Puntuale come una cambiale, sulle pagine dei quotidiani si ripresenta una tesi che potremmo così sintetizzare: “In Italia il lavoro c’è, ed è abbondante, ma non c’è nessuno che vuole faticare”. Stando a questa ignobile lettura, la disoccupazione non dipenderebbe da una cronica carenza di domanda di lavoro da parte delle imprese, non da due crisi (legate alla pandemia e alla guerra in Ucraina) che hanno fatto seguito ad una decennale stagnazione, ma proprio dai disoccupati che preferirebbero starsene a casa piuttosto che guadagnarsi da vivere.
L’ultima a soffermarsi su questo tema è stata “La Repubblica”, che lo scorso 6 marzo ha dedicato alla questione la prima pagina dell’inserto Affari&Finanza, occupata da un pezzo dall’incipit emblematico, “Gli introvabili”. L’articolo è particolarmente interessante perché espone in modo sintetico la visione dominante (politici di Governo e d’opposizione, media e perfino illustri accademici) sulle cause della disoccupazione. L’argomentazione è chiara: di lavoro non ne manca, sono i lavoratori che non hanno voglia di lavorare.
Queste notizie stimolano dunque una riflessione sui dati macroeconomici del mercato del lavoro italiano, guardando soprattutto ai disoccupati e ai posti vacanti. Partiamo dai primi: si definisce disoccupato un individuo che non lavora ma cerca attivamente lavoro ed è effettivamente disposto a lavorare. La domanda che dobbiamo porci è la seguente: è vero che in Italia non ci sono disoccupati a sufficienza per riempire le caselle vuote nel mercato del lavoro? Bene, nel terzo trimestre del 2022 in Italia c’erano ben 1 milione e 927 mila disoccupati e disoccupate disposti a lavorare. Di questi, 1 milione e 123 mila erano almeno diplomati. Sembrerebbe quindi che, per quanto in discesa (anche alla luce di una fisiologica ripresa dell’occupazione dopo il collasso economico del 2020), il numero di persone che cercano lavoro sia ancora rilevante, tant’è che il tasso di disoccupazione si attestava al 7,8%.
Passiamo ora alla seconda questione, vale a dire la presenza di posizioni lavorative vuote e in cerca di lavoratori. Come abbiamo più volte fatto per smontare queste tesi, siamo andati ad analizzare i dati sul numero di posti vacanti. I posti vacanti sono le posizioni aperte presso le aziende con almeno un addetto che non hanno ancora trovato un candidato idoneo. Per farla semplice, rappresentano la domanda di lavoro non soddisfatta. Bene, nello stesso semestre, in Italia c’erano 466 mila posti vacanti, pari a circa il 24% dei disoccupati: anche se la domanda di lavoro riuscisse ad essere completamente soddisfatta, rimarrebbero in Italia circa un milione e mezzo di disoccupati (ai cui si aggiungono coloro che, in preda a fenomeni di scoraggiamento, un lavoro nemmeno lo cercano in quanto certi di non trovarlo). Ma c’è di più: il numero di posti vacanti risulta insufficiente anche per occupare i disoccupati con una formazione medio-alta.
Il grafico di seguito evidenzia bene la differenza tra la montagna di disoccupati e il topolino dei posti vacanti. Badate bene: i nostri calcoli fanno riferimento a dati ISTAT, basati su una metodologia certificata e utilizzata da anni a livello internazionale. Nulla a che vedere con le fonti da cui pesca l’articolo di Repubblica, stando al quale esisterebbero quasi due milioni di assunzioni per le quali le imprese nel 2022 hanno riscontrato difficoltà, 600mila in più rispetto al 2021. La fonte cui si fa riferimento, tuttavia, è un rapporto Unioncamere-Anpal, basato su questionari rivolti alle imprese: stando a questo rapporto, le imprese prevedevano, per il 2022, poco più di 5 milioni di assunzioni, ma che avrebbero riscontrato importanti “difficoltà di reperimento” per il 41% delle entrate previste. Dati che definiremmo coraggiosi, se non tendenziosi, in quanto rappresentativi di previsioni, intenzioni e pareri formulati esclusivamente dal mondo delle imprese.
Il problema può essere visto guardando anche ad un’altra misura detta indice di sovrappopolazione relativa. Questo indice ci dice quale sia il rapporto tra tutti i lavoratori disponibili in un determinato periodo (la somma di occupati e disoccupati) e il totale delle posizioni disponibili nello stesso periodo (la somma di occupati e posti vacanti). Quando questo indice è uguale a 1 vuol dire che i posti vacanti sono tali da soddisfare tutti i disoccupati. Quando questo rapporto è superiore ad 1 vuol dire che l’offerta di lavoro – ossia, i disoccupati disposti a lavorare – è superiore alla domanda di lavoro e quindi che le posizioni aperte presso le aziende non sono tali da assorbire la mole di lavoratori disponibili. Come si può notare dal grafico sottostante, il mercato del lavoro italiano non versa in una situazione per cui il problema è un eccesso di posti lavoro da colmare: in tutto il periodo considerato (2018-2022), l’indice è superiore a 1.
Questi dati dimostrano come il problema della disoccupazione in Italia dipenda quasi esclusivamente dalla debolezza della domanda di lavoro da parte delle imprese. A sua volta, una domanda di lavoro che langue deriva da una carenza complessiva di domanda di beni e servizi: nessuna impresa assume lavoratori o lavoratrici nel caso in cui non ha una produzione da realizzare (e vendere). In questo contesto, le trentennali politiche di austerità di bilancio (che, in barba all’entusiasmo di certi commentatori, neanche il PNNR è riuscito a sovvertire), non hanno fatto altro che contribuire alla carenza di domanda aggregata, alla conseguente stagnazione e all’esplosione della disoccupazione.
Come spiegare, allora, la grancassa mediatica su un tema che, una volta confrontato con i dati e con la realtà, si sgonfia sensibilmente? Ci sono diversi ordini di ragioni.
C’è, prima di tutto, una ragione politica generale, che coincide con il tentativo di veicolare un messaggio semplice e velenoso: se non lavori, la colpa è tua, della tua pigrizia e del tuo desiderio di non guadagnarti il pane con il sudore della tua fronte. A questo messaggio si annette tutta la retorica del sacrificio e della ‘gavetta’ come strumenti di accrescimento personale.
C’è, in secondo luogo, anche una specifica ragione politica contingente dietro i lamenti del padronato italiano che non riuscirebbe a trovare lavoratori cui elargire la propria benevolenza. Tali lamenti hanno a che fare con l’ennesimo tentativo di provare a strappare ulteriori misure di precarizzazione del mercato del lavoro, che da strumento tramite cui sfruttare ulteriormente il lavoratore diventano magicamente la via che consentirebbe un migliore ‘allineamento’ tra domanda e offerta di lavoro.
Per finire, non si può non notare la sinistra coincidenza temporale con la tragedia di Cutro, usata dal caporale di turno per dare ancora una volta linfa allo stesso odioso refrain di sempre: il migrante non ci interessa in quanto essere umano, ma ci serve solamente come schiavo per farsi carico dei lavori a salario da fame che gli italiani non vogliono fare, uno schiavo debitamente disciplinato preventivamente a suon di morti in mare