Alessandro Somma 

Il lavoro povero costituisce un fenomeno in crescita costante, la cui diffusione appare inarrestabile e pervasiva soprattutto in Italia: l’unico tra i membri dell’Ocse, l’organizzazione che comprende 38 Paesi cosiddetti sviluppati con economia di mercato, nel quale i salari registrano una diminuzione nel periodo compreso tra il 1990 e il 2020. Qui il lavoro povero calcolato su base annua interessa oramai un lavoratore su tre, con una incidenza particolarmente accentuata presso le donne, i giovani e i residenti al Sud[1].

La povertà non affligge però il solo lavoro flessibile e precario. La ritroviamo anche nei tradizionali rapporti subordinati a tempo indeterminato, in particolare laddove questi sono relativi a mansioni per cui si richiede una bassa professionalità o sono svolte in settori cosiddetti poveri: ad esempio nella ristorazione o nelle pulizie[2]. Lo riscontriamo poi nel lavoro a tempo parziale e nel lavoro autonomo economicamente dipendente, soprattutto se involontario, oltre che nel piccolo commercio e in agricoltura[3].

Con riferimento al lavoro subordinato, il tentativo di combattere il lavoro povero ha ispirato la richiesta di stabilire un reddito minimo legale, ovvero di indicare per legge il livello salariale sotto il quale non è consentito scendere. Non è di per sé una proposta errata, almeno se pensiamo alla debolezza attuale del mondo sindacale e ai molti cedimenti sul fronte del diritto del lavoro. E tuttavia il rimedio rischia di essere peggiore del male, se il minimo legale non si accompagna ad alcune misure di contorno indispensabili a non renderlo un espediente attraverso cui affossare definitivamente il sindacato.

Prove tecniche di reddito minimo legale

In questa direzione si sono finora mossi molti Paesi europei, ma non anche l’Italia, dove peraltro una prima timida indicazione in tal senso è stata fornita da una legge delega riconducibile al Jobs act. Lì si è prevista l’«introduzione eventualmente anche in via sperimentale del compenso orario minimo», tuttavia solamente nei «settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale» (legge 10 dicembre 2014, n. 183).

Una simile previsione non ha peraltro avuto seguito: l’esecutivo di allora non ha dato attuazione alla delega e non ha comunque manifestato l’intenzione di farlo. E non possono ritenersi provvedimenti volti a definire minimi retributivi quelli relativi a settori scarsamente sindacalizzati, per i quali il legislatore si è limitato a rinviare a quanto stabilito per settori affini in sede di contrattazione collettiva: ad esempio in materia di lavoro dei soci di cooperativa (legge 3 aprile 2001, n. 142), di lavoro distaccato (decreto legislativo 17 luglio 2016, n. 136), e di lavoro di consegna beni (legge 2 novembre 2019, n. 128).

Tanto meno si è nel frattempo pensato di estendere la delega ai settori interessati dalla contrattazione collettiva, ovvero dal meccanismo privilegiato dalla Costituzione per la complessiva disciplina della relazione di lavoro, a partire evidentemente dai livelli retributivi. Anche se un simile meccanismo comprende caratteristiche fondamentali rimaste sulla carta, ovvero non corrisponde a quanto prefigurato dai costituenti: i contratti collettivi non sono stipulati da parte dei sindacati «rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti» e la loro efficacia non è «obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce» (art. 39)[4].

Un minimo legale che tutela la funzione del sindacato

Questa situazione non stupisce. Un intervento legislativo organico in materia di minimi retributivi si scontra invero con la tradizionale contrarietà del sindacato, il quale teme possa derivarne una sua emarginazione dalle dinamiche relative al mercato del lavoro. Se cioè il legislatore indicasse il minimo salariale, questa è la tesi, i datori di lavoro sarebbe incentivati a rifuggire dalla contrattazione collettiva per limitarsi ad applicare quanto richiesto dalle norme imperative, senza tuttavia concedere nulla di più. Con il risultato che i sindacati, privati della funzione di negoziare l’entità del salario, finirebbero per apparire inutili agli occhi dei lavoratori, e dunque per perdere iscritti e in ultima analisi la loro rappresentatività. Questo almeno fino a quando non si disporrà l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi[5], che dunque prevarrebbero sui minimi salariali nel caso in cui definissero livelli retributivi più elevati, e presidierebbero così il ruolo centrale della negoziazione. Il tutto accompagnato magari dalla fissazione di criteri per misurare e far valere la rappresentatività dei sindacati che prendono parte alla contrattazione collettiva, per contrastare così il fenomeno in crescita dei contratti pirata di cui diremo fra un momento.

Si possono poi immaginare soluzioni con cui tenere insieme la centralità del sindacato e dell’autonomia collettiva da un alto e l’intervento del legislatore nella definizione dei livelli salariali dall’altro. Si può cioè pensare a una «relazione tra legge e contratto», ovvero alla definizione di minimi salariali attraverso contratti collettivi di lavoro poi recepiti dal legislatore. In tal modo «la contrattazione rimane autorità salariale», potendo nel contempo «trarre forza da una normativa di sostegno»[6]. Similmente, se del caso come primo intervento, si può ipotizzare una legge che prenda in considerazione i contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi, ovvero che rinvii a questi ultimi per determinare i minimi salariali, inibendo nel contempo la corresponsione ai lavoratori di salari di livello inferiore[7].

Minimo legale e retribuzione dignitosa

Detto questo, occorre segnalare che in un certo senso l’Italia conosce un meccanismo per molti aspetti sostitutivo del reddito minimo legale, o quantomeno destinato a produrre effetti assimilabili. Esso fa leva sulla disposizione costituzionale relativa alla buona occupazione, e particolare a quella relativa alla garanzia di una retribuzione sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa (art. 36).

I costituenti non vollero includere in quella disposizione un riferimento al «salario minimo», per poi affidare al legislatore la sua quantificazione: soluzione che per il comunista Aladino Bibolotti avrebbe rappresentato «la garanzia dell’eliminazione nel campo del lavoro del pauperismo», tale in quanto essa non veniva «lasciata all’arbitrio dell’assuntore d’opera» (AC Ad. plen. 10 maggio 1947, p. 3203). Ciò nonostante una giurisprudenza consolidata reputa che la formulazione prevalsa alla Costituente sia sufficiente a fondare direttamente in capo al lavoratore «un diritto subiettivo perfetto» (Corte cost. 4 maggio 1960, n. 30), e che la retribuzione idonea ad assicurare una vita libera e dignitosa coincida con «quella fissata dalle parti sociali contrapposte nella contrattazione collettiva» (Cass. civ. sez. lavoro 17 gennaio 2011, n. 896).

Contratti pirata e autosufficienza sindacale

Un simile meccanismo si presta però ad abusi ai danni del lavoro, se non altro perché il sistema dei contratti collettivi nazionali costituisce oramai un insieme oltremodo frammentato di accordi non di rado conclusi con intento elusivo. Se questi nel 2005 erano circa 300, il loro numero è infatti lievitato sino a superare gli 850 nel 2020: un dato che si reputa alla base dell’incremento del lavoro povero, e altresì della tendenza a ignorare i minimi tabellari concordati dalle parti sociali[8].

Il tutto mentre si diffondono i cosiddetti contratti pirata, conclusi cioè da sindacati minoritari e non rappresentativi, magari collusi con la controparte datoriale[9], che solo in pochi casi sono dichiarati illegittimi a causa della retribuzione non «sufficiente per garantire al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa» (Trib. Milano sez. lavoro 22 marzo 2022, n. 673). E mentre anche gli accordi conclusi dai sindacati consolidati risentono di questa prassi, dal momento che finiscono talvolta per entrare in competizione con i sindacati disponibili a sottoscrivere accordi pirata, dando vita così a quanto si potrebbe definire in termini di «dumping contrattuale»[10].

Insomma, la contrattazione collettiva può produrre risultati soddisfacenti dal punto di vista del lavoro, tuttavia solo se inserita in un contesto nel quale il conflitto redistributivo può svilupparsi in modo equilibrato: solo a condizione che lo Stato si adoperi per bilanciare la debolezza sociale del lavoro con la forza giuridica necessaria a realizzare il principio di parità sostanziale. In caso contrario la «privatizzazione» dei minimi salariali si traduce in un incentivo all’edificazione di un complesso sistema di «minimi sufficienti», tanto più regressivo quanto più si manifesta la diminuzione della forza contrattuale dei sindacati: fenomeno notoriamente radicato e in crescita, tanto da non lasciare intravedere una possibile inversione di tendenza[11].

Se così stanno le cose, un intervento del legislatore in materia di minimi retributivi appare non più differibile. Certo, si corre il rischio che la fissazione per legge di un minimo reddituale sia utilizzato in chiave regressiva, ovvero per spoliticizzare il mercato del lavoro: per consentire alla parte datoriale di appiattire su quel minimo le dinamiche salariali, e magari di ottenere nel contempo finanziamenti diretti o indiretti destinati a retribuire il suo assenso all’introduzione della misura[12]. E tuttavia non vi sono più le condizioni per richiamarsi all’autosufficienza sindacale, oramai ridotta a feticcio in una realtà nella quale il lavoro si trova in balia di «rapporti di forza squilibrati» e «varianti mercantilistiche incontrollabili»[13].

I minimi salariali in parlamento

Detto questo, negli ultimi anni si sono dedicati alla previsione legislativa di minimi salariali due disegni di legge: uno su iniziativa del Partito democratico (disegno di legge 310/2018) e uno del Movimento cinque stelle (disegno di legge 658/2018). Mentre una direttiva europea si è da ultimo occupata di «salari minimi adeguati», con l’intento di affrontare le difficoltà legate alla pandemia: «nei periodi di contrazioni economiche, il ruolo di salari minimi adeguati nella protezione dei lavoratori a basso salario è particolarmente importante, dato che tali lavoratori sono più vulnerabili alle conseguenze di tali periodi» (direttiva 2022/2041/Ue del 19 ottobre 2022). L’articolato fornisce peraltro indicazioni relative all’individuazione del reddito minimo legale nei soli Paesi in cui questo viene disciplinato dalla legge, limitandosi per il resto a disporre circa le modalità di coinvolgimento delle parti sociali nella determinazione dei livelli salariali. Fornisce pertanto un contributo decisamente limitato allo sviluppo della materia in un senso favorevole al lavoro, il che peraltro non stupisce affatto.

Non sembra peraltro che nel prossimo futuro l’Italia possa dotarsi di una disciplina sul reddito minimo legale, esplicitamente esclusa dall’attuale maggioranza. Le motivazioni addotte nel merito, pur ricalcando alcune preoccupazioni di parte sindacale, rimandano soprattutto alla tradizionale ostilità dei neoliberali nei confronti della misura. Questi ultimi la reputano invero un catalizzatore degli effetti negativi comuni agli interventi volti a delimitate il raggio di azione del mercato, tutti inesorabilmente destinati a menomare la sua innata capacità di massimizzare profitti: in questo caso di incrementare la domanda di lavoro e con essa i livelli salariali accordati ai lavoratori. Il tutto da ovviare puntando sulla contrattazione collettiva, e in tale ambito sulle potenzialità offerte da quella di secondo livello:

Con la definizione per legge di un salario minimo si metterebbe a rischio il sistema della contrattazione collettiva, con il serio pericolo di favorire la tendenza alla diminuzione delle ore lavorate, l’aumento del lavoro nero, l’incremento della disoccupazione e l’aumento dei contratti di lavoro irregolare e dei contratti pirata… Piuttosto che intervenire sui salari si ritiene che la contrattazione collettiva andrebbe implementata puntando a quella di prossimità. Quest’ultima, in particolare, rappresenta uno strumento utile proprio per la propria flessibilità, in un mercato del lavoro oggi più che mai dinamico, dal momento che offre alle imprese la possibilità di adeguare alcuni istituti normativi e contrattuali, entro limiti prestabiliti, alle condizioni e alle specifiche esigenze delle diverse realtà aziendali[14].

Il carattere tutto ideologico di una simile affermazione emerge considerando i dati empirici. Questi mostrano invero come, nei Paesi in cui è stata attuata, il reddito minimo legale abbia portato a un aumento dei livelli occupazionali, oltre che ovviamente alla riduzione delle disuguaglianze e con ciò a un incremento della qualità della vita soprattutto per i lavoratori dei settori più impoveriti[15].


[1] Dati forniti dal Forum diseguaglianze e riferiti a novembre 2022: cfr. M. Bavaro (a cura di), I lavoratori e le lavoratrici a rischio di bassi salari in Italia, https://bit.ly/ForumDD_RapportoLavoroPovero.

[2] E. Villa, Il lavoro povero in Italia: problemi e prospettive, in «Questione giustizia», 40, 2021, 2, p. 3 ss.

[3] V. Papa, Working (&) poor. Dualizzazione del mercato e lavoro autonomo povero nell’Ue, in «Rivista del diritto della sicurezza sociale», 21, 2021, p. 49 ss.

[4] S. Bellomo, Retribuzione sufficiente e autonomia collettiva, Torino 2002.

[5] M. Tufo, I working poor in Italia, in «Rivista del diritto della sicurezza sociale», 20, 2020, p. 201.

[6] S. Ponzi, Reddito di cittadinanza e salario minimo: un punto di vista sindacale, in «Rivista del diritto della sicurezza sociale», 14, 2014, p. 90.

[7] Cfr. P. Pascucci, Giusta retribuzione e contratti di lavoro. Verso un salario minimo legale?, Milano 2018, p. 102 ss.

[8] M. Bavaro (a cura di), I lavoratori e le lavoratrici a rischio di bassi salari in Italia, cit., p. 14.

[9] Peruzzi, Viaggio nella terra di mezzo tra contratti leader e pirata, in «Lavoro e diritto», 34, 2020, p. 211 ss.

[10] G. Gentamore, Contratti collettivi o diritto del lavoro pirata?, in «Variazioni su temi di diritto del lavoro», 3, 2018, p. 851.

[11] V. Bavaro, Reddito di cittadinanza, salario minimo legale e diritto sindacale, in «Rivista del diritto della sicurezza sociale», 14, 2014, p. 175.

[12] M. Fana e S. Fana, Basta salari da fame!, Roma e Bari 2019, p. 141 s.

[13] C. Ponterio, Il lavoro per un’esistenza libera e dignitosa: art. 36 Cost. e salario minimo legale, in «Questione giustizia», 38, 2019, 4, p. 27.

[14] Mozione 1/00030 approvata dalla Camera dei deputati il 30 novembre 2022, in AC – Seduta del 30 novembre 2022 Allegato A ai resoconti, p. 38 ss.

[15] Ad es. M. Fana e S. Fana, Basta salari da fame!, cit., p. 115 ss

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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