Dopo oltre trent’anni dalla fine del PCI e dopo quindici anni dalla nascita del PD, i riformisti di sinistra, gli ex sostenitori dell’alternanza tra centrosinistra e centrodestra, oppure della necessità delle riforme condivise per migliorare la via italiana al neoliberismo, si accorgono che forse, probabilmente, il sindacalismo tedesco, la politica stessa della repubblica federale che si avvia alla sperimentazione della settimana lavorativa su quattro giorni, su una sempre maggiore richiesta di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, non sono dei romantici utopisti, ma soggetti che guardano alla concretezza della crisi strutturale.

Dopo oltre trent’anni, i riformisti che archiviarono l’esperienza del più grande partito comunista occidentale arrivano a supporre, e quindi anche a sostenere, che è giunto il momento di valutare quella riduzione dell’orario di lavoro che noi comunisti abbiamo da sempre messo nelle piattaforme programmatiche presentate ad ogni tornata elettorale.

Non era la civetteria esibita di una ostinazione esclusiva, contro tutto e tutti. Era la consapevolezza che per poter lavorare meglio, lavorare (quasi) tutti e, pertanto, provare a fronteggiare le pretese liberiste, si doveva redistribuire il monte ore di ciascuno mantenendo intatto il potere di acquisto dei salari (e quindi delle pensioni).

Dopo trent’anni, dall’eredità sempre più irriconoscibile di quel PCI che divenne PDS prima, DS poi e infine ciò che non ne rimase terminò nel PD veltroniano, viene fuori la proposta – per convinta affermazione della segretaria Elly Schlein – di adottare anche in Italia la sperimentazione di una settimana lavorativa fatta di quattro giorni, redistribuendo le ore di lavoro, per applicare la formula del 100 – 80 – 100: il 100% di salario, l’80% di orario, il 100% di produttività. Pare che in Germania la media impresa accolga favorevolmente questa ipotesi. Meno la Confindustria, come è ovvio.

Encomiabile che da parte della dirigenza del PD cadano finalmente tutti (o quasi) i tabù nei confronti di una riforma del mondo del lavoro che, questa sì, vorrebbe dire avanzare verso un miglioramento tanto dello stile di vita delle persone, della qualità del loro tempo, del minore impatto anche eco-sociale su un ambiente in cui la produzione di merci incide davvero pesantemente.

Tuttavia andrebbe spiegato, da parte di Elly Schlein il punto contraddittorio tra la proposta di un salario minino a 9 euro l’ora, sganciato dall’aumento del costo della vita, in parte a carico del padronato e in parte a carico degli stessi lavoratori/cittadini…

Ridurre l’orario di lavoro a parità di un salario che si vorrebbe far pesare parzialmente anche sulla forza-lavoro medesima, è un cortocircuito che va spezzato; perché altrimenti viene da pensare che il riformismo italiano non abbia del tutto chiaro il funzionamento tanto della micro quanto della macroeconomia e, nell’insieme, dei rapporti che intercorrono tra capitale e lavoro oggi.

Se una proposta di estensione anche in Italia delle riforme tedesche a favore della classe lavoratrice, magari come proposta che può diventare europea, continentale e, quindi, iniziare ad unire il fronte dell’opposizione al liberismo sfrenato di questi decenni tanto al di là quanto al di qua dell’Atlantico, ha un senso propriamente detto e concretamente tale, può averlo se il salario è il vero costo della mano d’opera, la contropartita degli sforzi di chi lavora, di chi è, per meglio dire, sfruttato.

Il salario sociale (o minimo che dir si voglia) deve, quindi, essere pagato dagli imprenditori e non essere finanziato dalle casse pubbliche. La produzione, del resto, è privata, va ad arricchire l’economia nazionale con tassazioni che sono inadeguate rispetto agli ingenti profitti generati dallo sfruttamento del tempo di vita delle lavoratrici e dei lavoratori. Sia che si tratti di lavori intellettivi, sia che si tratti di manovalanza, il lavoro di oggi è ampiamente incastonato nella logica della precarietà e della mobilità insostenibile in una fase di crisi economica che è anche crisi socio-ambientale.

Per questo, va bene parlare di settimana corta, di riduzione dei tempi di ciascuno per un inserimento nel processo economico-sociale di una larga parte del crescente numero di disoccupati, di inoccupati e di senza lavoro un po’ da sempre. Ma il rischio peggiore, se la proposta rimane isolata dal contesto di un serio piano riformatore e progressista, che unisca le forze politiche a quelle sindacali, e queste al più vasto strato collaborativo di ogni settore industriale e produttivo, medio o grande che sia, è che il tutto passi per una boutade, per un controcanto all’azione di governo.

Sarebbe davvero urgente che il PD, i Cinquestelle, Sinistra italiana, i Verdi e Unione popolare si sedessero ad un tavolo comune per portare avanti una piattaforma unitaria che dia, tanto al mondo del lavoro, quanto a quello della scuola, del pensionamento, della precarietà e della disoccupazione, del disagio sociale diffuso, una risposta articolata e sintetica al tempo stesso che si fondi anzitutto proprio sulla riduzione dei tempi di impiego, su una differente concezione dell’esistenza oggi, nell’epoca in cui il capitalismo prova una seconda rivincita sulle masse che continua a sfruttare.

Non c’è nemmeno l’alibi della contesa elettorale propria della logica maggioritaria dell’alternativa tra i blocchi contrapposti. Ci sono le elezioni europee il prossimo anno, dove però ognuno va per sé, seppure nella cornice di un Europarlamento in cui i gruppi esistono e sono contraddistinti da concezioni, programmi e visioni dell’Unione Europea profondamente differenti. La lotta alle destre nazionaliste la si deve ricominciare a partire dalla proposta di risoluzione di una depressione sociale ed economica con una nuova formula di giustizia sociale vera e praticabile.

La riduzione dell’orario di lavoro a 32 ore settimanali a parità di salario, l’introduzione di un salario minimo sociale di 10 euro l’ora pagato interamente dagli imprenditori e legato all’aumento del costo della vita, quindi recuperandone il potere di acquisto relativamente all’indice inflazionistico, sono, insieme alla lotta contro la particolarizzazione delle ricchezze regionali e la divisione localistica delle povertà con il progetto di autonomia differenziata di Calderoli, il cardine di una lotta per la riemersione di una coscienza progressista diffusa.

Una consapevolezza quasi intrinseca, un ancestralismo che viene fuori dopo tanto, troppo tempo, e che può nascere e crescere fondandosi su valori che mettano insieme, vita, lavoro, ambiente, società, cultura. Sarebbe un vero lavoro di opposizione sociale ad un governo che sta facendo strame dei diritti fondamentali, di residui di uno stato-sociale ormai sempre più impropriamente detto, vista la sua scomparsa sotto l’attacco continuo di un po’ tutto le maggioranze di governo che si sono succedute negli ultimi decenni.

Una unità delle opposizioni intra ed extra parlamentari potrebbe anche dare adito ad una nuova interpretazione della democrazia in Italia. In un Paese che ha assoluto bisogno di fiducia e di un punto di riferimento che non sia solamente vincolato ad un elettoralismo peloso, avvitato su sé stesso, privo di qualunque forma di empatia tra delegante e delegato, tra attività e passività del ruolo della politica fuori e dentro le istituzioni.

La conciliazione delle differenze, che non dobbiamo, non possiamo e non vogliamo nascondere, in quanto sono un po’ il sale della discussione, della dialettica tra le forze politiche entro una cornice solidamente democratica (e di sinistra), non significa stabilire una alleanza politica fin da ora per scalzare le destre da Palazzo Chigi e ristabilire un po’ di giustizia sociale in questo Paese. E, anche se sarebbe auspicabile che ciò avvenisse, va data la massima priorità ad una condivisione larga su piattaforme di rivendicazione dei diritti sociali, oggi, nell’immediato, senza procrastinare ulteriormente i tempi.

Le alleanze politiche, se così sarà, verranno di conseguenza, con una sempre maggiore condivisione di percorsi, di visioni comuni e di interpretazioni necessariamente vicine di una serie di contingenze che andranno a considerare aspetti sempre più ampi della vita dei cittadini, dal lavoro alla scuola, dalla sanità alle infrastrutture, dalle pensioni al sostegno ai ceti più fragili e marginalizzati, dalle migrazioni alla grave questione ambientale ed eco-sostenibile che, proprio in questi frangenti, riguarda il mondo del lavoro a tutto spiano.

Non si tratta di rivendicare oggi primogeniture su proposte che, tuttavia, con trent’anni di anticipo rispetto all’odiernità, erano state messe sul tappeto per essere accolte da un centrosinistra che, come nella sua natura, guardava economicamente al centro (liberal-liberista) e civilmente a sinistra. Ciò che è stato fa parte di una politica del passato che è superata nei fatti da una globalizzazione in crisi, eppure capace di ristrutturarsi e di riadeguarsi alla crescente competizione tra i grandi blocchi, tra le nuove vaste aree del pianeta in cui i salariati aumentano solo laddove aumenta lo sfruttamento becero della forza lavoro.

Se può esistere una intesa tra le opposizioni, a tutto vantaggio del ristabilimento della costituzionalità di una gamma di diritti oggi in pericolo, questa può e deve avere inizio dalle rivendicazioni sociali, da una sinergia tra sinistra moderata, di alternativa, radicale, verde, ecologista, libertaria e un progressismo che vive ancora nel sindacalismo, nell’associazionismo culturale, sociale e civile di una Italia in balia delle destre ma impossibile da definire solamente “di destra“.

Se quelle di Elly Schlein non sono solo parole, ma vogliono essere un cambiamento davvero importante per una forza che diventa di sinistra riformista dopo essere stata a lungo di centrosinistra, liberale e con marcati tratti di condivisione delle compatibilità del mercato, allora è possibile parlarsi, è possibile arrivare ad un reciproco scambio di progetti e di programmi per condividere quanto meno determinate lotte che, a quanto è possibile vedere dal disastro antisociale prodotto in precedenza, anzitutto dai governi sostenuti dal PD e dalle destre insieme, sarebbero una forma di umile e al tempo stesso decisa autocritica. Un po’ per tutti.

Se abbiamo un po’ di tempo, non aspettiamone altro.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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