Francesco Cecchini


La valle del Vajont dopo la frana del monte Toc che causò il disastro,  da Wikipedia.


IL DISASTRO.
Il 9 ottobre 1963, in una serata di tiepido autunno, in pochi secondi duemila persone – uomini, donne e bambini – venivano sacrificate sull’altare del profitto al quale anche la scienza ufficiale aveva dato una mano, nascondendo agli Enti locali e perfino al governo le prove che sul Vajont sarebbe accaduto un disastro. Alle ore 22.39 di 59 anni fa: un’enorme onda devasta la Valle del Vajont, portandosi via case e persone, una tragedia annunciata che cancella quasi per intero una comunità, quella di Longarone, un piccolo paese di montagna in provincia di Belluno. L’onda di morte era stata provocata da 270 milioni di metri cubi di roccia e terra si staccano dal Monte Toc, precipitando nella diga sottostante. L’onda avvolse anche due comuni sovrastanti la diga, Erto e Casso.Nel 1963, quando fu inaugurata, la diga del Vajont con i suoi 264 metri di altezza era la più alta del mondo. Inoltre con un bacino di quasi 170 milioni di metri cubi, costituiva una delle grandi innovazioni dell’Italia del Dopoguerra, uno dei simboli di un Paese che voleva riprendersi da un passato di guerra tramite il rilancio economico ed energetico. L’impianto venne progettato per conto della SADE, Società Adriatica di Elettricità (proprietà di un ex ministro fascista, Giuseppe Volpi di Misurata, che aveva ancora amicizie importanti a diversi livelli), dall’ingegner Carlo Semenza e fu costruito alla fine degli anni Cinquanta nei territori comunali di Erto e Casso. Durante la costruzione vi furono molti segnali di rischio e pericolo. Il più importante fu nel novembre del 1960: una frana nell’invaso di settecentomila metri cubi di terra e roccia, che confermò che non esistevano i presupposti per costruire una diga in quella valle, sotto al Monte Toc.
Va detto che il geologo, geotecnico austriaco Leopold Müller aveva consegnato relazioni, tra le quali lo studio della fessura perimetrale della frana del 9 novembre 1960, che prevedevano frane anche maggiori di grandi masse di terra e rocce. Cosa che avvenne il 9 ottobre 1963, perché il progetto andò avanti.
Tina Merlin, ex partigiana bellunese, donna combattiva, da giornalista mise in luce la verità sulla costruzione della diga del Vajont. Occuparsi del Vajont, scrisse, era continuare a fare quello che aveva sempre fatto anche nella Resistenza: stare dalla parte dei deboli e opporsi alle ingiustizie.Tina Merlin, giornalista de l’Unità di Milano e negli anni Sessanta seguì per il giornale la vicenda complicatissima della costruzione, in Friuli, della più grande diga del mondo da parte della SADE, l’allora società elettrica privata che aveva il monopolio dell’energia in Italia.
La Merlin, partigiana, conosceva ogni angolo dei paesi di Erto, Casso e Longarone e aveva percorso mille volte i boschi intorno al Monte Toc, dove doveva essere costruita la grande diga. Aveva parlato e parlato con tutti gli abitanti che si opponevano alla costruzione della diga perché tutto il terreno di quelle zone era friabile e pericoloso, ma la SADE non voleva ascoltare niente e nessuno. Prima di tutto il profitto, poi la popolazione. I tecnici e gli scienziati dicevano che non ci sarebbero stati problemi e che con i suoi articoli Tina Merlin faceva soltanto dell’allarmismo per conto dei comunisti che non volevano il progresso sociale ed erano soltanto contro il governo DC. La Merlin venne addirittura denunciata per diffamazione dalla SADE, ma i giudici l’assolsero dopo la testimonianza degli abitanti di Erto e Casso. Lei continuò ad andare avanti e i parlamentari della zona presentarono tutta una serie di interpellanze in Parlamento, ma non successe niente. La SADE era più forte di ogni altro potere e la diga fu costruita nonostante le prime frane e le grandi spaccature nel terreno. Poi il 9 ottobre del 1963 la tragedia con il precipitare del Monte Toc nell’invaso della diga. Arrivarono giornalisti da tutta Italia e dall’Europa, ma i pochi superstiti di Longarone, di Erto e Casso impedirono loro di avvicinarsi ai pochi sassi che restavano dei paesi. Solo Tina Merlin, la nemica della SADE, fu lasciata passare. Gli uomini, davanti a lei, si toglievano il cappello e le donne l’abbracciavano piangendo. Due suoi libri, “Vajont 1963” e “Sulla pelle viva”, raccontano nel dettaglio la vicenda.
IL PROCESSO.
Il processo Vajont si è concluso quasi sette anni e mezzo dopo la tragedia, 14 giorni prima di cadere in prescrizione. Un procedimento giudiziario che ha deluso i sopravvissuti per le le condanne a pochi anni, lievi se rapportate agli effetti dell’ondata. La giustizia però ha riconosciuto la prevedibilità dell’evento: la Sade (poi Enel) sapeva. E, cosa rarissima in Italia, ha riconosciuto responsabile, tra gli altri, anche lo Stato.
Vennerorinviate a giudizio 11 persone: Alberico Biadene, direttore del Servizio costruzioni idrauliche della Sade; Mario Pancini, direttore dei lavori della diga del Vajont; Pietro Frosini, ex presidente della IV Sezione del Consiglio superiore Lavori pubblici e membro della Commissione di collaudo;Francesco Sensidoni, capo del Servizio dighe del ministero Lavori pubblici e membro della Commissione di collaudo; Curzio Batini, presidente della IV Sezione del Consiglio superiore Lavori pubblici; Francesco Penta, geologo consulente della Sade e membro della Commissione di collaudo (che però nel frattempo era deceduto); Luigi Greco, presidente del Consiglio superiore Lavori pubblici e membro della Commissione di collaudo (anche lui deceduto); Almo Violin, ingegnere capo del Genio civile di Belluno; Dino Tonini, capo dell’ufficio studi della Sade; Roberto Marin, ex direttore generale dell’Enel-Sade; Augusto Ghetti, direttore dell’Istituto di Idraulica dell’Università di Padova e responsabile degli esperimenti su modello di Nove.
La sentenza definitiva della Cassazione il 25 marzo 1971 condannò Alberico Biadene (dipendente Enel-Sade) a cinque anni e Francesco Sensidoni (dipendente del ministero dei Lavori Pubblici) a tre anni e otto mesi, in quanto responsabili del reato di inondazione – frana compresa – e omicidi. Sia Biadene che Sensidoni godettero di un condono di tre anni. Tutti gli altri, in questa o altre sentenze, furono assolti. I sopravissuti che chiedevano  “Un giorno di carcere per ogni morto” rimasero delusi, come lo furono dei miseri rimborsi: tre milioni di lire per la perdita di un coniuge, un milione e mezzo per il figlio, 800.000 lire per il fratello o la sorella conviventi. E così via.
CONCLUSIONE.
Tragedie causate da speculatori accadono ancora. Vedi crollo del Ponte Morandi a Genova. E’ opportuno che persone e forze politiche progressiste o organizzazioni come Lega Ambiente vigilino, perché simili disastri, che comportano perdite di vite umane, non accadano più.

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

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