La novità dell’incontro (perché di scontro proprio non si può parlare) tra Enrico Letta e Giorgia Meloni, in quel della televisione del Corriere della Sera, sui temi di campagna elettorale sta probabilmente solo nella virata atlantista e antirussa della seconda, nel suo essere decisamente a favore della guerra e dell’invio di armi esattamente come il PD.

Per il resto, anche un po’ nioisamente, i due leader competono soltanto sui diritti civili, sulla visione della famiglia e della morale che lo Stato dovrebbe avere. Non è poco, certo, ma non è nemmeno quel tanto che basti per spingere un elettore convintamente ancorato a sinistra a votare quella che la Meloni chiama compulsivamente tale quando si riferisce al suo vicino di tavolo, ma che in realtà è un centro con solo una alleanza tattica con SI ed Europa Verde.

Letta lo chiarisce molto bene, ribattendo all’affermazione della leader di Fratelli d’Italia sulle alleanze scomode: sovranisti che ti fanno fare cattiva figura presso i saloti di Cernobbio, tanto da chiuderti in una disperata posa del capo tra le mani che lo sostengono sotto il peso delle affermazioni di politica estera salviana.

Ognuno ha gli amici di strada che si è scelto: chi per preventivare anzitempo una sconfitta davvero ante litteram, e del tutto incomprensibile nella non-strategia messa in campo; chi, invece, per agguantare tutto quello che si può sul fronte centrista, destroide, neofascista dai sobborghi sottoproletari romani fino alla rabbia sociale che serpeggia da sud a nord nell’Italia della povertà crescente senza soluzione di continuità.

Il dato di fatto è pressoché uno: Letta e Meloni, fatte le debite sfumature sulle aliquote da applicare sul piano fiscale generale, non muovono una critica che sia una al capitalismo liberista.

Affermano entrambi una adesione di merito e metodo l’uno alla arabeiscamente fenicia “agenda Draghi” e di metodo soltanto l’altra nel pregiarsi di riconoscere che le intuizioni del banchiere internazionale ed europeo erano giuste, ma le conversioni in riforme politiche e applicazione di piani resilienti del tutto sbagliate.

Per chiarezza, non c’è dubbio, brilla Meloni. Per stanchezza Letta.

Si tratta, alla fine, di due visioni di destra del mondo, dello scenario europeo e di una Italia che resterebbe (e lo resterà), con entrambi, prigioniera di una illogica redistribuzione antisociale delle perdite del mercato e dei grandi padroni, con una richiesta di sempre maggiori defiscalizzazioni sul costo del lavoro, sulle assunzioni, negando – come fa Bonomi persino davanti al papa – che i salari siano inadeguati alle condizioni di vita attuali.

La teorizzazione delle “tre destre che qualche anno fa era possibile delineare come maschera condivisa del panorama politico italiano, oggi obiettivamente deve essere aggiornata, partendo da una serie di considerazioni che riguardano un po’ tutti i settori delle forze parlamentari.

Non c’è dubbio che siano, soprattutto in questi ultimi tre anni, intervenuti una serie di fattori globali che hanno inghiottito anche la politica italiana e ne hanno fatto un boccone, nonostante tutte le affermazioni di grande autonomia del nostro Paese rispetto alle altre economie, alle centrali di guardianaggio del grande capitale e dell’alta finanza.

La pandemia per prima, la guerra in seguito e la crisi economica che si è costruita su questi elementi destabilizzanti, generatori di immense nuove sacche di povertà e di aumento della stessa nei livelli sociali che, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, avremmo pensato immuni dall’instabilità.

Per questo, nei quattro anni soltanto che ci separano dalla scorsa tornata elettorale politica, molto è cambiato, alla radice, nella profondità dei rapporti strutturali di classe, nella quotidianità della sopravvivenza di milioni di persone che prima riuscivano a stare a galla con i miseri salari e le pensioni italiane e che oggi, invece, proprio secondo ISTAT sono entrati a far parte del girone infernale delle “nuove povertà“.

Paradossalmente, quello che sembra meno cambiato tra tutti è proprio il PD che langue nel ventre molle di un liberismo oggi, a dire il vero, molto attratto dalla ricomposizione neocentrista tentata da Calenda e Renzi e dal voto alle destre classiche a trazione meloniana con una imbellettamento fintamente democratico, veramente atlantista e comunque sempre xenofobo e razzista, vandeano e conservatore, per potersi accreditare meglio presso le classi dirigenti.

La sconfitta storica del Partito Democratico, almeno in questa fase, non è data tanto dall’impossibilità di coniugare gli interessi dei lavoratori e dei ceti più deboli con la tutela dei privilegi imprenditoriali e delle esigenze del mercato; semmai è confermata come farsa (che non separa da sé stessa la enorme tragedia in cui viviamo) nell’attimo in cui fa davvero fatica ad intercettare tanto il voto popolare quanto quello delle classi agiate, della buona borghesia moderna.

All’impossibile rappresentazione di un trasversalismo politico che, alla prova dei fatti e del confronto con la vera realtà sociale, si infrange impietosamente, si accompagna una contraddizione ulteriore: aver abbandonato i valori della sinistra, anche moderata, socialdemocratica e riformista dei DS di un tempo, e non essere riusciti ad affermare quelli di un cristianesimo sociale e liberale al tempo stesso, cui faceva riferimento La Margherita di prodiana memoria.

E tutto questo dopo essersi definitivamente separati da ogni idea di condivisione di un percorso con una sinistra di alternativa che, oggi, non può non guardare ad un obiettivo di ricompensazione del tutto mediante il progetto di una costruzione di un soggetto politico anticapitalista, antiliberista, per la pace e per tutto quello che viene oggi negato all’Italia dal draghismo.

Così, Giorgia Meloni ha il suo spazio per muoversi tanto a destra quanto al centro, preoccupando di più il duo Calenda-Renzi rispetto a Letta, Di Maio e Bonino.

Se un tempo ci si domandava se c’era ancora spazio a sinistra del PDS, oggi il PD farebbe bene a chiedersi se c’è ancora spazio al centro (e a destra) per una coalizione come quella messa insieme col presupposto di una unità repubblicana di salvezza nazionale dal pericolo (reale) di una torsione autoritaria in Italia subdola, sottile e carsica e per questo ancora più insidiosa delle manifestazioni nostalgiche dei fascisti da operetta di Predappio.

Il confronto fra Letta e Meloni al Corriere della Sera ha messo in luce questi elementi con nettezza. Quello che ne resta è una sensazione spiacevole di malinconia, di straniamento, nemmeno più di delusione per quello che già si sapeva.

Ma, certamente, di una singolarità della politica italiana che, altrove, almeno in Europa, non è riscontrabile in quel centro liberista che qui da noi ha per interlocutori privilegiati coloro che si definisco nel migliore dei casi “centrosinistra” e che, nel peggiore, vengono abilmente appellati dall’avversario come gli eredi di qualcosa che nei loro programmi e nella loro storia non esiste più.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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