Una donna alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, a guida della maggioranza di governo. Un’altra ora alla guida di quello che era e, un po’ ancora rimane, come il più diretto concorrente delle destre: non certo sul piano delle politiche economiche, maggiormente sui diritti e le libertà civili.
Due donne e qualcosa cambia. Ma il rischio è che i cambiamenti si fermino ai generi e non si riflettano nella compiutezza dei fatti, nella quotidianità delle nostre esistenze. Se non, si intende, in chiave negativa e molto più contorta rispetto alle promesse elettorali o a quelle rinnovate nel mese e più di campagna per le primarie del PD.
La sorpresa c’è dentro l’anomalia. Quella storica di un Partito Democratico che nasce per rappresentare un interclassismo che unisce socialdemocrazia e popolarismo democristiano, sinistra riformista e centro liberal-progressista.
La sorpresa c’è dentro l’anomalia. Quella del dualismo che permane: lotta e governo, lavoro e impresa, tutto e il contrario di tutto. Perché, avesse vinto Bonaccini invece di Schlein, sarebbero comunque esistiti due PD: non nel segno della continuità con l’ispirazione originaria e fondatrice del partito veltroniano; semmai con una nuova vocazione, pur sempre maggioritaria, che trovasse un compromesso tra partito strutturato e partito percepito, tra iscritti e simpatizzanti, tra amministratori e cosiddetti “movimentisti“.
La sorpresa, si diceva, c’è e l’anomalia permane tutta quanta. Muta, si evolve, cangia e si adegua ai tempi. La sorpresa vera sarebbe, nella sorpresa stessa, constatare che con Elly Schlein alla guida del PD si mette da parte la stagione pluridecennale del centrosinistra e si apre una nuova fase tutta orientata a far dialogare le tante anime disperse del progressismo italiano.
Un progetto che esigerebbe l’abbandono dello schema bipolare, dell’alternanza tra centrodestra e centrosinistra e, parimenti, della presa in carico di un programma nettamente a favore del lavoro ed altrettanto nettamente a sfavore dei privilegi di classe che anche il PD ha garantito fino ad oggi nelle tante partecipazioni ai governi politici e tecnici a far data dal 2008 a questa parte.
Se la vittoria di Elly Schlein significasse questa rottura drastica (e necessaria) per la riconsiderazione di un vero campo e fronte progressista nel Paese, allora si potrebbe pensare ad un dialogo con le forze moderate della sinistra.
Ma se, invece, dovesse tenere in conto prima di tutto le compatibilità di partito e di governo (nonché di opposizione) fino ad ora consolidatesi tra i gruppi dirigenti del PD e ciò che hanno inteso rappresentare, quindi un ceto medio e una grande impresa a tutto discapito delle ragioni dei lavoratori, allora la presunta “ultima speranza” verrebbe tradita ancora prima di vedere la luce sia attraverso un percorso parlamentare certamente non facile, sia tramite la prova del voto.
Se è vero, come è vero, che c’è una “domanda di sinistra” in questo Paese, e se le primarie del PD l’hanno in parte intercettata con il voto ad Elly Schlein, è altrettanto vero che sarebbe stata più al sicuro e meno esposta a rischi di evidenti contraddizioni se i democratici avessero deciso di mettere da parte la logica stessa che aveva dato vita all’anomalia tutta italiana della fusione molto poco a caldo tra socialdemocrazia e popolarismo liberale di sinistra di tre lustri fa.
Da una fase costituente, da una tabula rasa di ciò che era esistito e che aveva completamente fallito nella coniugazione degli opposti interessi tra lavoro e capitale, forse sarebbero potute emergere nuove esigenze, nuovi stimoli e nuove aggregazioni, abbandonando a sé stesse le logiche correntizie, le divisioni tra gli amministratori con Bonaccini e gli storici leader dei DS e del PD con Schlein.
Ne esce sconfitta, certamente, l’idea di un Partito Democratico spostato al centro, come aggregatore di forze assolutamente moderate, ma solo dalla consultazione degli esterni al partito. Gli iscritti, infatti, avrebbero preferito proprio andare nella direzione tracciata dal Presidente dell’Emilia Romagna.
E questa stramberia, che è possibile giudicare tale se si ha ancora a cuore una forma – partito dal sapore un poco novecentesco ma che, tuttavia, risponde necessariamente al suo corpo militante, ai suoi iscritti, a coloro che ne pretendono – legittimamente – l’affermazione anche nelle urne, è una della perversioni politiche con cui si può giustificare un dualismo che, se faccia bene al cosiddetto “nuovo PD“, è ancora tutto da dimostrare.
Con le regole date, chiunque avesse vinto avrebbe, come si faceva cenno prima, avuto a che fare con un controbilanciamento interno, con un partito in cui oggettivamente vi sarebbe stata una maggioranza da un lato e una minoranza dall’altro. Ma qui i piatti della bilancia sono più di due: perché due sono le maggioranze e due le minoranze. Una e una, rispettivamente, nel partito e nel Paese.
Qual’è, dunque, il PD realmente tale? Quello che gli iscritti avrebbero voluto guidato da Bonaccini o quello che gli elettori e i passanti per caso che hanno versato 2 euro ai gazebo hanno voluto col voto forse pure un po’ improvvisato e improvvisante?
Non esiste un’unica risposta a questo quesito, perché in realtà le domande non sono riconducibili ad una sola, ma rispondono esattamente a quel vizio primigenio del dualismo che prende il via col veltronismo e che oggi, da differenze che si uniscono per governare le compatibilità, mettendo insieme sinistra e centro, e le crisi del sistema liberista, unendo operai e imprenditori in una moderna pace sociale che tanti guasti ha fatto (basti pensare alla furia privatizzatrice e al Jobs act successivo…), assumono le fattezze di divergenze che coabitano in attesa di ulteriori sviluppi.
Certo, la scissione tra bonacciniani e schleiniani sarebbe incomprensibile prima di tutto per il popolo delle primarie. Un po’ meno per quello degli iscritti. Ma significherebbe mettere una pietra tombale sul PD stesso. Avrebbe avuto ancora un senso se una differenza abissale si fosse prodotta nel corso di un processo azzerante e ri-costituente: ma oggi, dopo lo svolgimento della consultazione interna ed esterna per assegnare al partito un nuovo segretario di lungo corso, risulterebbe davvero una manovra esclusivamente opportunistica.
Non sarebbe la prima volta che, purtroppo, si assisterebbe alla declinazione infelice della politica in questa chiave di mero interesse di parte entro una parte stessa e non certamente per logiche legate ad un obiettivo teso a rinverdire beni comuni e giustizia sociale. Ma sarebbe comunque deflagrante: per chi la subisse e altrettanto anche per chi la praticasse.
E’ ragionevole sperare, almeno da sinistra, da un punto di vista anticapitalista, antiliberista e fuori dai giochi dei poli in campo, che la vittoria di Elly Schlein sia, pure involontariamente, produttrice di una serie di movimenti a cascata che spingano verso la marginalizzazione di una logica spartitoria interna al PD, pur dovendo tenere conto degli equilibri sanciti dalle percentuali dei votanti e delle opposte esigenze reclamate ora dagli iscritti, ora dagli elettori.
Una serie di movimenti a cascata, un domino in pratica, che abbiano come conseguenza il ripristino di un viatico programmatico e politico di sinistra moderata e sinistra radicale da un lato, di un centro solitario lasciato al suo destino, di una destra da fronteggiare come antitesi naturale e non soltanto come esigenza di obbedienza allo spirito americanista dell’alternanza.
Questo vorrebbe dire, in pratica, avere da oggi un PD che ponesse come prioritario un ritorno almeno alle ragioni che un tempo furono quelle che diedero vita al PDS, ad un – letteralmente – Partito Democratico della Sinistra.
Allora forse era poco comprensibile cosa volesse ben significare questo nuovo soggetto che nasceva dalle ceneri del grande PCI. Oggi, dopo la storia infausta del liberismo protetto da un finto progressismo, si può meglio comprendere quale fosse l’intento di Occhetto e dei giovani dirigenti cresciuti all’ombra del riformismo che puntava a sostituire il craxismo nella gestione del governo del Paese.
E’ evidente che il paragone è possibile solo nominalmente, perché delle ragioni che portarono alla nascita del PDS rimangono, dopo trent’anni, solo le macerie.
La socialdemocrazia di allora, che si provava a far nascere in una Italia in cui il PSI e il PSDI crollavano sotto il peso delle inchieste e della rivoluzione tangentopolizia, si proponeva ancora entro una proporzionalità del voto, con un confronto a sinistra che, di lì a poco, sarebbe stato subito viziato da un tripolarismo dettato dalla mutazione delle regole di elezione delle Camere e, quindi, di rappresentanza direttamente collegata con i territori e con i bisogni dei cittadini.
Se allora eravamo convinti che il capitalismo non fosse riformabile e gestibile, se non da un punto di vista e di interesse esclusivamente piegato alle logiche del padronato e del mercato, oggi siamo ancora di più convinti – da comunisti e da uomini e donne di sinistra moderna e per questo fermamente anticapitalista e antiliberista – di essere necessari ad una parte importante del Paese che non ha trovato ieri, e nemmeno troverà oggi, risposte adeguate ai propri bisogni da politiche timidamente riformatrici.
Tuttavia, ritenere di poter essere da soli la soluzione a questi grandi problemi sociali, strutturali, economici ed anche politici, sarebbe presuntuoso e pure pretestuoso. Ma ritenere altresì di poterlo fare con un PD che si inserisca nuovamente nel solco del centrosinistra e del cosiddetto “interesse nazionale” interclassista, sarebbe ancora peggio.
La domanda forse più diretta è questa: quello che giornalisti e giornali chiamano già il “nuovo PD” di Schlein, sarà in grado di intercettare le esigenze del mondo del lavoro e delle pensioni, della scuola pubblica e dei beni comuni, dell’ambiente slegato dalle logiche del capitale, delle grandi opere, del privato ad ogni costo?
In sostanza: il PD abbandonerà l’ispirazione maggioritaria, la illogicità dell’alternanza per proporsi come alternativa vera alle destre, seppure da un angolazione riformistica e liberaleggiante di sinistra?
Per meglio specificare: Elly Schlein è pronta a portare il PD fuori dal centrosinistra e aprirsi ad un dialogo esclusivamente a sinistra?
Da parte della sinistra di alternativa e antiliberista, settarismo da un lato e faciloneria alleantista dall’altro sono nemici di una nuova stagione del progressismo italiano che Rifondazione Comunista e Unione Popolare possono contribuire a far evolvere, a sviluppare con quella semplicità argomentativa che deve trovare sintesi in concetti non interpretabili.
Questi, brevemente, sono: pace e disarmo, lavoro e riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali, basta precarità, superamento del Jobs act, di qualunque forma di precarietà, una nuova indicizzazione dei salari e delle pensioni legata all’inflazione reale, la fine delle privatizzazioni e la rivalutazione del pubblico in ogni ambito produttivo e di vita.
Se Elly Schlein porterà il PD dal centrosinistra ad una sinistra che poggi su questi valori e su queste priorità di giustizia sociale, forse sarà possibile quanto meno non trattarsi più da avversari, ma da sinistre che si parlano e che tornano a discutere. Differentemente, continueremo a lavorare per l’alternativa a tutto quello che si riproporrà come massacro sociale spacciato per riforme moderne, naturalmente sempre e soltanto “per il bene del Paese“.
Banalizzando, ma neanche tanto, potremmo dire che il segretario del PD è Bonaccini, la segretaria degli elettori e simpatizzanti del PD è Elly Schlein. Una diarchia che troverà punti di equilibrio in una formula tipo: “Partito di lotta e di governo“. Due sintesi in una. Due PD al prezzo (salato) delle tante compatibilità di sistema fatte ingoiare ai lavoratori nel nome di un progresso sempre meno progressista.
Se così dovesse essere, sappiamo la pagina successiva del copione cosa ci riserverebbe