E’il Parlamento l’organo istituzionale maggiormente destabilizzato da anni e anni di attacchi di quelle forze politiche che oggi si apprestano a riassaltarlo con una legge elettorale veramente devastante. E’ il Parlamento ad essere al centro degli equilibri interni della Repubblica, dunque ogni attacco alla sua centralità è, di conseguenza, un attacco alla democrazia o, quanto meno, un tentativo di farne altro rispetto a quanto messo nero su bianco tra il 1946 e il 1948 dall’Assemblea costituente.

E non è un caso che sia proprio il Parlamento la questione epocale, il punto di rottura e di svolta su cui le destre sovraniste, come pure le presunte sinistre moderate che hanno ormai svelato la loro fisionomia centrista, insistono per dare all’Italia una costituzione materiale nuova che, tuttavia, si imperni formalmente su quella che viene classificata come un ferrovecchio del passato in quanto a gestione dei rapporti politici, istituzionali, sociali ed economici.

Per fare leva sulle modificazioni che darebbero alla Presidenza della Repubblica e a quella del Consiglio dei Ministri ruoli molto diversi da quelli attuali, è necessario ridimensionare il luogo in cui la rappresentanza popolare assume il suo ruolo da legislatore attraverso deputati e senatori eletti a suffragio universale.

L’intangibilità del processo democratico, complesso nel suo determinare la rigidità di una legge fondamentale che disciplina prima di tutto la preservazione della Repubblica dai tentativi di sovvertimento, da qualunque parte provengano, è da molto tempo che è stata messa in discussione: quel tabù si è infranto nel momento in cui l’asse del Pentapartito ha cominciato a scricchiolare e a frantumarsi, disperdendo una cultura di massa che consentiva il rimpianto “voto ideologico” entro la cornice del proporzionalismo.

Archeologia italiana di un mondo che pochi ricordano, soprattutto tra le giovani generazioni; e non soltanto per ragioni di carattere meramente anagrafico, ma perché l’oblio che è sopraggiunto è stato fatto calare pesantemente sul recente passato tramite mutazioni genetiche delle istituzioni che hanno tramortito gli equilibri preposti per consentire che l’equipollenza dei poteri rimanesse intatta, a discapito di chiunque avesse provato a manometterla.

La mutazione antropologica dalla cosiddetta “prima repubblica” alla fase del ventennio berlusconiano, è stata tanto veloce quanto languente durante il finire degli anni ’90 e l’aprirsi del nuovo millennio alle sfide della globalizzazione liberista che avanzava con irruente prepotenza anche sullo scenario italiano.

Le congiunture politico-economiche si sono saldate prima con un patto tra neoliberalismo e concezione padronale di un sistema antisociale che avanzava con una inversione di proporzionalità che costringeva il progressivo alla retrocessione: la risposta ai problemi della povera gente, dei lavoratori e dei pensionati, così come degli studenti e delle casalinghe, non stava più nell’implementazione dei diritti e dello stato-sociale, ma nell’applicazione del teorema liberista sulla diminuzione del ruolo pubblico dello Stato, pur utilizzando quest’ultimo a tutto tondo.

L’onda lunga del reaganismo e del tatcherismo aveva prevalso sulla resistenza sociale delle socialdemocrazie e anche su quella del popolarismo democristiano di lunghissimo corso. Il riformismo socialista craxiano, travolto dagli scandali e dall’interesse privato penetrato nei gangli più reconditi della politica del Bel Paese, era franato rovinosamente su sé stesso e aveva consentito che iniziasse la risibile ascesa del Cavaliere nero di Arcore, sostituendo così, con sagace metodo indolore, la partecipazione di massa al semplice conferimento della delega formale popolare ai nuovi rappresentanti dei rapporti di forza cambiati.

Si è, sostanzialmente, trattato di una cultura sociale e politica che si è sostituita alla precedente: un rivolgimento regressivo operato da nuove classi dirigenti che hanno imposto non la scelta del partito o del movimento da votare non sulla base delle proprie idee e dei propri interessi, ma esclusivamente sulla novità da provare, escludendo tutto ciò che già era stato verificato e più volte sperimentato.

Per forza di cose, il nuovo era il giusto, quello che non poteva non essere abbracciato e sostenuto col voto; mentre la vecchia via veniva abbandonata col sapore agro del disgusto per la sequela infinita di ladrocini e appropriazioni indebite che le stagioni del potere democristiano e socialista craxiano avevano realizzato, facendo apparire la Repubblica come essenza stessa della corruzione e il Parlamento come un inutile luogo di discussioni pletoricamente inutili, ridondanti e roboanti, prive di sostanza.

Mentre il governo, nella logica stringente e costringente dell’alternanza tra i poli, diveniva sempre di più il centro dell’azione politica, riducendo le Camere ad esecutrici della sua volontà, poteva così riemergere l’idea della destra estrema del MSI un tempo, di Alleanza Nazionale poi e, oggi, di Fratelli d’Italia di fare della nostra Italia una Repubblica presidenziale sul modello magari francese o, perché no, pure su quello americano.

La trasformazione istituzionale è per le destre necessaria al fine di riaffermare l’idea pratica di un conservatorismo originario, che si ritrovi pienamente nel dettato appunto di Reagan e della Tatcher: meno Stato nell’economia, meno pubblico e più privato, ma utilizzo del pubblico e dello Stato stesso alla massima potenza per gestire il tutto e per farlo con la pienezza della legittimità democratica, della legalità costituzionalmente intesa.

Il progetto meloniano, al di là della discussione che si può fare – un po’ stucchevolmente – sulla permanenza della fiamma tricolore nel simbolo di Fratelli d’Italia, è la risultate finale moderna di un percorso di destrutturazione dell’idea stessa di democrazia egualitaria, sociale e civile. E’ l’introduzione di un modello alternativo che pretende di fare della diseguaglianza un elemento di distinzione fondato sull’esaltazione delle “identità“, come elemento non qualificativo delle differenze, ma come specificità esclusivista.

Quindi, il problema non è, almeno oggi, se verrà domani il fascismo di ieri. Il problema, semmai, è se domani in Italia avrà la maggioranza una coalizione che è trainata da un partito che vuole scansare ancora più di lato il Parlamento per far posto all’esercizio dominante del governo, unitamente a quello della Presidenza della Repubblica, nell’intera gestione amministrativa, istituzionale, sociale, morale e civile del Paese.

Il problema che abbiamo, pertanto, è arginare questa minaccia di rivoluzione conservatrice che è alle porte delle elezioni del 25 settembre. Per farlo si sono invocate, oltremodo giustamente, da parte di esimi costituzionalisti e intellettuali, grandi alleanze e fronti di salvezza repubblicana per far convergere i voti “utilmente” sulla coalizione formata dal PD, dalla Bonino e da Di Maio. E’ una impresa impossibile, ed è un bene che lo sia, perché obbedirebbe nuovamente alla terribile logica perversa del “voto utile”.

Dobbiamo scardinare queste false narrazioni, che proprio il neoconservatorismo sovranista ha contribuito ad alimentare, non senza l’aiuto della teorizzazione della necessità dell’alternanza dei poli anche da parte del fu centrosinistra di governo (e di molta poca opposizione). Dobbiamo rompere la gabbia mentale-ideologica che ci porta a ritenere utile votare in base al “meno peggio“, perché in questo modo non costruiamo il “meglio” per noi stessi e non diamo una propulsiva spinta ad un ritorno all’esercizio della delega sulla base di un convincimento sociale e culturale.

Allora si dirà: ma come possiamo fermare Meloni e il centrodestra? Come possiamo fare in modo che il progetto neoconservatore non abbia luogo a procedere? Non possiamo.

In questo momento è praticamente irragionevole ritenere di fermare le forze sovraniste, soprattutto in mancanza di una vera coalizione alternativa che possa, quanto meno, competere in termini di voti assoluti. La distanza che separa le destre dalla micro-coalizione del già “campo largo” di Letta, è così enorme da non indurre nessuno scommettitore a mettere un centesimo di euro sulla anche solo probabile prevalenza sul tridente nero.

Ma due cose utili, realizzabili, sono possibili da attuare, immediatamente durante e dopo il voto: diminuire al minimo l’astensionismo, convincendo la maggior parte di cittadini a votare per le forze politiche non vogliono quel cambiamento a cento ottanta gradi della struttura costituzionale e della Repubblica, impedendo così alle destre di avere i due terzi dei seggi nelle Camere; ed un patto di unità veramente repubblicana tra tutte le forze di opposizione, affinché vi sia intransigenza assoluta nel fermare qualunque tentativo di stravolgimento dell’equipollenza dei poteri, mettendo nero su bianco che il parlamentarismo non è in discussione.

Ma non basta ancora. Tutto questo servirà a ben poco se le sirene del capitalismo italiano riusciranno a sedurre (si presume con pochissimo sforzo…) le forze neocentriste, portandole a sostenere le riforme economiche e antisociali delle destre.

Se la crisi del sistema di tutele viaggerà in un unitario parallelismo con quella esponenziale di una economia di guerra senza essere affrontata nella essenzialità delle sue dinamiche, quindi senza mettere al sicuro le classi sociali più deboli, frastornate e quasi annichilite da anni di restrizioni pandemiche e oggi da quelle dei dettai europei sul PNRR, allora le destre avranno ancora maggiore forza e determinazione nel proporsi come l’unica soluzione per la modernità sviluppista di un Paese consegnato alle fauci del liberismo estremo.

Non basta essere antifascisti oggi per battere i neofascisti che stanno per arrivare al potere. Bisogna abbandonare al suo destino il liberismo se si vuole veramente essere, e quindi potersi dire, “di sinistra” e “progressisti“, facendo così rivivere lo spirito costituzionale del 1948, rendendolo modernamente resiliente ai tanti mutamenti antropologici, sociali e politici che sono innegabili e che vanno visti nella loro interezza.

Antifascismo e antiliberismo sono facce di una stessa medaglia: la lotta contro un liberismo che, unitamente al conservatorismo proposto da Giorgia Meloni, potrebbe mettere fine un giorno alla democrazia, utilizzando la democrazia stessa e, paradosso dei paradossi, nel nome proprio del maggiore coinvolgimento popolare nelle scelte del Paese: come ad esempio eleggere direttamente il capo dello Stato e del governo.

Qualcosa di simile è già avvenuto nella storia del Novecento, col pieno sostegno delle classi dirigenti di allora. Sappiamo come è andata a finire. Oppure… come non ha mai smesso di ricominciare…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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