche domanda su questo modello di crescita è lecito farsela. Netflix, come le altre piattaforme globali, ha la caratteristica di esasperare alcuni tratti fondamentali dell’impresa finanziarizzata, così come l’abbiamo conosciuta nella fase ascendente del money manager capitalism, dalla General Motors nel settore manifatturiero, alla General Electric nel comparto delle utilities, passando per le multinazionali della logistica. Il modello di business di Netflix può essere approssimato in pochi passaggi.

La piattaforma di intrattenimento condivide con le più tradizionali imprese manifatturiere, il fatto che l’enorme crescita è stata resa possibile, innanzitutto, da un accesso al credito senza precedenti. L’elevato indebitamento, come si è visto, è la precondizione necessaria per avviare le proprie produzioni autonome e rinnovare continuamente la propria offerta. La raccolta di ingenti quantità di dati dagli utenti, unita all’uso di algoritmi di apprendimento automatico, consentono di analizzare le preferenze e isolare oltre duemila “cluster di gusto”, in modo che l’offerta possa rivolgersi a nicchie di mercato abbastanza precise. L’analisi dei Big Data ha ovviamente la funzione principale di orientare le produzioni di contenuti, adattandosi just in time alle richieste del mercato. Una volta che uno spettacolo è pronto per la consegna, un reparto dell’azienda si occuperà di capire come deve arrivare il nuovo contenuto agli abbonati, perfezionando l’algoritmo che seleziona i 40-50 titoli che appaiono sulla schermata iniziale di Netflix, oppure stabilendo diverse campagne di lancio con trailer differenziati secondo i cluster di destinatari. Sul lato delle entrate, il circuito non si chiude con gli abbonamenti.

Perché nonostante l’aumento degli utenti il cash-flow è strutturalmente negativo (tranne il flusso di cassa trimestrale di quest’anno, dopo oltre sei anni dalla prima volta), nel conto economico i ricavi da vendite non superano quasi mai i costi di produzione. Ciò che chiude il circuito economico-finanziario sono piuttosto le enormi plus-valenze registrate a Wall Street, che tamponano lo squilibrio “reale”, mettendo al riparo l’azienda dalla tendenza cronica all’insolvenza e facendo del profitto una grandezza (quasi) indistinguibile dalla rendita.

Sullo sfondo della fortuna di Netflix c’è la svolta espansiva della politica monetaria delle principali banche centrali, dopo la crisi finanziaria del 2007. Ha inizio la lunga fase del Central Bank-Led Capitalism. Arriva sui mercati finanziari un’enorme quantità di moneta, il rendimento dei titoli pubblici inizia a calare, gli operatori finanziari ricercano spasmodicamente rendimenti più alti, aumentando gli acquisti dei titoli delle Big Tech.

Nel pieno dello shock economico della prima ondata di pandemia, a partire dalla fine di marzo, il valore dello S&P 500 esplode, trainato dalle aziende tecnologiche che oramai corrispondono al 20% del valore dell’indice, dopo che la FED aveva annunciato un programma di acquisti delle azioni corporate, alimentando ciò che l’”Economist” ha soprannominato il dangerous gap, ovvero il divario tra Wall Street e Main Street.

Da quando è quotata in borsa nel 2002, il prezzo delle azioni dell’azienda è aumentato di ben cinquecento volte, collocandosi ampiamente nella top ten delle neo-quotate degli ultimi diciotto anni. Non mancano osservatori che nell’ultimo periodo hanno ipotizzato una nuova bolla speculativa delle dot-com ai tempi del platform capitalism. Altri, invece, a partire dal 9 novembre, dopo l’annuncio del vaccino da parte della Pfizer, hanno scommesso su una possibile rotazione dei mercati, con un ri-orientamento dei flussi finanziari verso altri settori, attendendosi un relativo ridimensionamento progressivo della cosiddetta stay at home economy.

Comunque vadano le cose, non cambia di certo il nocciolo della questione. Netflix nel 2019 contava circa 8.600 addetti diretti (quasi il doppio del numero registrato nel 2016), ognuno genera in media 2,6 milioni di dollari di entrate annuali (nove volte di più rispetto ai dipendenti Disney). Il salario orario base dei dipendenti (Administrative assistant, Editor, Audio Engineer, Technician, Reserach analyst etc.) in media è pari a circa 30$, a cui si aggiungano i bonus in base ai risultati raggiunti (con importi non trascurabili, soprattutto per le professionalità più alte). La società californiana è al comando di una catena globale di sub-fornitura molto articolata (le ultime stime parlano di oltre 2.200 sub-fornitori di primo livello) e dispersa geograficamente (in Italia, ad esempio, a parte le produzioni che vengono realizzate direttamente nel paese, diversi contractor lavorano tra Roma e Milano per le post-produzioni di serie realizzate altrove o risultano sub-fornitori di secondo livello di società di post-produzione di altri paesi europei a cui Netflix affida il doppiaggio, sottotitolazione, mixaggio ecc.).

È inutile dire che nei gradini più bassi della catena la pressione sui salari è ancora più intensa. Basti pensare che il comparto degli animatori e delle altre maestranze tecniche impegnate nella serie Bojack Horseman si è dovuta organizzare sindacalmente, per strappare un accordo migliorativo con l’azienda di Los Gatos. Si tratta di dati che confermano quanto sia abnorme il tasso di sfruttamento nelle Tech Giants, la conseguenza della mobilitazione di una enorme quantità di lavoro vivo (potenziale) gratuitamente reso dagli utenti.

L’altra faccia di come l’affermazione del capitalismo delle piattaforme riduca ancor di più gli “effetti di percolamento” dalla finanza all’economia reale.

Netflix, al pari degli altri giganti del web, è un “ecosistema coordinato” che massimizza a vantaggio della proprietà le relazioni di mercato tra gli utenti, i fornitori e gli investitori finanziari, ma è anche una “macchina economico-finanziaria” intrinsecamente crisis prone come si è visto, che per svilupparsi ha bisogno di acquisire sempre nuovi abbonati (vincendo la competizione con gli altri competitor, come Apple, Amazon, Disney ecc.), alimentando nel contempo quella tendenza interna alla “concentrazione” monopolistica, che contraddistingue questa nuova forma di innovazione tecnologica.

Le conseguenze di questo fenomeno sono state e saranno devastanti per tutto il settore dell’audiovisivo. Oggi è diventato ormai normale spendere 9.90$ al mese per vedere decine di film e serie Tv per diversi device di un’intera famiglia. È evidente che un business model come quello delle Premium Cable Tv di una volta, come HBO e Showtime (che infatti si sono affrettati ad aprire a loro volta dei servizi in streaming on-demand a prezzi stracciati) sia totalmente insostenibile. Così come è insostenibile per una sala cinematografica poter pensare di entrare in competizione con un servizio che ormai riesce ad attrarre anche registi da premio Oscar (Roma di Cuarón) o grandi autori (Scorsese) così come serie Tv da blockbuster come Stranger Things o fenomeni trash dall’alto potenziale virali sui social network come Tiger King.

Netflix, come per altro è avvenuto anche per altre piattaforme come Amazon, dovrebbe essere analizzata non soltanto per la sua organizzazione aziendale interna o per le sue strategie di crescita e investimento, ma come un dispositivo di ristrutturazione di un intero settore, come è quello dell’audiovisivo.

Così come Amazon è stata capace di evitare di ripartire i dividendi ai propri azionisti per anni per riuscire ad avere capitali sufficienti per implementare strategie di crescita e acquisizione sempre più aggressive (come nel caso di Amazon Prime, uno dei grandi “salti di scala” nella storia di quell’azienda) così Netflix è stata capace di trasformare le abitudini di centinaia di milioni di persone e di rivoluzionare per sempre il loro modo di consumare contenuti audiovisivi. L’enorme capitale finanziario mobilitato da quest’azienda è stato in grado – come spesso è avvenuto nella storia del capitalismo – di ristrutturare completamente un settore industriale.

In questo senso Netflix è riuscita anche a diventare uno dei grandi player in quella che è una delle più centrali battaglie economiche di questi anni: quella dell’economia dell’attenzione (e che si stanno combattendo in modo sempre più aggressiva sia nel mercato dei capitali che in quello delle strategie aziendali Facebook, Google, Apple, ecc.). Quasi duecento milioni di persone passano ore della propria settimana consumando contenuti audiovisivi sul sito di Netflix. È interessante infatti notare come Netflix non abbia mai acconsentito a divulgare i dati sugli ascolti dei propri prodotti: fenomeno bizzarro dato che decenni di ricerca sugli studi audiovisivi hanno sempre considerato come un dato empirico fondamentale il numero di spettatori che un film riusciva ad accaparrarsi.

Oggi noi non sappiamo più quanti sono stati gli spettatori di The Irishman o di Mank. Molti si sono chiesti che cosa Netflix volesse nascondere e perché non volesse rendere pubblici questi dati. Con buona pace dei dipartimenti universitari di studi sul cinema forse la risposta è molto più semplice di quello che sembra.

Netflix non è un’azienda di contenuti audiovisivi – e infatti non è un caso che venga quotata in borsa nel Nasdaq. Netflix è un’azienda che usa il cinema e le serie Tv come esca: la vera posta in palio sono i comportamenti, le abitudini e i gusti dei quasi 200 milioni di persone che passano ore della propria giornata a interagire con quel sito.

Il vero oggetto insomma, è l’uso economico-finanziario dei dati: la vera materia prima che il capitalismo delle piattaforme utilizza per ristrutturare il capitale della sfera della circolazione e rendere sempre più fluida e senza frizioni la realizzazione di valore. Non dobbiamo fare l’errore di guardare il dito (i film) e non la Luna (le strategie di accumulazione capitalistiche). Netflix è solo una delle tante maschere dietro cui si sta trasformando il capitalismo contemporaneo tutto. Purtroppo, non solo al cinema.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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