Emilio Gardini 

Italia si adottano politiche ostili all’accoglienza di coloro che arrivano da posti dove la vita umana è a rischio. La tendenza a considerare le migrazioni come un pericolo per la sicurezza collettiva prevale sulla possibilità di fornire aiuti. Si potrebbe obiettare che quelle politiche sono rigorose e non ostili, e lo sono perché hanno l’obiettivo di contrastare l’immigrazione “irregolare” e i problemi che ne conseguono. Tra questi problemi non vi sono però quelli di coloro che fuggono da contesti nei quali le vite sono costantemente offese e umiliate. Ed è qui che la ragione politica che governa i fenomeni migratori mostra la sua “ambiguità morale”. Difficile rintracciare una gerarchia universale di valori che “fa la morale”, men che mai oggi, quando nel discorso pubblico, compassione e miserabile cinismo si fondono, come è avvenuto intorno al naufragio di Cutro in Calabria avvenuto ormai più di un mese fa nel quale hanno perso la vita moltissime persone che erano in cerca di accoglienza. Politica e morale sono però tra loro connesse, perché le politiche sono mosse da una morale, rispondono a dei valori e ne producono degli altri. Semplificando potremmo dire che l’inventario di valori che orienta la morale rappresenta un insieme di strumenti per il giudizio e quindi per l’azione. È una semplificazione, occorre ribadirlo ancora, le cose sono certamente più complesse; in uno stesso contesto sociale il sistema morale “dominante”, istituzionale per così dire, talvolta non coincide con altri sistemi morali dotati di propria autonomia. Proviamo a chiederci però: possiamo affermare che è un giudizio morale dire che i migranti che si avventurano in mare con la speranza di fuggire dalla violenza sono degli irresponsabili che affrontano, insieme ai loro figli, viaggi pericolosi che li porteranno alla morte? Certo, è un giudizio morale. Ma vi è un evidente uso strumentale della morale che diventa un mezzo per operare una distinzione tra le buone condotte (normalmente “le proprie”) e quelle cattive (normalmente “le altre”). Affermazioni come queste sono possibili perché le vite di chi fugge dalla violenza vengono private del loro “riconoscimento politico” per il modo in cui sono trattate anche nei luoghi nei quali arrivano. Mentre sembra che al di qua del mare non vi siano responsabilità e, una volta che si è dichiarato di aver fatto il possibile per salvare le vite, la coscienza – che pure è una manifestazione della morale – è pacificata. Qualcosa non quadra. Non quadra perché la responsabilità, proprio perché “socialmente appresa” non è slegata dalla presenza degli altri, anzi è soprattutto una questione relazionale, esiste quando si è di fronte agli altri, anche di fronte a coloro che sono in mare e che sono in cerca di accoglienza. Dire “la mia responsabilità” significa dire “la mia responsabilità nel rapporto con altri”. Occorre allora sovrapporre “morale e sociale” per comprendere le implicazioni delle responsabilità. La morale rimane un astratto apparato di valori e di idee se viene separata – come dice l’antropologo Didier Fassin – “dalla trama storica, dalla struttura sociale e dalla sfera politica”[1]. La morale va compresa di fronte ai fatti politici e alle questioni sociali che in questo momento sono l’effetto di politiche orientate all’opposizione verso coloro che vengono da fuori, di volta in volta descritti come “irregolari” e “clandestini”. Così la morale diventa non solo un mezzo che neutralizza la dimensione relazionale della responsabilità ma anche la chiara manifestazione della violenza strutturale, un tipo di violenza inscritta nel sistema sociale che si esercita attraverso procedure burocratiche impersonali. Non è mai chiaro chi sia veramente responsabile. E infatti ancora una volta la politica tenta di risolvere la questione attraverso interventi di polizia che, come ormai risulta fin troppo chiaro, rispondono ad un altro problema e non certo alla necessità di difendere le vite offese. Per questo alcuni non riescono a comprendere che coloro che fuggono dalla sofferenza non sono “responsabili” di ciò che subiscono. Perché confondono, forse nemmeno ingenuamente, il rapporto tra responsabilità e colpa invertendo, arbitrariamente, l’ordine dei termini.

[1] D. Fassin, Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano. Milano, Feltrinelli, 2019

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy