Baron Hotel ad Aleppo, una volta

Alla cantante Fairouz.

La città è la più antica del pianeta e non ha mai mutato nome, Ḥalab o Khalab. Comunque vari popoli l’hanno chiamata con nomi diversi. I sumeri, per un certo periodo l’hanno chiamata Arman, gli ittiti Halpa, gli assiri Khalpu, i greci Bépoia o Béppoia.
A volte, per lavoro, vado a Damasco e a Latakia e perfino a Dayr az Zawr, all’estremo est del paese, ai confini con l’Irak, la città dei Beduini, attraversata dal Eufrate. Vivo ad Aleppo, una città diversa dal resto della Siria e del mondo, non solo per l’età e per la storia. In molti suoi luoghi, età e storia si vedono. Viene chiamata la grigia, e la prima volta, arrivando da Damasco, dall’alto, mi è sembrata grigio chiara, meno il cuore della città antica, la Cittadella, grigio scuro. A dicembre una tempesta di neve la imbianca tutta, fiocchi bianchi e pesantI cadono rapidi dalle nuvole. La città è di un bianco eclatante, ma per poco, il vento, che ha sbattuto i fiocchi contro gli edifici e i passanti, porta via la neve in un paio d’ore.
La città è un miscuglio di popoli e religioni: arabi, armeni, beduini, mussulmani e cristiani.  Vi sono anche quattro di ragazze di Padova, che all’università hanno conosciuto e sposato siriani. Le conosco, perché nel caffè dell’albergo dove vivo vengono a bere birra, fumano sigarette e parlano in veneto. A volte bevono te o caffe e fumano narghilé in quattro. Una di loro, Anna Maria, mi parla del mitico Baron Hotel, il marito è un siriano armeno e conosce il padrone, un armeno. Con Anna Maria e il marito Alexandr una sera ceno al Baron Hotel. La conversazione va agli armeni di Aleppo e al genocidio di una sessantina d’anni prima. Nel maggio 1915 quando moltissimi armeni arrivarono deportati dalla Turchia ad Aleppo già c’era una  comunitità armena che cercò di aiutarli come potevano, anche il propietario del Baron Hotel, Armen Mazloumian. Ma non tutto filò liscio, coloro che erano stati deportati dalla Turchia erano malati e sfiniti dala fame e nei campi fuori città ne morirono un centinaio. Pochi nei confronti del milione e mezzo sterminati in Turchia. Da Aleppo, poi, con la scusa che potevano reinsediarsi a Dayr az Zawr, la maggior  parte fu fatta partire e  marciare per giorni e giorni nel deserto, senza cibo né acqua. I pochi che ce la fecero e non morirono lungo la strada furono abbandonati nel nulla, vicino a Dayr az Zawr, a 320 chilometri di distanza. I morti furono in tutto circa 200.000, ma non vi è una contabilità esatta. Alexander mi racconta che in alcune grotte, che si chiamano “degli armeni”, si trovano ancora pezzi di stoffa, oggetti e ossa. Alexandr le ha visitate con un gruppo di suoi studenti.                              L’atmosfera speciale, l’entrata, il bar con le poltrone in pelle e il ristorante mi colpiscono e il giorno dopo decido di trasferirmi dal Tourist Hotel dove alloggio al Baron Hotel. I due alberghi non sono lontani, sono in centro nello stesso quartiere, quello di Aziziyeh.  Vado a piedi e porto a mano la valigia. Il Baron Hotel inaugura così la mia collezione di alberghi storici dove ho abitato: il Continental Hotel a Sai Gon, il Saint George ad Algeri, il Cecil ad Alessandria e altri.                                     Serve a tavola un vecchio cameriere, Peter, che lavora all’hotel dall’inizio, dal lontano 1911. E’ la memoria storica del Baron Hotel e ogni tanto racconta degli episodi. Nel 1914 vi visse per del tempo il giovane, una ventina d’anni, Thomas Edward Lawrence. poi conosciuto come Lawrence d’Arabia. Thomas Edward Lawrence di 23 anni faceva parte di una missione archeologica britannica. Abitava la stanza 202 e se ne andò dimentcandosi di pagare qualcosa che aveva mangiato e bevuto al bar. Il conto è ancora conservato ed esposto. In quegli anni Agatha Chritie abitò più volte nella stanza 203 e sembra scrisse un romanzo. Re Feysal d’Arabia occupò la 215. Una sera molto tardi sono seduto su una sedia dell’unico tavolino sulla terrazza in pietra prima dell’entrata che si affaccia sulla strada, sotto il telone che protegge dal sole durante il giorno. Fa fresco e non vi è traffico. Pierre  porta del tè e dell’acqua che beviamo assieme, seduto mi racconta di Pier Paolo Pasolini che arrivò nel 1968 con la sua troupe, molte persone, valigie, bauli, apparecchiature cinematografiche,  per girare alcune scene del  Medea tra la Citadella e dei luoghi fuori la città. Furono pochi giorni, ma furono molto chiassosi, innanzitutto le mattine presto, le sere al ritorno e le notti, fino a tardi. Pierre non  ricorda la Callas, che magari non c’era, ed è dispiaciuto di non essere riuscito  a vedere il film. Prima di ritornare dentro l’albergo mi dice:  ” Nel Baron Hotel in quegli anni passavano persone che stavano facendo la storia. Ora non abbiamo più simili ospiti, ma libanesi”. Peter pronuncia la parola libanesi con poca simpatia.
Molte camere sono occupate da libanesi in fuga dal Libano, in piena guerra civile. Tutta Aleppo è invasa da libanesi che, che, però, non hanno niente a che vedere con gli invasori armeni di una sessantina di anni fa. Gli armeni erano disperati, poveri, affamati e diretti verso la morte. I libanesi stanno bene,sono ben vestiti, hanno soldi e aspettano il visto per andare in Francia, a Parigi. Faccio amicizia con due libanesi, un fratello e sorella, Karim e Ambre. Un nome arabo e uno francese. Sono figli di un arabo e di una francese. La bellezza di Ambre non è francese: occhi e capelli neri, pelle ambrata come il nome. Se usasse kohl per truccarsi gli occhi ed henné per tatuarsi mani e braccia potrebbe sembrare una beduina. Sono diretti a Parigi dove li aspettano i genitori, ma per qualche ragione,  trascorrono del tempo ad Aleppo. Non vogliono parlare del loro paese straziato dalla guerra civile. Dico  loro che ho dei contaneir bloccati nel porto di Beritut.  Recuperarli potrebbe essere l’occasione per visitare quella lunga stricia di terra tra le montagne e il mediterraneo.
” Se vai in Libano ora, rischi di non ritornare.” Mi dice Karim e non aggiunge altro.                                     Due sere dopo qualcuno bussa alla porta della mia camera. Apro è Ambre che entra senza salutare guardandomi negli occhi. Mi parla in italiano, che conosce abbastanza.
” Non sono qui per fare l’amore, Francesco.”
” Peccato”
“Ho sentito che devi andare a Beirut.”
” Prima o dopo devo andarci.”
” Voglio ritornare a Beirut. C’è un ragazzo che amo. E’ un miliziano dei Guardiani dei Cedri.Si farà amazzare. Voglio portarlo via.”
“A Beirut andrò quando la situazione si sarà calmata, ci sarà una tregua. Devo caricare quattro container in un camion e portarli a Damasco, ma è impossibile fino a quando c’è la guerra civile. Porto e frontiere sono chiuse. Sarà possibile solo quando l’esercito siriano farà tacere le armi.”
” Se  riesco a rimanere ad Aleppo e tu vai a Beirut voglio venire con te.”
Ambre non dice altro, come è venuta se ne va,
Ceniamo molte volte assieme, non solo al ristorante del Baron Hotel;  quando ho tempo libero, i venerdì o alcuni pomeriggi, visito con Karim e Ambre la città.  Aleppo è fatta da diverse città, da decine di pezzi di storia. Visitiamo moschee con i minareti, il quartiere armeno e quello siraco, i souk coperti, i parchi, il giardino zoologico e un mercato di cammelli. Ambre compra di tutto meno un cammello o una citroen degli anni trenta. Prendo con una leica un centinaio di foto in bianco e nero che mi stampa un fotografo che anche lui ha studiato a Padova.
 Karim ed io, un venerdì pomeriggio andiamo a un hamman, Ambre non viene, non è il giorno delle donne e poi il bagno turco non le interessa.
Una sera, sempre con Karim e senza Ambre, le donne non possono entrare, andiamo in un night dove una ballerina irakena fa una danza del ventre egiziana. La ballerina è brutta, la musica viene da un mangiacassette, i camerieri scortesi, le sedie in legno scomode, il wisky annacquato.
” Niente a che vedere con i nights di Beirut, Francesco.”
Dice Karim ed io non sono in grado di paragonare la Baghdad di Aleppo, il night, con Beirut.
Ambre e Karim mi informano che Fairouz verrà tra pochi giorni ad Aleppo e hanno comprato un biglietto anche per me. Fairouz è la cantante che piace a tutti i libanesi, dai militanti cristani del partito falangista di Pierre Gemayel a quelli del Partito Socialista Progressista  che raccoglie sunniti, sciti, drusi e palestinesi. E’ la Oum Kaltoum del Libano.
 Quella sera non c’ è la luna, forse l’ha uccisa il sole, dice Ambre che ama le frasi poetiche. Il cielo, però, è splendente di stelle e il teatro all’aperto della Cittadella è strapieno di libanesi. Ascoltano le canzoni in silenzio, ma gli applausi sono lunghi con grida in arabo. Distinguo la parola jamila,  e Fairouz è bella.                                Quando canta Li Beirut,  l’ emozione si fa densa e si può toccare con mano.
Ambre mi traduce sottovoce le parole nell’ italiano che conosce.

A Beirut                                                                            

Dal mio cuore saluto Beirut                                                    

 Il mare e le sue case                                                          

Le rocce, quali  viso di un vecchio marinaio.                         

  E’ l’anima del mio popolo                                                                                 Come il vino è                                                              

   Anice, pane e gelsomini                                                               

Il gusto del suo cibo                                             

 Trasformato in fuoco e fumo                                           

A Beirut…

Beirut, sei mia…mia…oh abbracciami

Beirut, you are mine… mine… oh embrace me

Ascolto la musica e le parole cantate da Fairouz e  sussurate in italiano da Ambre. Penso a quando vedrò il porto e la città di Beirut, che immagino dalla canzone.      

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

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