Daniel Rojas Medellín, presiede la SAE, incaricata di gestire i beni confiscati alle organizzazioni criminali e a quelle legate al narcotraffico. In una intervista esclusiva a El Salto Diario, approfondisce la situazione politica colombiana
Economista di 36 anni, Daniel Rojas Medellín è stato uno degli artefici del passaggio di potere dal governo di Iván Duque a quello di Gustavo Petro, coordinando la coalizione conosciuta come Pacto Histórico [Patto Storico, coalizione di governo fondata nel 2021 – ndt]. Attualmente è presidente della Sociedad de Activos Especiales (SAE) [Società degli Utili Speciali, – ndt], incaricata di gestire i beni sequestrati alle organizzazioni criminali e a quelle legate al traffico di stupefacenti. Un’ente chiave nella strategia per la pace in Colombia legata al reinvestimento di questi utili verso organizzazioni sociali. Difende «una nuova economia produttiva gestita dalle organizzazioni contadine, le cooperative urbane di giovani produttivi e le associazioni popolari di donne». A causa del suo lavoro a capo della SAE, sta ricevendo continue minacce da parte di gruppi paramilitari e narcotrafficanti.
La Procura di Stato ha sospeso per tre mesi dalle proprie funzioni lei e due altri dirigenti della SAE. Per quanto abbiamo potuto indagare, il provvedimento è dovuto al fatto che lei ha indetto un’assemblea per fermare la vendita della società pubblica Triple A [Sociedad de Acqueducto, Alcantarillado y Aseo, Società di Acquedotti, Fogne e Igiene, ente pubblica che gestisce il sistema idrico di Barranquilla, capoluogo costiero del Dipartimento Atlantico nel nord del paese – ndt], valutata 2.400 miliardi di pesos colombiani [circa 480 milioni di euro – ndt]e che stava per essere venduta per 500 miliardi di pesos colombiani [circa 100 milioni di euro, ndt]. Secondo lei, quali sono le motivazioni che hanno ispirato questa azione da parte della Procura Generale?
La Procura Generale è un organo di controllo, e in particolare in Colombia ha il potere di sanzionare e agire come polizia politica. Ovvero, rimuovere funzionari pubblici dai propri incarichi. Negli altri Paesi, le Procure hanno il potere di esercitare controlli e operare come garanti dei diritti, ma non il potere di sanzionare i dirigenti pubblici. È qualcosa su cui la Corte Interamericana dei Diritti Umani si è già pronunciata sancendo che non dovrebbe disporre di questo potere nei confronti di funzionari pubblici eletti e nemmeno verso quelli nominati dal Governo, perché in questo modo l’assetto istituzionale potrebbe essere utilizzato per controllare e persino perseguitare quei funzionari che avessero pensieri contrari a chi dirige l’ente. Nel mio caso particolare, come fa notare Lei, è stato un gesto di responsabilità che abbiamo compiuto in quanto dipendenti pubblici, con una società le cui azioni sarebbero state vendute per un valore approssimativo di 500 miliardi di pesos. Quando in merito alla valutazione della società abbiamo consultato la Sovrintendenza ai Servizi Pubblici, che è l’ente preposto a valutare il patrimonio di questo tipo di società, che sono pubbliche, abbiamo appreso che poteva valere quattro o cinque volte di più di quanto stipulato nel contratto di vendita. Il nostro dovere di dipendenti pubblici è quello di salvaguardare il patrimonio generale dello Stato, che appartiene a tutti, e quel che abbiamo fatto è stato sospendere quel trasferimento di azioni fino a quando non fossimo stati certi che non si stesse verificando un possibile danno erariale al patrimonio pubblico. È a questa decisione che si è opposto il procuratore generale.
E ha deciso la sua sospensione.
Sì. Eppure, l’ufficio del procuratore generale ha da poco sospeso tale misura. Diciamolo in termini colloquiali: ha fatto marcia indietro sulla sospensione, visto che non ha trovato colpe e nessun elemento giuridico a sostegno del suo provvedimento. E perché non lo ha trovato? Perché quello che abbiamo fatto è stato fare un accordo con il sindaco di Barranquilla affinché le azioni passino nelle mani di quel distretto, ovvero rimangano pubbliche. Così, nell’ipotesi in cui il danno erariale per il quale avevamo lanciato l’allarme si verificasse, i privati non beneficerebbero di questa anomalia visto che si tratterebbe di una cessione di azioni da una società pubblica a un’altra società pubblica. Nel caso in cui la società venisse venduta a meno del suo valore, è garantito l’interesse generale e non quello privato. Questo era l’accordo.
Avevo capito che questa società sarebbe stata venduta a privati, almeno la maggioranza del capitale. Significa che ora non passerebbe più in mani private e continuerebbe a essere pubblica, di proprietà del sindaco di Barranquilla?
All’inizio, era davvero così. Si stava vendendo a un consorzio di capitali pubblici e privati, nel quale quelli pubblici esercitavano leva finanziaria su quelli privati. Se ci fosse stato un danno patrimoniale, per il quale avevamo lanciato l’allarme sul rischio che sarebbe potuto succedere, ne avrebbero beneficiato gli interessi privati. Abbiamo agito perché ci rifiutiamo di operare, o di omettere, a privilegio di un interesse privato. É stata questa decisione quella che ha portato alla sospensione da parte dell’ufficio del procuratore generale. Ma quando abbiamo raggiunto un accordo con l’ufficio del sindaco di Barranquilla, l’ufficio del procuratore generale non aveva più alcun elemento per mantenere la mia sospensione.
Questo è l’accordo. La questione del prezzo dell’azienda non è ancora chiara. Noi abbiamo fatto una stima del valore e quando il contratto è stato redatto ne è stata fatta un’altra. Si sta però affermando l’idea, ma solo nel caso in cui venga venduto per un valore molto inferiore, che se dovesse essere privilegiato qualcuno che sia almeno nell’interesse pubblico, nell’interesse generale. Pertanto, che l’azienda si mantenesse pubblica era qualcosa che ci interessava e per il quale siamo riusciti a metterci d’accordo con il sindaco di Barranquilla.
La società rimane esclusivamente in mano pubblica. Confida che questo impegno verrà mantenuto?
Ci auguriamo che questo impegno venga mantenuto, visto che è stato sottoscritto in un accordo, in un contratto con clausole ben definite. Un accordo in vigore con il Comune di Barranquilla.
Ma tengo a precisare che anche se la sospensione emessa nei miei confronti è stata revocata, le indagini proseguono. L’ufficio del procuratore ha stabilito che l’indagine contro di me e i funzionari della SAE continuerà il suo corso. La nostra preoccupazione è che in Colombia si stiano mettendo a rischio le istituzioni dello Stato di Diritto. Nell’amministrazione della società c’erano ancora membri del governo precedente (di Iván Duque) e, logicamente, il nuovo governo ha modificato il direttivo, introducendo nuovi membri nella composizione del consiglio di amministrazione. Quello che non sembra molto normale è che proprio nel giorno in cui abbiamo convocato l’assemblea della società Triple A per stabilire cosa fare dell’operazione di vendita, la Procura Generale sia comparsa per sospendere intanto quella riunione e, non riuscendoci, emanare due giorni dopo la sospensione nei miei confronti. Mi sembra sospetto, è un caso che va studiato e sono quattro mesi che lo stiamo analizzando.
Sembra tutto un po’ strano.
La situazione è molto complessa. Nonostante il contratto avesse clausole redatte con cura, si scopre che in due giorni la corte l’aveva già letto per intero e studiato per il caso. Mi sembra strano. In secondo luogo, quando guardo l’ordinanza della Procura, leggo che sono accusato di qualcosa di assolutamente insolito, tanto che sembrava che il responsabile, il sostituto procuratore in questo caso, non avesse mai letto il contratto, o non avesse idea a cosa si stesse riferendo. In primo luogo, perché la SAE non ha mai violato il contratto e non abbiamo mai detto che lo avremmo risolto unilateralmente, anche se avremmo potuto farlo. In secondo luogo, stiamo evitando una perdita patrimoniale miliardaria. Perché si afferma che la sospensione fosse per evitare un danno patrimoniale smentendosi immediatamente, perché in realtà era proprio quello che stavamo evitando. In terzo luogo, la sospensione ha il tanfo di essere stata fatta per fare pressione a favore del trasferimento delle quote. Significa che sospendendo me, la persona che mi sostituirebbe dovrebbe cedere le quote, perché in caso contrario verrebbe sospeso anche lui per lo stesso motivo. In quarto luogo, i media hanno chiesto specificamente al sostituto procuratore perché stanno indagando e perché hanno sospeso il funzionario Daniel Rojas. E il sostituto procuratore ha risposto «Anche questo è oggetto di indagine». Era come in quell’aneddoto di guerra nel quale il generale fa eseguire la fucilazione prima che arrivi l’ordine.
Si potrebbe pensare che siamo di fronte a un caso di lawfare [termine inglese per definire la strumentalizzazione della giustizia a fini politici – ndt], così comune in America Latina?
Ha tutte le caratteristiche di un caso del genere.
L’ufficio del vice-procuratore è mai intervenuto o ha scoperto altri casi di corruzione prima del suo?
L’opinione pubblica è stata molto critica. Anche settori della Academia del Periodismo [Accademia del Giornalismo – associazione argentina di giornalisti fondata nel 1987 – ndt] che non sono legati al governo, né al pensiero del presidente Petro, né a me, né al nostro partito, sono stati molto critici nei confronti dell’azione della Procura perché nelle loro parole, che non sono le mie, c’è stato molto lassismo verso i casi di alta corruzione e molta rapidità nella mia sospensione, cosa che genera anche sospetti da parte dell’opinione pubblica.
Quando si è insediato ha dichiarato: «Da oggi, tutti i beni confiscati passati di proprietà alla SAE diventeranno la base di una nuova economia produttiva gestita dalle organizzazioni contadine, le cooperative urbane di giovani produttori e le associazioni popolari femminili». Le faccio tre domande in una: com’è stato il processo di confisca di quei beni? Quali criteri sono stati utilizzati per consegnare quei beni ai destinatari che avete scelto? Si è creata una qualche amministrazione autonoma, o almeno partecipata, o è solo dello Stato?
Innanzitutto, chiarisco che i processi di confisca non competono alla SAE, ma all’Ufficio della Procura Generale. La SAE non è parte del procedimento penale di sequestro, ma una volta che la Procura dispone la confisca della proprietà di tali beni, emette un verbale di consegna alla SAE e dalla data di sottoscrizione di tale verbale comincia la gestione da parte della SAE. Non abbiamo alcuna influenza per quanto riguarda i processi di confisca. Si tratta di un esercizio prettamente penale in cui la Procura può determinare il provvedimento di confisca. Quello che abbiamo fatto è stato rispondere alle denunce e alle indagini dei media e alla diffusa lamentela che esisteva nella società colombiana riguardo alla destinazione e alla gestione di questi fondi, immobili e beni in generale. Perché c’è di tutto: beni mobili, immobili, aziende, esercizi commerciali, appartamenti, aziende agricole, veicoli, ecc. Questa amministrazione è dovuta stare molto attenta, altrimenti in molti casi i beni sarebbero tornati ai loro precedenti proprietari.
Tali beni sono appartenuti a un certo punto a economie illecite e, pertanto, non generavano valore aggiunto di natura pubblica. Non erano incasellati in un sistema produttivo legale che generasse ricchezza. Una azione correttiva logica è che questi beni diventino ora parte di una nuova economia.
Lo abbiamo detto a suo tempo, ma per specificarlo ulteriormente, li destiniamo a un’attività produttiva in cui si possano mettere in collegamento chi è stato escluso dal mondo economico in Colombia. Se queste economie illecite, sotterranee, clandestine, avessero (o hanno) dei canali transazionali che sfociano anche in sangue, massacri, miseria e violenza, un’azione riparatrice sarebbe che adesso questi beni avessero una vocazione produttiva e che coloro che possano farne uso siano di queste comunità. Ci siamo impegnati a progettare qualcosa che che abbiamo scritto nel programma di governo: quelle che abbiamo chiamato alleanze pubbliche popolari. In cosa consistono queste alleanze pubbliche popolari? Lo Stato, in questo caso la SAE, concede beni produttivi, fondi e mezzi di produzione come terreni, o beni di investimento e le comunità organizzate contribuiscono con la manodopera, forniscono esperienza, modelli di impresa e, insieme, lo Stato e le comunità, possono generare valore pubblico, produrre beni. E questo dovrebbe propagarsi in una filiera che ci permetta anche di generare occupazione, realizzare progetti produttivi sostenibili, evitando la logica di uno Stato che si limita a erogare sussidi e mantenere una cittadinanza legata e assoggettata ai sussidi. Qui entriamo in una nuova logica nella quale lo Stato è socio della cittadinanza, fornisce un capitale così come lo fornisce la cittadinanza. In questo caso non mi piace parlare di capitale umano, diciamo la forza lavoro, le persone, l’esperienza, l’organizzazione. E insieme creiamo valore.
Qual è il criterio per sceglierli?
La legge ci impedisce di occuparci di questo aspetto. Quello che abbiamo fatto è vedere come ci adattiamo alla legge, che indica i requisiti per essere designati depositari dei beni della SAE. Incontriamo grandi organizzazioni contadine che, a loro volta, racchiudono organizzazioni più piccole così da fungere da una sorta di ombrello giuridico, e con loro sottoscriviamo contratti. Con i giovani si segue la stessa logica, e anche lì non siamo noi a definire i giovani, né a scegliere i beneficiari, ma abbiamo creato un’alleanza con l’ente governativo, che è il Consiglio Superiore della Gioventù e sono loro a scegliere i giovani. Questa è la direzione che seguiamo.
Il Pacto Historico è riuscito a rendere credibile un processo di pace che ha avuto le sue conquiste, ma anche le sue ombre. In occasione dei festeggiamenti di fine anno, Gustavo Petro ha dichiarato su Twitter: «Abbiamo concordato un cessate il fuoco bilaterale con l’ELN, con lo Stato Maggiore Centrale delle FARC e la Segunda Marquetalia [una delle sue fazioni più numerose – ndt], con il Clan del Golfo e con i narcotrafficanti della Sierra Nevada, ecc. dal 1° gennaio al 30 giugno 2023, prorogabile secondo l’andamento delle trattative». L’enunciato è ottimo, tuttavia ci sono dei chiaroscuri in questo processo. Anche se in numero minore, continuano ad esserci morti per mano di paramilitari e narcotrafficanti e, inoltre, Iván Márquez, Jesús Santrich e il Paisa, dirigenti delle FARC, sono tornati alla guerriglia. Qual è lo stato attuale del processo di pacificazione, dei suoi avanzamenti e delle sue zone ancora d’ombra?
Il presidente ha fatto una richiesta a noi che facciamo parte del governo: che riguardo al negoziato di pace totale, l’unico autorizzato a parlare con qualsiasi mezzo di comunicazione sia l’Alto Commissario per la Pace. Tuttavia, questo non mi impedisce di esprimere la mia opinione su quanto è dia competenza, sia come pubblico ufficiale che, come in questo caso, come presidente della SAE. Ovvero, che la garanzia della pace totale avviene quando i beni che vengono amministrati, o meglio, che sono stati sequestrati ai gruppi armati illegali, non tornano sul campo di battaglia, perché questo non consentirebbe il raggiungimento e la stabilità della pace.
E in questo senso la nostra promessa è proprio quello di mettere questi beni al servizio delle persone e garantire la non restituzione ai gruppi armati ai quali sono stati sequestrati. È un peccato che, nel quadro di un impegno di pace che è stato firmato e per il quale il governo ha mostrato la propria volontà di rispettarlo, continuino a verificarsi atti di natura terroristica e criminale, perché questo mina la fiducia. Ma sono molto ottimista e fiducioso che il Governo dell’Alto Commissario e i compagni e le compagne che stanno lavorando intensamente per accordarsi sulla pace possano superare questi ostacoli, anche perché il Presidente è stato molto chiaro nei suoi discorsi. Ovvero, il governo non si lascerà ingannare da nessun elemento armato e che nel caso dovesse essere ingannato (e queste sono state le parole del presidente), anche il governo agirà. Quindi attendiamo che le trattative abbiano esito e noi, dalla posizione in cui ci troviamo, metteremo il nostro granello di sabbia affinché la pace totale diventi realtà.
A proposito di violenza, anche se in questo caso istituzionale, cosa ne pensa della destituzione e incarcerazione del Presidente del Perù, Pedro Castillo?
È un po’ quello a cui mi riferivo nella domanda precedente. È davvero un peccato che in America Latina le forze di opposizione cerchino di impedire ai governi di origine popolare non solo di vincere le elezioni, ma anche di osare rispettare i loro programmi di governo, che ci siano forze di opposizione disposte a porre fine alle vestigia di democrazia che i nostri popoli hanno costruito e che mettano le istituzioni degli Stati al servizio delle loro rivendicazioni politiche particolari, danneggiando in questo caso non tanto il Presidente Castillo, non il suo partito politico, i suoi ministri e le forze politiche che lo sostengono, ma la democrazia peruviana.
Si può essere d’accordo o in disaccordo con le politiche portate avanti dalla squadra del presidente Castillo, ma ciò su cui dovremmo essere d’accordo e che dovrebbe essere un patto tra le diverse forze del continente, è la protezione dello stato di diritto, delle democrazie e delle istituzioni che deve essere al di sopra di ogni aspirazione politica. È per questo che quanto sta accadendo in Perù è molto spiacevole, perché rappresenta un passo indietro che speriamo il popolo peruviano abbia la capacità di superare e che questo tipo di azione non si diffonda in tutto il continente. Perché, insisto, rappresenta un pericoloso passo indietro che genera focolai di violenza e ci trascina in una situazione che credevamo ormai superata nel continente.
Sembra esserci una rinascita della CELAC (Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici), nonostante alcuni attriti interni espressi in un recente confronto tra i presidenti di Cuba e Uruguay. Le sembrerebbe opportuno resuscitare il CELAC come strumento per affermare gli interessi dei paesi latinoamericani, invece di incanalarli tramite l’OSA [Organizzazione degli Stati Americani – ndt] e il suo Segretario Generale Almagro, palese appendice degli interessi multinazionali e del capitale finanziario?
Sì, è indispensabile che l’America Latina abbia uno spazio di risoluzione, non solo dei conflitti, che esisterà sempre perché i nostri popoli sono eterogenei e perché, in definitiva, abbiamo una storia lunga tracciata dalle discussioni tra popoli fratelli. È però molto importante che queste discussioni vengano risolte in spazi nei quali possiamo essere totalmente autonomi e sovrani, non soltanto per dirimere questo tipo di discussioni ma anche per permetterci di integrarci come popoli, perché abbiamo la possibilità di generare vantaggi comparativi e competitivi di fronte a un mondo globalizzato. È una realtà nella quale l’America Latina, come popolo unito, può rappresentare una forza produttiva e, inoltre, strategica e geopolitica. Quindi il CELAC e questo tipo di spazi di discussione ci permettono di avere finalmente una voce come popolo e come continente, con tutte le differenze che possiamo avere ma anche sfruttando i vantaggi che potremmo ottenere. Il ritardo che il nostro continente mostra nei confronti del resto del mondo è causato proprio da quella balcanizzazione che si è verificata in America Latina e che non ci ha permesso di integrarci. Sarebbe una grande opportunità.
Tra i governi progressisti dell’America Latina sembrano coesistere due progetti abbastanza diversi. Uno, che si accontenterebbe di amministrare e di gestire quello che è stato ereditato dal neoliberismo in ritirata; una linea, diremmo, possibilista. Comporta rassegnarsi alle politiche di adeguamento del FMI a servizio di un soffocante debito estero e mantenere anche i paradigmi del neo-sviluppo, dell’agrobusiness, dell’estrazione mineraria intensiva e dell’estrattivismo come principale fonte di valuta estera per coprire la spesa pubblica e la creazione di posti di lavoro. Parallelamente, ci sarebbe un’altra posizione che farebbe più affidamento su produzioni e mercati locali o regionali e cercherebbe di uscire dalla separazione internazionale del lavoro imposta dalla globalizzazione. Se è d’accordo con questa rappresentazione, come posizionerebbe l’attuale governo colombiano in questa dicotomia?
Il programma di governo del presidente Petro che ha vinto le elezioni si ascrive chiaramente a questa seconda linea, nella quale non è presente la gestione del modello ereditato, detto neoliberista. Propone invece al popolo colombiano una transizione verso un modello produttivo, sì, ma profondamente democratico, nel quale smettiamo di essere semplici esportatori di materie prime a buon mercato e importatori di beni e servizi dall’elevato valore aggiunto e smettiamo di vivere soltanto di rendita nel cuore della nostra economia, per diventare invece produttivi. Una produzione profondamente democratica con un carattere climatico, non monopolizzata e non oligopolistica ma con una base inclusiva che colleghi e riconosca quella che chiamiamo economia popolare; è lì che si inserisce la stragrande maggioranza dei lavoratori del Paese che oggi si definiscono informali, ma che non smettono di essere lavoratrici e lavoratori soltanto perché al di fuori dalle formalità istituzionali del lascito neoliberista. E, quindi, affinché non sia mera retorica, abbiamo proposto alcune riforme; ecco perché questo governo potrebbe essere definito radicalmente riformista o democraticamente riformista.
È proprio questo che ha portato al sorgere di attacchi come quello di cui abbiamo discusso all’inizio di questa intervista. Perché alla fine, secondo me, ci hanno lasciato vincere le elezioni ma quello che ci stanno dimostrando è che non vogliono farci governare, non vogliono farci fare le riforme per trasformare questo modello che in 40 anni di applicazione ha dimostrato di aver fallito e che ci mantiene come uno dei paesi più diseguali al mondo, con tassi di disoccupazione a due cifre e con una disuguaglianza schiacciante. È questo che ci porta a dire che non possiamo continuare a gestire questo modello fallimentare perché non è gestibile. Ci stiamo muovendo verso qualcosa che non è il socialismo, potremmo anche definirla una transizione verso un capitalismo democratico, per quanto possa sembrare un ossimoro. Diciamo, un modello che ci permetta almeno di produrre, perché la Colombia, che è un Paese a vocazione agricola, oggi importa 14 milioni di tonnellate di cibo. Si tratta di produrre e non soltanto di dipendere dalla rendita. Rendita, anche derivante dalla cocaina, che è parte della sanguinosa storia del Paese.
A riguardo di quanto sopra: quando Petro ha affermato che avrebbe introdotto la regolazione e il controllo delle tariffe dei servizi pubblici si è scatenato il putiferio. Sono piovute critiche di ogni tipo e gli è stato detto che sarebbe stato un errore storico. Ha risposto che non era un errore, che sa quello che fa e che mantiene la sua decisione di intervenire sulle tariffe dei servizi pubblici. È un chiaro intervento dello Stato nell’economia, quello che i liberali amano definire attacco alla libertà di mercato, populismo comunistizzante, bolivarismo, ecc. Sono provvedimenti come d’altri tempi, quando gli Stati intervenivano con forza nell’Economia. Si tratta di una misura eccezionale o può far parte di una serie di risposte governative d’ora in avanti?
Diciamo che fa parte dell’economia politica, ma globale. Il mercato ha delle falle e quando queste compaiono, gli Stati li correggono. In questo caso, gli oligopoli fanno cartello per stabilire o accordarsi sui prezzi. E non stiamo parlando di beni o servizi qualunque, ma di quelli che sono legati all’erogazione dei diritti. È quindi dovere dello Stato correggere questo tipo di falle. In tutti i casi in cui i diritti vengono lesi, o vi sia la propensione a mettere a rischio l’erogazione di diritti per via delle logiche di mercato, lo Stato ha la responsabilità di intervenire per garantire tali diritti. Non sono in grado di rispondere se questo si trasformerà in una logica di lungo corso.
Quello che però è molto chiaro, e ne è un esempio la riforma sanitaria in discussione al Congresso, è che per questo governo la garanzia dei diritti è al di sopra delle tradizionali logiche di mercato, perché i diritti non sono merce. Finché continueremo a pensare che i diritti siano merce, continueremo a credere che sia irrazionale che gli Stati intervengano per garantirli, quando irrazionale è che i mercati siano gli assegnatari ideali dopo aver passato 40 anni di fallimenti credendo in questo tipo di ideologia. Quindi, come con la riforma della sanità, la riforma delle pensioni e con il controllo dei prezzi dei servizi pubblici, lo Stato continuerà sicuramente a intervenire al fine di garantire i diritti.
Petro è stato diretto al Forum di Davos, dicendo che se questo capitalismo non è in grado di affrontare la crisi climatica, o l’umanità si estinguerà con il capitalismo o lo supererà per poter sopravvivere sul pianeta. Contemporaneamente ha proposto una pianificazione pubblica, multilaterale, democratica e globale. So che la domanda non ha una risposta facile, ma potrebbe indicare alcune linee guida generali su come iniziare ad attuare questa proposta?
Dunque, non è materia di mia competenza e potrei mettere in imbarazzo i ministri che lavorano in questo governo. Non solo per quanto riguarda la pianificazione della reindustrializzazione, ma anche per la situazione attuale dell’industrializzazione in Colombia, che richiede un’azione climatica e una transizione energetica. Quello che potrei dire è che ci sono chiaramente due sfide nel paese; Il primo è raggiungere l’agrarizzazione e l’industrializzazione e, di rimando, per raggiungere questo obiettivo si richiede all’approvvigionamento energetico la trasformazione verso l’energia pulita, che si basi fondamentalmente sul vantaggio geografico di cui dispone il paese di poter ricevere la radiazione solare in proporzione maggiore rispetto ad altri paesi. Pertanto, dovrebbe esserci un forte investimento da parte dello Stato, in alleanza con investimenti privati, per cambiare la matrice energetica a partire dalla domanda, soprattutto dei mezzi di trasporto che oggi in Colombia dipendono molto dai combustibili fossili, sia nelle città che nel trasporto merci. Anche la strategia delle reti ferroviarie e i cambiamenti nella mobilità nelle città è una priorità per poter avviare una transizione. Avendo bene in mente che in quattro anni di governo non si potrà far altro che gettare le prime basi, perché deve essere una politica pubblica di lungo periodo.
A proposito della questione dei nuovi paradigmi, il governo colombiano nutre qualche speranza che un eventuale esito favorevole alla Russia nella guerra in Ucraina possa giovare ai Paesi dell’America Latina?
No, personalmente non ce l’ho. Non mi è nemmeno passato per la testa. Guardiamo questo conflitto come guardiamo i diversi conflitti armati; con disperazione, perché crediamo sempre nel dialogo come strumento per la risoluzione dei conflitti, perché quando le armi si affrontano, quando sono l’unica espressione valida, a perdere sono i popoli. In questo caso, il popolo russo, il popolo ucraino e tutti gli altri popoli coinvolti nel fuoco incrociato. Noi, che abbiamo vissuto una storia di guerra, possiamo affermare con tutta autorevolezza che questa non sarà mai la via d’uscita e che non può esserci speranza verso il vincitore di una guerra. Perché in una guerra non ci sono mai vincitori, è sempre il popolo a perdere. Di fronte a una scelta bellica, la nostra unica speranza è la pace e la risoluzione negoziata di qualsiasi conflitto.
Intervist esclusiva per El Salto Diario. Traduzione a cura di Michele Fazioli per DinamoPress
Tutte le foto a cura di Casa Fractal Cali, agosto 2022