La bidenizzazione di Meloni è la conferma che il totalitarismo liberista non consente alternative a sé stesso: cambiano i premier in Italia ma lo spazio di autonomia politica è pressocchè inesistente

Il totalitarismo liberista

Di Francesco Erspamer*

La bidenizzazione di Meloni è la conferma che il potere liberista non consente alternative a sé stesso: se (ancora) non ricorre sistematicamente alla violenza è perché non ne ha bisogno, gli bastano la corruzione finanziaria, il monopolio mediatico, le minacce (nella fattispecie le basi militari americane, per questo mantenute in Italia dopo la fine della Guerra Fredda e per questo oggi auspicate dai ricchi (o aspiranti tali) finlandesi e ucraini), nonché il consumismo compulsivo di prodotti ed emozioni, una specie di ricetta dell’eterna giovinezza promessa alla gente attraverso l’appiattimento sul nuovo, in quanto tale privo di durata, memoria e responsabilità.

Altro che comunismo, descritto dalla propaganda occidentale come un totalitarismo e che invece è caduto senza ricorrere a una guerra che avrebbe provocato immani stragi. Fateci caso: neanche un paese, uno solo, è mai riuscito a uscire dal capitalismo una volta che lo aveva accolto.

Non illudetevi: quando finalmente il capitalismo entrerà in crisi, prima di lasciare spazio ad altri progetti politici e sociali si difenderà a oltranza e con ogni mezzo (bombe atomiche incluse), anche al prezzo di distruggere il pianeta.

Del resto il motto degli americani era «better dead than red», meglio morti che rossi, e i rampanti italiani la pensano allo stesso modo. Come mai? Perché lo scopo del comunismo era il bene del popolo, a volte tradito ma mai rinnegato; mentre lo scopo del capitalismo, dichiaratamente, è il bene dell’individuo (mors tua vita mea, il dogma del libero mercato).

Per cui smettetela di lamentarvi e di agitare a sproposito il fantasma del fascismo, che fu totalitario e brutale ma non egemonico (e quando fu egemonico non ebbe bisogno di essere brutale). Meloni non è fascista: è peggio, è una liberista, esattamente come Draghi, Mattarella, Letta (e Bonaccini e Schlein), Salvini, Renzi, Berlusconi, Grillo e Di Maio, nonché i cespuglietti liberal e radicali.

Lo siete anche voi? E allora quale è il problema? Avete tante correnti (non sono partiti in quanto non ammettono l’esistenza di posizioni antitetiche) che fanno a gara per la medaglia del più liberista.

Se invece credete ancora nello Stato più che nei privati, nelle comunità più che negli individui, nella diversità dei popoli e delle culture piuttosto che nel brodo globalista, nelle tradizioni e nella transgenerazionalità invece che nell’innovazione fine a sé stessa, nei rapporti umani invece che in quelli virtuali, allora occorre che vi rimbocchiate le maniche, che ritroviate la volontà di lottare per i vostri ideali e impariate a farlo, se necessario sacrificando qualcosa.

Per vincere? No, in questa nostra epoca per «avere successo» in tempi brevi occorre adeguarsi a mode e tendenze, come ha fatto Meloni. Possiamo solo resistere per dimostrare quelle che una volta si sarebbero definite le nostre virtù e per affermare i nostri valori: senza altro scopo che tale virtù, che tali valori, che tale resistenza.

C’è uno splendido concetto introdotto da San Paolo che esprime questo proposito: il katéchon, la forza che frena l’avanzata dell’Anticristo e allontana la fine del mondo, anche se così si ritarda la venuta del regno di Dio.

Che significa? Che c’è un’alternativa sia a subire l’apocalisse sia ad adagiarsi in essa, ed è la sostituzione dell’egocentrismo con la fiducia nella collettività di cui si fa parte, in senso spaziale e temporale, inclusi dunque coloro che verranno dopo di noi: per cui non è nostro compito realizzare il bene (la nostra idea di bene) adesso, di colpo e a qualsiasi costo (il «vogliamo tutto» dei vincenti ma anche della sinistra che stava scoprendo l’edonismo consumista): dobbiamo soltanto dare il nostro modesto e umile contributo a un processo di lunga durata, al quale partecipiamo senza controllarlo.

In particolare, nell’attuale contingenza, si tratta di rallentare la diffusione del male e così guadagnare tempo: per farci trovare pronti (noi stessi o più probabilmente i nostri discendenti) alle crisi che verranno (e verranno, vengono sempre) e saperne allora approfittare invece di sprecare l’ennesima occasione.

Ecco, a chi mi chiede: che fare?, posso solo rispondere in questo modo: prepariamoci. Attraverso le azioni (l’esperienza tempra, forma) ma soprattutto attraverso lo studio, l’attenzione, la disciplina, l’organizzazione. Se invece avete fretta, meglio che vi accontentiate di un videogioco.

Ripreso da Francesco Erspamer, professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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