Gianmatteo Sabatino 

1. La posizione cinese sul cambiamento climatico

Come numerosi altri temi sensibili negli attuali, turbolenti anni dello sviluppo globale, anche quello del cambiamento climatico diviene, inevitabilmente, terreno di confronto tra approcci allo sviluppo ed ideologie politiche ed economiche differenti.

Con specifico riferimento alla Cina, la questione del qihou bianhua (appunto, il cambiamento climatico), è sinora riuscita in gran parte a sottrarsi, perlomeno a livello di dibattito, dall’agone politico internazionale, difendendosi dietro una prospettiva di neutralità e scientificità condivisa dalla stragrande maggioranza della comunità accademica internazionale. Tuttavia, la crescente polarizzazione del confronto geopolitico, l’ormai conclamata contrapposizione tra modelli e la rinnovata attenzione mediatica verso strategie (peraltro esistenti da tempo) di cooperazione multilaterale alternative a quelle a guida occidentale (come i paesi BRICS) sono tutti elementi che giustificano un minimo di sforzo chiarificatore. Uno sforzo che, peraltro, è chiaro in primo luogo al governo cinese, il quale, nel 2021, ha licenziato un Libro Bianco sulle politiche ed azioni in materia climatica[1]. È un documento che, ovviamente, va letto tenendo conto del suo scopo prettamente informativo e, se si vuole, propagandistico, ma che nondimeno offre importanti spunti su quale possa essere il ruolo della Cina nei prossimi decenni di lotta al cambiamento climatico.

In altri termini, vale la pena chiedersi quale sia oggi il modello cinese di contrasto al cambiamento climatico, in cosa differisca da altri modelli e quale valenza politica abbia sul piano tanto interno quanto delle relazioni internazionali. Sono tutti temi vastissimi, che qui possono essere richiamati solo sommariamente, ma su cui è opportuno riflettere criticamente.

2. Ambiente e ideologia

Un primo punto da tenere in considerazione è proprio l’attualità del dibattito sul cambiamento climatico in Cina. Di pari passo con lo sviluppo economico degli ultimi quattro decenni, il problema ambientale, declinato soprattutto nel senso di peggioramento della qualità dell’aria e degli ambienti di vita sociale, ha acquisito sempre più importanza non solo nelle prese di posizioni politiche, ma anche nell’opinione pubblica. I cinesi, tradizionalmente restii (e un po’ timorosi) a parlare, nelle conversazioni quotidiane, di temi politici, hanno trovato da ormai molti anni nel dibattito ambientale un punto di approdo comune.

La cattiva qualità dell’ambiente ecologico è divenuta, praticamente, un luogo comune, un presupposto assodato da chiunque s’interroghi in proposito. Sostanziale consapevolezza vi è quindi anche in merito alla relazione tra la suddetta cattiva qualità ed un processo degenerativo a livello globale, legato al surriscaldamento delle temperature terrestri. Quest’ultimo è forse un tema meno immediatamente fruibile nelle chiacchiere quotidiane, ma che è generalmente ben presente e ritenuto meritevole di attenzione dai cinesi[2].

È del tutto evidente, e naturale, che questa facilità di discussione si rifletta nel dibattito scientifico e accademico. Basterebbe una visita molto rapida e superficiale ad una qualsiasi banca dati scientifica cinese, utilizzando come parola chiave l’espressione qihou bianhua (气候变化) per rendersi conto di come, con sempre maggiore intensità negli ultimi anni, esperti di ogni settore indaghino le implicazioni del cambiamento climatico.

Per quanto riguarda le scienze sociali, sono soprattutto politologi ad affrontare la questione, nell’ottica, condivisa peraltro dall’opinione pubblica, che il cambiamento climatico sia, di fatto, un problema di pertinenza delle classi dirigenti globali, dei governi, delle politiche nazionali e sovranazionali, con un ruolo importante, ma assolutamente ancillare, giocato dai comportamenti dei singoli[3]. Questa percezione, come si vedrà a breve, ha dirette conseguenze sugli strumenti di gestione del cambiamento climatico.

Le politiche ambientali, non a sorpresa, sono da oltre un decennio considerate tra le priorità per il futuro sviluppo economico e sociale da parte del Partito Comunista Cinese. La Cina aderisce, come noto, all’Accordo di Parigi e condivide, perlomeno dalle dichiarazioni, i due obbiettivi temporali del raggiungimento del picco di emissioni di CO2 nel 2030 e del raggiungimento della neutralità carbonifera nel 2060. Si tratta di impegni confermati anche dal Libro bianco del 2021.

Dal punto di vista puramente interno, poi, l’ambiente è da anni al centro di una riorganizzazione ideologica. Come noto, fra le appendici del ringiovanimento della nazione cinese (minzu fuxing) propugnato da Xi Jinping vi è la costruzione della cosiddetta civiltà ecologica (shengtai wenming). In altri termini, la Cina, oltre che prospera, deve impegnarsi a divenire anche “bella” (meili), nel senso di raggiungere punti di equilibrio sostenibili fra le attività umane e la natura. L’aspirazione alla civiltà ecologica dovrebbe avere, almeno a livello di intenzioni, un risvolto socio-economico ed uno più culturale. Dal punto di vista economico si è di fronte a visioni dello sviluppo pienamente adattate alla c.d. nuova normalità di una crescita molto meno arrembante che in passato, e quindi concentrata soprattutto sulla qualità del progresso. Questo approccio si traduce anche nell’insegnamento di una nuova attitudine spirituale alla popolazione nei confronti delle problematiche ambientali. L’attenzione al rapporto con la natura, in contrapposizione ideale con la ricerca del profitto materiale, dovrebbe divenire un ulteriore segno distintivo della società cinese e un antidoto alle pulsioni individualistiche delle società occidentali.

L’attenzione all’aspetto culturale della transizione ecologica, peraltro, non necessariamente si traduce nell’attribuzione agli individui, in quanto tali, di specifiche responsabilità e doveri autonomamente attivabili e certe nei loro contenuti. Lo sforzo pedagogico e la ricerca di un nuovo spirito ecologico nazionale rimangono soprattutto appannaggio del Partito Comunista e delle strutture statuali, che rivendica il diritto, secondo i propri tempi e le proprie strategie, di condurre la popolazione tutta anche lungo la strada della civilizzazione sostenibile.

3. Autodeterminazione delle politiche ecologiche

Su quest’ultimo passaggio si consuma una prima, rilevante scissione tra l’approccio cinese (ma non solo) alla transizione ecologica e quello propugnato da altri paesi, soprattutto quelli europei e nordamericani. La Cina considera la transizione ecologica un obbiettivo da raggiungere, ma allo stesso tempo la concepisce nei termini di un bilanciamento che deve essere effettuato tra le istanze di questa transizione e le esigenze dello sviluppo economico e sociale. Detto in altri termini, il perseguimento della transizione ecologica non può pregiudicare il progresso della qualità di vita materiale dei cittadini e l’accrescimento delle capacità industriali, strategiche, di sicurezza, ecc., della nazione.

La Cina, nei consessi internazionali, considera se stessa – sollevando peraltro controversie ed obiezioni – un paese in via di sviluppo e si fa quindi portatrice, al di là delle proprie specificità ideologiche, delle istanze di paesi il cui sistema industriale vede potenzialmente nella transizione ecologica un freno alle proprie aspettative di progresso.

Questa narrativa ha un’implicazione anzitutto storica: a detta di questa visione le colpe della crisi climatica, legate alla crescita di emissioni inquinanti a partire dalla rivoluzione industriale del XIX, sono da attribuire in massima parte ai paesi c.d. “sviluppati”, ovverosia ai paesi di quell’occidente che oggi si pone, quantomeno politicamente, all’avanguardia sui temi della transizione ecologica[4]. Da ciò si deduce che la semplice constatazione del fatto che oggi la Cina sia la maggiore responsabile delle emissioni inquinanti al mondo e che altri paesi (ad es. l’India) pure registrino elevatissime emissioni di gas serra, acquista sapore di ipocrisia. Si tratta infatti di stati che solo recentemente stanno conoscendo elevati livelli di sviluppo industriale e che scontano, storicamente, lo scotto di crescere in un periodo in cui la consapevolezza del problema climatico si è ormai consolidata. Chi si è sviluppato in altre epoche storica, insomma, ha potuto crescere e inquinare con meno patemi d’animo. È questa un’idea fatta propria dalla Cina ma che, a ben vedere, può ben adattarsi alla posizione di numerosissimi stati in via di sviluppo, specie in Asia e Africa, pure caratterizzati da crescente degrado ambientale a fronte di alti tassi di crescita economica.

Il passaggio successivo, dalla teoria alla pratica, è in effetti la rivendicazione del pieno diritto di autodeterminare la via, i metodi, il ritmo e l’intensità della transizione, pur nel generale rispetto degli obbiettivi internazionalmente posti[5]. Tale rivendicazione è stata interpretata da alcuni osservatori come la constatazione che fino a che la crescita sostenibile non sarà in grado di garantire i medesimi livelli di sviluppo materiale, di stabilità socio-economica e di sicurezza nazionale incorporati negli obbiettivi politici della Cina, tale modello di crescita non potrà rimpiazzare del tutto gli attuali connotati del sistema industriale, ovverosia la dipendenza dai combustibili fossili[6].

L’impressione è, a mio parere, solo parzialmente vera. Da un lato pare oggettivo che l’impegno a raggiungere il picco di emissioni nel 2030 non determina nè l’intensità di questo picco nè quanti anni i valori di questo picco permarranno stabili prima che inizi la discesa. Questi spazi di incertezza sono, appunto, rivendicati dalla Cina nell’ottica di un adattamento progressivo della transizione ecologica alle specifiche esigenze nazionali. Dall’altro lato, è importante osservare come sia il Libro bianco del 2021 sia i discorsi della leadership cinese non si limitino a celebrare i risultati già raggiunti dal paese in termini di ammodernamento industriale e miglioramento della qualità ambientali, ma enfatizzino la necessità, sempre pressante, di insistere sulla pianificazione coordinata della transizione ecologica, sull’importanza del rispetto degli obbiettivi di politica ambientale anche ai fini della valutazione dell’operato dei dirigenti amministrativi e dei funzionari di partito, sull’urgenza di uno sforzo complessivo e comune di tutte le forze produttive cinesi[7].

Per un verso, quindi, la Cina pare consapevole di non aver fatto e non star facendo ancora abbastanza. Per un altro verso, ritiene che il giudizio sulla sufficienza o insufficienza dei propri sforzi possa provenire esclusivamente dall’interno, ossia dalla sua stessa guida politica.

Al tempo stesso, quella che afferma la Cina è una visione, se si vuole, olistica del problema climatico, nel senso che gli obbiettivi politici derivanti da esso devono essere oggetto di sintesi e definizione sempre e comunque in rapporto ad altre priorità, che in certe specifiche situazioni possono prendere il sopravvento. Esempio lampante di quanto appena detto si è visto durante i tre anni di restrizioni sanitarie, allorché la valutazione dell’operato dei funzionari è stata strettamente connessa al successo delle misure di contenimento dei contagi, con conseguente proliferazione di tamponi e altre apparecchiature e, quindi, produzione di un enorme massa di rifiuti.

4. Panoramica degli strumenti di politica ambientale

L’insieme degli strumenti di politica ambientali messi a punto nel tempo dai decisori cinesi è, ovviamente, vastissimo e non può essere in alcun modo descritto in poche righe. È però possible menzionare quantomeno alcune tendenze di fondo.

Anzitutto, la principale direttrice dell’azione ambientale cinese è quella programmatica, ossia quella legata all’implementazione ed applicazione dei piani di sviluppo, nazionali e locali e delle relative politiche di allocazione delle risorse finanziarie. Nella prassi, ciò vuol dire sia rilevanza delle politiche ambientali per la valutazione dell’operatore dei funzionari sia utilizzo, ampio ed estensivo, di sussidi, incentivi fiscali, fondi speciali, finanziamenti agevolati, ecc. Nei confronti di imprese, operatori economici pubblici e privati, progetti che siano funzionali alla transizione ecologica. D’altra parte, la crescente importanza degli obbiettivi ambientali è una delle più importanti caratteristiche dell’evoluzione della pianificazione economica cinese negli ultimi venti anni. Oggi, mentre gli indicatori relativi agli obbiettivi di politica economica sono non vincolanti, quelli di politica ambientale sì, con tutte le conseguenze che ne derivano in punto di responsabilità politica dei funzionari. L’attuale piano quinquennale nazionale (il quattordicesimo) prevede cinque obbiettivi di politica ambientale, tutti vincolanti, riguardanti la riduzione del consumo di energia, la riduzione di emissioni di CO2, la proporzione dei giorni di aria pulita, l’estensione dei corpi acquatici con buona qualità delle acque di superficie, l’estensione delle superfici boschive.

Sono questi strumenti di politica economica collaudati in Cina, ma che non sono immuni da critiche. Di queste, almeno due vanno menzionate. In primo luogo, la dipendenza delle politiche ambientali da quelle di pianificazione implica grossi esborsi di denaro pubblico. Questi, in un paese come la Cina dove i governi locali già soffrono di elevatissimi livelli di debito, non paiono sostenibili sul lungo periodo. Inoltre, l’accesso a sussidi e crediti agevolati, da parte di imprese di stato nazionali o locali o di imprese private politicamente ben connesse, può comportare l’eventualità di fenomeni di corruzione mal tollerati dal governo centrale, anche nell’ottica di un sempre maggiore controllo del centro verso la periferia.

In secondo luogo, come è ovvio, gli obbiettivi di pianificazione sono soggetti a mutamenti, anche repentini, sulla base delle priorità politiche. Ancora una volta l’esempio della politica “Covid zero” è paradigmatico.

Nell’ottica di uno sforzo comprensivo di un gran numero di forze sociali, economiche e anche culturali, l’utilizzo dei soli strumenti di pianificazione sembra insufficiente. Per questo, pur senza rinunciare all’assoluta primazia dei piani nella gestione della transizione, il sistema giuridico cinese ha introdotto e sta introducendo altri strumenti, rivolti principalmente ai privati. Uno di essi è il noto “principio verde”, contenuto all’Art. 9 del codice civile cinese, secondo il quale le relazioni tra i soggetti privati devono apportare benefici alla conservazione delle risorse e alla tutela dell’ambiente. Si tratta di una classica disposizione generale, che di fatto non può fondare specifiche responsabilità individuali a carico dei cittadini, ma che è stata già utilizzata dai giudici come criterio per interpretare o specificare il significato di altre disposizioni di legge o regolamento, come ad esempio quelle che regolano l’alimentazione delle auto elettriche all’interno dei condomini[8].

Numerosi sforzi sono stati intrapresi anche sul fronte della promozione di forme di finanza privata “verde”, in particolare con l’istituzione di alcune specifiche zone a livello locale, ove gli operatori economici possono beneficiare di condizioni agevolate laddove decidano o di investire in progetti ecologicamente rilevanti oppure di emettere obbligazioni “verdi” e collocarle sul mercato[9]. In quest’ultimo, ad esempio, si incoraggiano i governo locali ad istituire fondi a garanzia di tali obbligazioni.

5. Il piano internazionale. La transizione ecologica e i paesi BRICS

Il Libro bianco del 2021 riflette anche la volontà della Cina di divenire un attore guida nel coordinamento dei processi di transizione ecologica. I punti cardine di questo coordinamento sono, come già accennato, quelli delle responsabilità comuni ma differenziate, in ragione delle rispettive capacità di ciascun paese. Quindi, una transizione ecologica a ritmi potenzialmente diversi per ciascun paese, con la conseguenza, implicita, di maggiori impegni a breve termine per i paesi più sviluppati e invece maggiori spazi di discrezionalità e di eccezione per i paesi in via di sviluppo.

Il substrato valoriale dell’impegno comune dovrebbe poggiare, nell’ottica cinese, sull’idea di comunità di destino condivisa per il genere umano (renlei mingyun gongtongti), altro cavallo di battaglia del pensiero di Xi Jinping.

Quanto appena richiamato trova diretta corrispondenza nelle statuizioni in materia di sviluppo espresse in occasione degli incontri dei paesi BRICS. Di particolare rilievo, soprattutto per i suoi risvolti pratici, appare la strategia di sviluppo della New Development Bank, la banca per lo sviluppo istituita e partecipata dai BRICS. Già nel 2016 la NDB aveva emesso un bond denominato in Yuan cinesi e sottoscritto da investitori cinesi ed internazionali per il finanziamento di progetti ecologicamente orientati[10]. Tanto la precedente Strategia Generale della NDB (2017-2021) quanto quella attuale (2022-2026) richiamano molto spesso il problema del cambiamento climatico e della transizione climatica, da porre in relazione con gli obbiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Così, la banca si impegna a dare priorità al finanziamento di progetti, dei singoli stati membri o in cooperazione tra loro, funzionali alla transizione ecologica e a mitigare gli effetti del cambiamento climatico oppure ad adattarsi ad esso. La strategia stima che non meno del quaranta per cento dei progetti finanziati nell’arco del quinquennio debbano ricadere entro queste categorie. Subito dopo, si specifica che la proporzione tra progetti destinati a contrastare gli effetti del cambiamento climatico e progetti destinati a rafforzare le capacità di adattarsi ad esso debba essere decisa sulla base delle preferenze individuali degli stati membri[11].

Si conferma, pertanto, l’aderenza alla linea della flessibilità e del bilanciamento tra esigenze di sviluppo economico ed esigenze di tutela ambientale, al punto che gli stati potrebbero ben decidere di investire non tanto sul contrasto al cambiamento climatico, quanto piuttosto sul progressivo adattamento dei loro sistemi socio-economici ad esso, ove ritenuto ineluttabile.

6. Osservazioni finali

Per chi coltiva uno specifico interesse nei confronti della Cina, l’approccio di quest’ultima al cambiamento climatico affascina in merito all’elaborazione ideologica più recente da parte del Partito Comunista Cinese in materia di politiche ambientali e di cultura dell’ambiente, così come di alcuni sforzi pedagogici supportati anche, come visto, da regole del codice civile.

Per tutti gli altri è invece importante rilevare come l’approccio cinese, sintetizzato dal Libro bianco del 2021, si faccia portatore di istanze non necessariamente nazionali, ma potenzialmente condivise da una larga fetta di paesi del mondo, di fatto in fase di industrializzazione e quindi sensibili alle esigenze, alle richieste e alle conseguenze tanto del cambiamento climatico quanto, però, della transizione ecologica. Si tratta, ovviamente, di una posizione che la Cina ha scelto con coscienza, consapevole dei punti di contatto specie con il c.d. sud del globo. Nondimeno, è una posizione che va vagliata con cura, in quanto mette a nudo un conflitto profondo tra le istanze di un mondo già sviluppato e di uno desideroso di acquisire, sul piano materiale ma anche, conseguentemente, su quello politico, una propria dignità storica ed economica.

Se analizzata isolatamente, la posizione cinese, al di là dei possibili problemi di implementazione, desta qualche perplessità. L’idea che la seconda potenza economica mondiale, con enormi possibilità tecnologiche e culturali, sia una nazione in via di sviluppo lascia quantomeno dubbiosi. La Cina, evidentemente, è un paese che ha raggiunto un grado di sviluppo materiale notevole, specie se rapportato ai numeri della sua popolazione, e che quindi tenta di combinare un proprio discorso interno di rinnovamento culturale e spirituale della nazione con la volontà esterna di proporsi come avanguardia di un mondo “altro” da quello dei paesi occidentali.

Questa complessa dinamica, al di là dei giudizi di valore, dà l’opportunità di vagliare meriti e criticità di posizioni più flessibili in materia di transizione ecologica, consapevoli anche dei possibili impatti che una transizione forzata potrebbe avere sul ritmo di sviluppo e di arricchimento materiale di vaste regioni del globo.

Da ultimo, su un piano prettamente strumentale, l’esperienza cinese può essere utile anche agli osservatori occidentali e, soprattutto, europei, proprio per osservare possibilità e limiti di un modello che valorizza anzitutto gli strumenti della pianificazione e dell’allocazione coordinata (politicamente) di risorse finanziarie, supportata da strumenti di incentivo selettivi alla finanza privata e da principi generali applicabili anche dai giudici. Da questo punto di vista, al di là delle inevitabili barriere politiche ed ideologiche, l’impatto tecnico di tali strumenti rappresenta un utile oggetto di osservazione.        


[1] 中国应对气候变化的政策与行动 (Le politiche e le azioni della Cina in risposta al cambiamento climatico), Libro Bianco dell’ottobre 2021, emanato dal Consiglio di Stato.

[2] J. Chung En-Liu, Public opinion on climate change in China—Evidence from two national surveys, in PLOS Clim 2(2), 2023.

[3] Ibid.

[4] Sez. IV Punto 1 del Libro bianco del 2021.

[5] Le parole sono dello stesso Xi Jinping, pronunciate alla Conferenza Nazionale sulla Protezione dell’Ambiente del 17-18 luglio 2023. Un riassunto completo del discorso è reperibile (in lingua cinese) al link https://www.gov.cn/yaowen/liebiao/202307/content_6892793.htm

[6] https://www.washingtonpost.com/climate-environment/2023/07/19/climate-change-heat-wave-china/ ; https://www.bloomberg.com/news/articles/2023-07-18/xi-says-china-to-decide-its-own-path-to-reduce-carbon-emissions#xj4y7vzkg

[7] Sezz. II e III del Libro bianco del 2021.

[8] Vedi, ad esempio, le seguenti decisioni: Corte del Popolo del distretto di Siming, Xiamen, Provincia del Fujian, decisione no. 17141 del 2021; Corte del Popolo di Kaiping, Provincia del Guangdong, decisione no. 5583 del 2021; Quinta Corte Intermedia del Popolo di Chongqing, decisione di appello no. 6940 del 2021; Terza Corte Intermedia del Popolo di Pechino, decisione di appello no. 14611 del 2021.

[9] Sez. II Punto 6 del Libro bianco del 2021.

[10] https://www.spglobal.com/marketintelligence/en/news-insights/blog/spotlight-on-sustainability-how-banks-can-overcome-the-challenges-of-achieving-net-zero-by-2050

[11] Sez. VI della Strategia.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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