di Marco Sferini

Dov’è l’eredità sociale delle destre post-fasciste? Se già era irrintracciabile nell’impostazione liberista sul piano delle riforme economiche contenute nel programma di governo di Fratelli d’Italia e della coalizione con Lega e partito berlusconiano, ancora di meno la si può scorgere nella mancanza di empatia nei confronti di un concetto di uguaglianza civile che è, anzi dovrebbe essere, un cardine dell’adesione ai princìpi democratici della Repubblica.

L’insieme dei valori della destra post-missina, da Fiuggi fino ad oggi, si è nutrito di tutta una serie di tentativi di ammodernamento di un armamentario indegno di una qualunque aspettativa di considerazione da parte delle forze economiche per un accreditamento alla posizione di forze capaci di rappresentare la volontà popolare internamente e il Paese all’estero.

Le tante trasformazioni che la destra neofascista è riuscita ad operare, scindendosi molte volte, pulviscolizzandosi e cercando di tenere aggregato nella Casa delle Libertà prima e nel PDL poi quel che di meno indecente si poteva presentare all’opinione pubblica come simbiosi tra iperliberismo padronale, finanziarizzazione della politica e neonazionalismo di varia sorta, parrebbero essere giunte allo scopo di dare finalmente alla destra-destra il suo ruolo di governo con una appendice di centro al seguito.

La coltivazione dei populismi, come traccia moderna di un riavvicinamento dei sentimenti popolari di rabbia e delusione, di sconfitta di appannamento dei diritti, alle istituzioni cadute in disgrazia dall’epoca di Tangentopoli, ha dato i suoi frutti nella sostituzione dell’egualitarismo di sinistra con un finto attaccamento della destra post-fascista ad una idea sociale tutt’altro che tale.

La messa in discussione dell’eguaglianza fondata sul principio dei diritti di natura più che di nascita, ha prodotto una narrazione uguale e contraria, ponendo anzitutto l’origine di ciascuno a base e fondamento della costruzione di tutta una serie di nuove garanzie presuntamente sociali per i cittadini.

L’autoctonia, l’italianità indefessa, la dimostrazione di appartenere alla famiglia dei cosiddetti “valori giudaico-cristiani” del tanto celebrato Occidente democratico, sono divenute le chiavi di accesso al godimento di diritti che la Costituzione per prima garantisce a tutti. Indistintamente.

Eppure questo passaggio antisociale, incivile e anticulturale, è stato possibile grazie ad una riscrittura tanto della storia più attuale del presente in cui viviamo, quanto del passato affidato ad un mezzo secolo e più di fandonie che hanno preso spunto dal ventre molle di una società italiana che mai, veramente mai ha fatto i conti col fascismo fino in fondo.

Non è bastata la fondazione della Repubblica e del resistenzialismo come religione civile del Paese a preservare l’Italia stessa da una costante, irriverente, presuntuosa e proditoria sfaccaitaggine neo e post-fascista tanto sul piano dell’esibizione di una cultura alternativa a quella “ufficiale“, quanto su quello dell’inanellamento di rapporti di stretto interesse tra politica ed economia che sono il fulcro su cui sono cresciute tante attività eversive negli anni ’60, ’70 e ’80.

Nonostante la Costituzione esigesse chiaramente l’irriformabilità del disciolto partito fascista sotto qualunque nome e forma, il neofascismo e il post-fascismo si sono fatti largo fino ad oggi mostrando tanto di sentenze di tribunali che ne sancivano la legalità nel nome dell’espressione democratica delle idee, della tolleranza verso quelli che venivano definiti come dei “semplici atti commemorativi“.

Si è consentita così, dentro la straordinaria difesa della complessità democratica, l’edificazione di santuari predappiani con commercio di modernissimi gadgets, la diffusione a mezzo stampa di calendari e altre forme “commemorative” di Mussolini che appaiono puntualmente ogni anno nelle edicole, oppure l’edificazione di mausolei per massacratori di popoli e comandanti dell’esercito di Salò. Il tutto sostenuto da un revisionismo storico ufficializzato con la consacrazione di giornate stabilite ai martiri dei partigiani rossi comunisti jugoslavi, oppure alle vittime del terrorismo rosso.

Vie, strade, piazze dedicate a criminali fascisti ritornati in auge lungo tutto il corso di vita della cosiddetta “prima repubblica“, nonché parchi o scalinate, sono il contorno a tutto questo e sono il prodotto di un progressivo svuotamento valoriale tanto nella società quanto nei palazzi delle istituzioni di quegli imprescindibili agganci tra storia e attualità, tra memoria e pienezza del presente che avrebbero dovuto impedire l’arrivo a Palazzo Chigi di un governo di destra-centro.

Dopo trent’anni di berlusconismo, tecnicismo e renzismo, dopo i tentativi di estromettere le forze democratiche di sinistra dal governo del Paese prima e dalle aule parlamentari poi con leggi elettorali che hanno fatto comodo un po’ a tutti tranne a quelli che veramente volevano difendere l’unità tra popolo e Costituzione e la traduzione di quest’ultima in una irreprensibile politica di giustizia sociale, il paradosso non è poi così tremendo.

Ci siamo abituati a considerare le forze del destra-centro come assolutamente legali, costituzionalissime, degne del massimo rispetto, perché da loro si è preteso lo stesso riconoscimento. Un atteggiamento dimostrato da quella sinistra moderata e governista che ha condiviso con le forze più reazionarie un punto di vista comune sulla regolamentazione da parte del mercato della vita dei cittadini. Anzitutto di quelli più poveri.

Se le differenze sono rimaste in materia di diritti civili, altrettanto non si può infatti dire per quanto riguarda i diritti sociali. E’ possibile affermare che, anche in questo caso, la destra ha nel corso degli ultimi decenni reso possibile la formazione di una controcultura di governo che, a partire dalla condivisione delle responsabilità sulla torsione al maggioritario di tutta una vita sociale, politica ed amministrativa proporzionale e proporzionalista, si è uniformata oltre al peggiore dei liberismi anche alla riconsiderazione dei temi costituzionali più fondanti?

Non solo è possibile affermare tutto questo, ma è ormai la diretta conseguenza di una osservazione oggettiva dei fatti: non la solidarietà sociale oggi prevale come modello di condivisione dei problemi, bensì il rampantismo, l’arrivismo, la concorrenzialità su tutti i terreni. Pubblici e privati, scuola e lavoro, diritti sociali e diritti civili. Prima gli italiani! Si strepita. E si dà così al Paese la consegna di comportarsi seguendo il canone del capovolgimento di ciò che è stato.

La destabilizzazione antisociale è la cifra della destra: quella estremista e settaria sfrutta le crisi epocali, come la pandemia, per dirigere ad esempio attacchi al sindacato, assaltandone addirittura le sedi nazionali, esacerbando gli animi con fantasie di complotto, corrompendo quel poco di criticità che anche i più fragili culturalmente possono avere, in forma di rabbia ed indignazione, e dirigendo il tutto – utilitaristicamente – verso una protesta confusa, incolore, dal sapore “populista“, sotto sventolii di tricolori e richiami generici al “popolo“.

Quella, invece, che si è data la missione di governare il Paese dallo stravolgimento degli equilibri proporzionalisti della “prima repubblica“, muove dalla distinzione perbenista nei confronti di piccole formazioni fanatiche per dimostrare tutto il suo cambiamento. Radicale, necessario, se si vuole arrivare a gestire davvero il potere. Ma sia nel primo, sia nel secondo caso, di socialità non ve ne è nemmeno l’ombra.

Le ragioni pseudo-sociali della destra sono tornate utili per rinverdire anche un po’ di storia del fascismo, facendo credere che ciò che i fascisti dicevano di sé stessi fosse davvero tale: dall’invenzione del sistema pensionistico, alle tutele per i lavoratori e le donne. Dall’aver reso grande l’economia italiana nel Ventennio fino all’aver portato sulla scena internazionale una piccola Italia unita in regno da poco più di mezzo secolo.

[Si veda a proposito: “Mussolini ha fatto anche cose buone” di Francesco Filippi, Bollati Boringhieri]

La descrizione del fascismo, epurata del suo carattere totalitario, se non per farne un paragone “buonista” con un nazismo molto più cattivo come dittatura, è stata portata avanti esaltando il carattere fieramente “proletario” e quasi socialista del Mussolini delle origini.

Ed oggi, ecco che il conto sembra tornare, perché le destre moderne al governo, a parole riconoscono di affidare alla Storia quel periodo, di sentirlo esattamente e soltanto come un momento lungo della vita politica e sociale del Paese, e non più come una fonte ispiratrice nell’odiernità; nella concretizzazione delle loro azioni manifestano tutta la durezza dell’identitarismo nazionalista, del securitarismo peggiore, dell’antipatia per le diversità, della repulsione per i fenomeni migratori.

Non esiste nessuna tendenza, propensione o cultura sociale delle destre moderne. Perché il sociale storico del fascismo era dettato da una ricerca esclusiva di consenso popolare e non da una sincera voglia di cambiamento della società stessa: dittatura mussoliniana ieri e destre liberiste oggi sono state e sono amiche del confindustrialismo, del padronato, del capitalismo e del mercato senza alcun tentennamento.

I grandi industriali di ieri e i potenti finanzieri di oggi puntano sul conservatorismo per garantirsi tutta una serie di privilegi che, spesso, le ciclicità critiche del mercato fanno oscillare. Meglio un governo repressivo e antipatico nei confronti delle minoranze rispetto ad un esecutivo sempre liberista ma dal marchio democratico che, almeno formalmente, esige dal sistema il rispetto dei diritti e delle libertà civili.

La saldatura tra destre e grande ricchezza non è una novità. Basta leggersi un po’ di storiografia sui rapporti tra il fascismo piemontese e lombardo negli anni ’20 e ’30 per capire quali sono stati davvero gli interessi di un regime che ha sempre finto di stare dalla parte dei più deboli e che, invece, arricchiva sé stesso di consensi, i propri gerarchi di soldi e metteva al sicuro i padroni da possibili scioperi, contestazioni e nuove emersioni di una coscienza e di una lotta di classe da parte del proletariato.

Ecco perché non esiste nessuna destra sociale, ma sempre e soltanto una destra ruffiana, di razza padrona, di chiara matrice liberista che ha la meglio quando deve farsi resiliente nel dimenarsi tra i corridoi delle cancellerie internazionali e che fugge davanti alla vista delle bare di una settantina di migranti morti annegati davanti alle acque di Cutro.

La destra sociale, se davvero esiste, è nelle fantasticherie ideologiche, settarie e paranoiche dei gruppuscoli che ancora inneggiano a “sua eccellenza” e che, nonostante si sentano in parte traditi dai loro cugini al governo, non si discostano troppo dal sostenere i nemici dell’antifascismo, del 25 aprile, del partigianato, della Resistenza, della democrazia e dei lavoratori.

Idee e azioni difficilmente si possono disgiungere e così oggi questi gruppi di giovani inquadrati militarmente in colonne di convinti aderenti ad associazioni con croci bretoni, celtiche, fiamme più o meno tricolori e nomi altisonanti che echeggiano la “tradizione“, si sentono legittimati a menare le mani, a fare la voce grossa.

Un tempo si diceva che la Repubblica aveva gli anticorpi per resistere ad un rigurgito di aggressività dal basso, diffusa, di un nuovo squadrismo strisciante che avesse tentato di farsi largo nel deserto della sinistra e di un centro democratico che ancora innervavano su di sé i più alti valori della Resistenza e del costituzionalismo.

Se questi anticorpi esistono, è venuto il momento di dimostrarne l’efficacia: facendo fronte, unendo le differenze nel rispetto delle particolarità. Ma sapendo che per battere sul piano politico e (anti)sociale questo governo serve, oltre alla considerazione dei rapporti di forza economici, anche una riproposizione di una cultura diffusa che smonti pezzo per pezzo le bufale neo e post-fasciste. Sia storiche, sia attuali.

Soltanto così, con una lotta congiunta tra sindacati, partiti e associazioni politiche e culturali potrà ricomporsi, ancora una volta, un “Paese nel Paese” e potrà la criticità trovare nuovo spazio in una coscienza singola e collettiva.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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