Luca Masera

È di pochi giorni fa la notizia che la Corte d’assise di Novara ha condannato a dodici anni di reclusione per omicidio colposo l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, in relazione alla morte per patologie correlate all’amianto di quasi 150 lavoratori residenti a Casale Monferrato negli anni tra il 1975 e il 1986. Si tratta dell’ultima tappa, certamente non conclusiva, di una vicenda giudiziaria che si protrae con esiti alterni ormai da più di dieci anni. Proveremo in queste note, a tracciare una breve sintesi delle intricate vicende giudiziarie che hanno interessato le fabbriche della Eternit in Italia, prima di abbozzare qualche riflessione sui problemi di natura generale che tale vicenda mette in luce.

1.

Casale Monferrato è stata la sede del più grande impianto italiano di lavorazione dell’amianto, con moltissimi residenti impiegati alle dipendenze della fabbrica, e con gli scarti della lavorazione utilizzati per lavori edili o stradali nell’intera area della cittadina. A distanza di molti anni dalla definitiva chiusura dello stabilimento, avvenuta nel 1985, si verifica nella popolazione casalese un numero impressionante di patologie oncologiche (specialmente di mesoteliomi pleurici, patologia legata esclusivamente al contatto con l’amianto, e con un decorso infausto e rapidissimo). La Procura di Torino decide allora di avviare un procedimento per disastro doloso a carico dei due soggetti che si erano succeduti nella carica di amministratore delegato delle multinazionali proprietarie dello stabilimento: il banchiere belga Louis De Cartier (deceduto nel 2013, proprietario della Eternit negli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso) e il finanziere svizzero Stephan Schmidheiny (proprietario negli anni ‘70 e ‘80). In primo e secondo grado, i due imputati vengono condannati a pene pesantissime (16 anni di reclusione in primo grado nel 2012, addirittura aumentati a 18 dalla Corte d’appello nel 2013). La Cassazione nel 2015, tuttavia, ritiene errata la qualificazione giuridica dei fatti operata dalle sentenze di merito, e dichiara il reato estinto per prescrizione. La questione è complessa, ma proviamo a sintetizzarla in termini meno “giuridichesi” possibile. Secondo i giudici torinesi, anche se lo stabilimento aveva chiuso nel 1985, il reato di disastro doveva ancora ritenersi in fase di consumazione perché continuavano a svilupparsi nella popolazione esposta casi di patologie correlate alla diffusione in passato dell’amianto: con la conseguenza che la prescrizione del reato non aveva neppure iniziato a decorrere. Secondo la Cassazione, invece, le patologie derivanti dall’amianto sono una conseguenza del reato di disastro, ma non ne costituiscono un elemento costitutivo, e il reato ha cessato la sua fase di consumazione con la chiusura dell’impianto e la diffusione nell’ambiente della sostanza tossica, avvenute nel 1985: con la conseguenza che il reato era da ritenersi già prescritto prima ancora che iniziassero le indagini.
La Procura di Torino, preso atto della decisione della Cassazione, prova a sviluppare una diversa prospettazione giuridica, contestando a Schmidheiny i reati di omicidio doloso rispetto ai singoli soggetti che sono morti per patologie legate all’amianto: con tale contestazione, la prescrizione decorre dal momento di verificazione della morte, e almeno le morti meno risalenti risultano ancora perseguibili. La difesa pone il problema della violazione del principio del ne bis in idem, dal momento che vengono contestati i medesimi fatti materiali, di cui è soltanto modificata la qualificazione giuridica, al fine di aggirare la definitiva estinzione del reato per prescrizione pronunciata dalla Cassazione. La questione viene portata alla Corte costituzionale, che nel 2016 ritiene rispettato il principio del ne bis in idem, a condizione che vengano contestate la morte o le patologie relative a soggetti che non erano compresi nell’elenco di persone offese dal reato di disastro conclusosi in Cassazione.
In seguito a un intervento della Cassazione del 2018, la competenza per i processi per omicidio (colposo o doloso, a seconda della qualificazione operata dalle diverse Procure coinvolte) viene fissata nel luogo ove si sono verificate le esposizioni nocive (e dunque non solo Casale Monferrato, ma anche le diverse altre sedi degli stabilimenti Eternit in Italia, le cui vittime avevano fatto parte del processo per disastro celebrato a Torino). Attualmente sono in corso diversi processi, oltre a quello appena conclusosi a Novara (dove la condanna è stata per omicidio colposo, ma il rinvio a giudizio di fronte alla Corte d’assise era stato per omicidio doloso). A Napoli, in relazione ad 8 vittime dello stabilimento di Bagnoli, Schmidheiny è stato condannato in primo grado a 3 anni e 6 mesi di reclusione; per la morte di un lavoratore dello stabilimento di Cavagnolo, è stato condannato in appello a Torino a 1 anno e 8 mesi; mentre è ancora in corso a Reggio Emilia il procedimento per le morti legate allo stabilimento di Rubiera.
Le vicende giudiziarie legate alla Eternit sono le più note, ma non sono certo le uniche in Italia relative alle morti di amianto. Negli ultimi trent’anni sono stati celebrati decine di procedimenti penali per omicidio colposo, e molti di essi sono ancora in corso. Se una prima stagione (dagli anni Novanta sino all’inizio di questo millennio) aveva visto la giurisprudenza della Cassazione orientata verso l’affermazione di responsabilità degli imputati, la direzione intrapresa dalla giurisprudenza più recente va nel senso di non ritenere sufficiente la prova epidemiologica che l’amianto ha natura oncogena per ritenere accertato il nesso di causalità rispetto alle singole forme patologiche e alle singole morti. Oggi il panorama è quindi quello di una giurisprudenza ondivaga, che in alcuni casi (sempre meno frequenti, specie nella giurisprudenza della sezione della Cassazione che abitualmente si occupa di questo tipo di reati) ritiene possibile accertare il nesso causale e la responsabilità degli imputati, in altri (sempre più frequenti) giunge ad esiti assolutori.

2.

A un primo sguardo, la valutazione complessiva del ricorso al diritto penale per tutelare le vittime dell’amianto non può che apparire negativa. Dopo trent’anni di processi, ancora la giurisprudenza non è arrivata a un punto di vista condiviso rispetto alla possibilità di attribuire causalmente in sede penale le morti e le patologie asbesto-correlate alla responsabilità personale dei dirigenti dell’epoca. A fronte di un numero ingentissimo di inchieste e procedimenti penali avviati, le condanne definitive sono una quota assai modesta, prevalendo senz’altro le assoluzioni o le dichiarazioni di estinzione del reato per prescrizione. Anche quando infine una condanna a pena detentiva viene pronunciata, essa è di entità molto contenuta, al punto da essere speso beneficiaria della sospensione condizionale; e in ogni caso, gli imputati (che erano dirigenti 40-50 fa) sono quasi sempre persone molto anziane, per le quali l’applicazione di una effettiva sanzione privativa della libertà è esclusa dalla normativa vigente.
Ha senso allora – a distanza di 40 anni dalla cessazione delle attività produttive, e a più di 30 dalla messa al bando legislativa dell’amianto – continuare a fare processi penali a ex-dirigenti in pensione da decenni, impegnando le non trascurabili risorse di tempo e di competenze che tali processi richiedono per la parte pubblica, quando l’esito in senso favorevole all’accusa non è elevato, specie davanti alla Cassazione, ed è assai concreta la prospettiva del decorso della prescrizione rispetto alle morti meno recenti?
Per dare un senso complessivo alla giurisprudenza penale italiana in tema di amianto, bisogna anzitutto constatare come essa rappresenti un esempio unico di ricorso massiccio alla repressione penale a tutela delle vittime dell’amianto. Sino agli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, l’amianto era utilizzato in modo massiccio in tutti i Paesi del mondo, e fuori dal nostro continente non sono rari ancora oggi i casi di legislazioni che consentono il suo utilizzo. E tuttavia, a quanto risulta, non vi sono altri Paesi che hanno visto un così gran numero di procedimenti penali a carico di soggetti posti in posizione apicale delle società che utilizzavano l’amianto come in Italia. Il processo Eternit celebrato a Torino è stato analizzato e commentato come case study sulle maggiori riviste giuridiche di ogni parte del mondo, così come la vicenda ha avuto risalto su tutti i media internazionali.
L’operazione che in questi trent’anni la nostra magistratura penale ha sviluppato intorno all’amianto ha in effetti un carattere molto peculiare. I nostri giudici hanno provato a chiamare personalmente a rispondere in sede penale coloro che gestivano un sistema produttivo lecito e remunerativo, che muoveva enormi interessi economici; e chiamati in causa non sono stati solo i livelli medio-alti della dirigenza (come i direttori dello stabilimento o gli amministratori delegati delle società controllate) ma, nel caso Eternit, addirittura il CEO della multinazionale che deteneva il controllo della società italiana titolare dello stabilimento.
All’estero, questa operazione non è mai stata tentata. Il problema delle vittime dell’esposizione ad amianto è stato affrontato, in Europa come oltreoceano, mediante interventi normativi di tutela assistenziale e previdenziale delle vittime, o al massimo con cause civili di risarcimento del danno. In Paesi ove la magistratura inquirente dipende in qualche modo dall’esecutivo o, come negli USA, necessita di molto denaro per le campagne elettorali per la carica di procuratore, non è stato neanche ritenuto pensabile mettere sotto processo penale gli imprenditori che hanno gestito il business dell’amianto. Si trattava di una produzione lecita, consentita dalla normativa vigente, e le malattie che si sono sviluppate tra la popolazione sono difficili da ricondurre beyond any reasonable doubt proprio all’esposizione lavorativa o ambientale. Sulla base fondamentalmente di questi due argomenti, le vittime dell’amianto fuori dall’Italia sono state escluse dalla tutela penale del loro diritto alla vita ed alla salute.
La nostra magistratura ha provato a valutare se, nel rispetto dei principi di uno Stato di diritto, fosse possibile accertare responsabilità penali individuali rispetto alle vittime di un modello produttivo all’epoca quanto mai diffuso: delle vittime di sistema, richiamando la terminologia di Ferrajoli sui crimini di sistema.

3.

Rispetto a entrambe le questioni cruciali in questo genere di processi, diverse sentenze hanno mostrato che si può argomentare in modo convincente nel senso della responsabilità penale.
Quanto all’argomento della liceità del modello produttivo all’epoca dell’esposizione, in tutti i casi oggetto di attenzione da parte della nostra magistratura erano state riscontrate dall’accusa violazioni della normativa vigente in materia di esposizione a sostanze pericolose. Sicché è vero che la produzione e l’uso dell’amianto sono stati vietati solo nel 1992, ma specie in passato, sino agli anni Settanta, le modalità di gestione della dispersione delle fibre d’amianto erano assai sovente contrarie alla normativa vigente. Non va poi trascurata la circostanza, emersa in molti processi, che la comunità dei produttori di amianto si era impegnata per anni nel cercare di nasconderne gli effetti dannosi, provando a screditare i primi studi epidemiologici che riscontravano l’elevato aumento di patologie oncologiche tra gli esposti e ostacolando e ritardando l’approvazione del bando legislativo dell’amianto. Ma se i produttori ben conoscevano la pericolosità dell’amianto, e hanno fatto di tutto per nasconderla, è iniquo che poi possano invocare il rispetto di quella stessa normativa all’epoca vigente, che essi ben sapevano inadeguata a tutelare la salute degli esposti.
Il problema più difficile, ma anche più interessante, è quello di imputare in sede penale la causazione di malattie di cui non sono scientificamente accertabili con sicurezza il momento e le modalità di insorgenza (come in sostanza tutte le patologie tumorali), anche se è assolutamente certo in termini epidemiologici che quella sostanza ha cagionato un sensibile aumento di patologie tra gli esposti, e che quindi decine o centinaia di persone in carne ed ossa si sono ammalate e sono morte in ragione dell’esposizione. È il problema centrale intorno a cui ancora oggi si decidono i processi in materia di amianto. I dati epidemiologici circa la correlazione tra una sostanza e una certa patologia bastano per imputare alla sostanza la singola forma oncologica che si è sviluppata tra gli esposti? Si può condannare per omicidio colposo pur risultando impossibile provare l’esatto iter di sviluppo della patologia oncologica, sulla base del legame epidemiologico tra la patologia stessa e la sostanza?
Di fronte a questo interrogativo le categorie classiche del diritto penale si sono trovate in difficoltà. Il diritto penale conosce i reati di danno, come l’omicidio o le lesioni, che puniscono la causazione di eventi lesivi della vita o dell’integrità fisica di singoli soggetti univocamente individuati; ed i reati di pericolo, come il disastro contestato a Torino, che puniscono l’avere esposto a pericolo l’incolumità e la salute pubblica. L’epidemiologia fornisce al giurista un dato nuovo da un punto di vista epistemologico, il dato del danno alla popolazione. Non un danno provato oltre ogni ragionevole dubbio rispetto al singolo caso patologico; ma neppure solo un pericolo per la salute pubblica. I processi che si sono celebrati e tuttora sono in corso ruotano intorno a questo interrogativo. Come rileva il danno alla popolazione in sede penale? Configura solo reati di pericolo contro l’incolumità pubblica, come il disastro (che tuttavia, secondo l’orientamento della Cassazione nel caso Eternit, sono da ritenersi prescritti, considerato il tempo decorso dalla chiusura degli impianti)? O è possibile condannare per i reati di omicidio o lesioni quando è certo da un punto di vista epidemiologico che la sostanza ha una forte correlazione statistica rispetto alla malattia? Chi scrive, insieme ormai a diversi altri autori, sostiene da tempo la tesi per cui la certezza epidemiologica che un’esposizione ha cagionato un certo numero di morti è sufficiente per l’imputazione causale in sede penale a titolo di omicidio, anche se non è possibile individuare in modo certo le singole patologie addebitabili all’esposizione. La giurisprudenza sinora ha preferito provare la strada tradizionale della prova della causalità individuale, cercando (nelle decisioni di condanna) di superare in modo induttivo il problema della natura epidemiologica degli studi a disposizione, ma così operando una oggettiva forzatura della nozione tradizionale di causa, che è stata in più occasioni censurata dalla Corte di Cassazione. Le motivazioni della sentenza di Novara, insieme agli altri procedimenti in corso, diranno come si vorrà attestare la giurisprudenza rispetto a questo tema cruciale, di cui forse non è stata davvero compresa sino in fondo la natura.

4.

Provando ora a tirare le fila di questa ricostruzione, la giurisprudenza penale in tema di amianto rappresenta la dimostrazione che non è impossibile in uno Stato di diritto perseguire coloro che hanno tratto profitto da una produzione industriale lecita, ma che essi sapevano assai pericolosa per la salute, così cagionando la morte di centinaia di persone tenute all’oscuro dei rischi che correvano. Quelli che altrove sono stati considerati “crimini di sistema”, non addebitabili in sede penale alla responsabilità di singoli individui, in Italia sono stati affrontati come crimini in senso stretto, cioè come crimini per cui è possibile celebrare un processo penale. Le difficoltà, come visto, sono state molte e tutt’altro che banali da un punto di vista giuridico, e in molti casi sono state tali da condurre all’impossibilità di accertare dei responsabili. Ma diversi procedimenti si sono invece conclusi con sentenze definitive di condanna, che hanno argomentato in modo approfondito le ragioni della responsabilità penale. In un recente intervento su queste pagine Livio Pepino ha parlato di garantismo, distinguendo il garantismo come rispetto della legalità e dei principi dello Stato di diritto, e il “garantismo selettivo” che serve in realtà a garantire l’impunità dei “galantuomini”; e legando il garantismo al rispetto del principio di uguaglianza nell’individuazione delle classi di soggetti verso cui indirizzare la risposta punitiva (https://volerelaluna.it/commenti/2023/06/26/il-pacchetto-nordio-e-la-giustizia-dopo-berlusconi/). La giurisprudenza penale in tema di amianto ha mostrato che, pur muovendosi in contesti “di frontiera” del diritto penale, ha senso ipotizzare forme di responsabilità individuale, quando delle precise scelte determinate da finalità di profitto hanno cagionato la morte di tante persone. I risultati potranno essere criticati, come lo sono da larga parte della nostra dottrina penalistica. Ma la scelta di non procedere neppure a verificare la responsabilità penale degli industriali dell’amianto non sarebbe stata altro che una forma di impunità che si garantiva agli autori di fatti gravissimi, solo perché difficili da inquadrare nelle tradizionali categorie del diritto penale. Per evitare insomma che la sanzione penale rappresenti solo uno strumento di repressione del disagio e della devianza, e venga in sostanza ritenuta estranea all’area del potere economico, credo che processi come quello di Novara o gli altri in materia di amianto si possano considerare importanti, ed è fondamentale che su di essi venga mantenuta alta l’attenzione dell’opinione pubblica.
Certo può essere facile argomentare sull’inutilità di processi celebrati dopo decenni dai fatti, a carico di soggetti anziani e ai quali in ogni caso non verrà applicata alcuna sanzione. Ma non bisogna dimenticare il ruolo fondamentale che per le vittime riveste, al di là del ristoro monetario, il riconoscimento che i danni da loro subiti non sono il frutto del caso, ma sono da addebitare a coloro che dal sistema generale di produzione hanno ottenuto denaro e potere. Se non vogliamo che il diritto penale, in nome di un frainteso garantismo, rinunci ad intervenire in contesti complessi, limitandosi a punire la criminalità di strada e garantendo impunità ai potenti, i processi penali in materia di amianto rappresentano un terreno di battaglia su cui vale ancora la pena essere presenti

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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