Paolo Cornetti

L’attacco di Hamas

Prima l’ingente lancio di razzi e poi l’invasione via terra di militanti armati fino ai denti che hanno sfondato le reti di recinzione e i muri che separano i 48km della striscia di Gaza da Israele e si sono infiltrati nel sud del paese, lasciando sul terreno centinaia di morti tra civili e militari e catturando diversi ostaggi (oltre 100 finora), portati poi a Gaza.

L’attacco di Hamas ha trovato completamente impreparate le difese israeliane, che hanno subito gravi perdite, non solo di uomini, ma anche di terreno, con avamposti e cittadine finite sotto il controllo palestinese e nelle quali tuttora si combatte aspramente. Ma soprattutto, l’attacco, ha trovato sorprendentemente impreparati i servizi segreti israeliani, considerati tra i migliori al mondo, che non hanno previsto, o valutato nella giusta maniera, l’imminente pericolo.

L’operazione di Hamas, in realtà, pare fosse calcolata da diverso tempo per via delle modalità utilizzate e per i mezzi e gli strumenti adoperati. È probabile che in qualche modo, probabilmente tramite l’utilizzo di dispositivi per la guerra elettronica a breve raggio, siano stati messi fuori uso i mezzi di comunicazione delle truppe di confine israeliane, che sono state così sorprese senza poter dare nessun tipo di allarme. Non è chiaramente da escludersi che vi sia stato l’appoggio di qualche attore straniero, in particolare l’Iran (che all’Assemblea dell’ONU ha dichiarato la sua estraneità, pur ritenendo legittima l’azione di Hamas), nella preparazione e nella pianificazione dell’attacco.
Allo stesso tempo, è da rilevare quanto sia stata efficace la rete che ha portato Hamas a reperire un enorme quantitativo di armi. A questo proposito, alcune speculazioni hanno parlato di armi anche provenienti dall’Ucraina, e mentre da parte di Kiev vi è stata una secca smentita, la deputata statunitense del Partito Repubblicano Marjorie Taylor Greene (accusata in passato di sostenere teorie del complotto) ha chiesto il tracciamento delle armi americane utilizzate da Hamas.
Ovviamente, al momento non è possibile stabilire se ciò sia avvenuto veramente, ma è chiaro che se alcune fette di mondo vengono riempite di armi poi queste armi, piuttosto facilmente, girano sui mercati neri.

Come detto, nessuno globalmente si aspettava un attacco di simili proporzioni da parte di Hamas, che ha causato fino a questo momento almeno 800 vittime israeliane in due giorni e mezzo, più del doppio delle vittime israeliane cadute dal 2008 al 2023.
Che la situazione fosse piuttosto bollente nell’area era abbastanza chiaro, come testimoniato dagli scontri di aprile alla moschea di Al-aqsa e dal successivo scambio di razzi e bombardamenti tra milizie palestinesi e forze armate israeliane. Il 2023, inoltre, era già destinato a diventare l’anno con più vittime sia palestinesi (200) che israeliane (30) in Cisgiordania, dal 2008, come riportato dall’ONU in una dichiarazione di agosto, nella quale non è mancato un passaggio sull’espansione “senza sosta” degli insediamenti israeliani, che in effetti si è intensificata proprio nel corso dell’ultimo anno.

La reazione di Israele

La prima considerazione da fare è che Israele, ancora prima dell’escalation di questi giorni, era in una situazione complessa e difficile (ne abbiamo parlato anche qua), sia a livello interno, per via delle forti e senza precedenti proteste contro il Primo ministro Benjamin Netanyahu, sia a livello internazionale, per l’intensificarsi dei rapporti tra paesi arabi che fino a poco tempo fa si guardavano male tra loro.
Come ne uscirà Netanyahu dipenderà tutto da come (e se) riuscirà a gestire questa crisi. Nel caso riuscisse a ricompattare l’opinione pubblica contro il nemico esterno comune, quello di Hamas potrebbe rivelarsi pure un inaspettato assist, ma al momento sembrano essere diverse le voci interne che gridano alle responsabilità proprio del Primo Ministro per quanto sta accadendo.

Ciò che è certo è che la reazione israeliana, inevitabilmente, non si è fatta attendere. Le Israel Defense Forces (IDF) hanno colpito duramente con bombardamenti a tappeto su Gaza, che hanno provocato oltre 500 morti e più di 120mila sfollati, con numeri destinati a crescere – purtroppo – in maniera vertiginosa.

L’attacco di Hamas ha senz’altro ferito e umiliato Israele, motivo per cui non è da escludere una forte intensificazione del conflitto, timori confermati anche dalle parole degli stessi vertici, sia di Netanyahu che ha dichiarato lo stato di prontezza alla guerra mobilitando migliaia di riservisti, ma anche del ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, che ha dichiarato di aver ordinato un assedio totale alla Striscia di Gaza e di aver imposto ai suoi uomini di tagliare qualsiasi rifornimento di elettricità, cibo e gas.

È difficile immaginare che questo si tramuti in un’operazione via terra e quindi in un’invasione diretta, poiché per le forze armate israeliane sarebbe particolarmente ostico combattere tra cunicoli e macerie nel delirio di Gaza, anche se questo sarebbe probabilmente l’unico modo per rintracciare con certezza i covi di Hamas nascosti sotto terra tra tunnel invisibili dall’alto. Difficile, chiaramente, ma non del tutto impossibile, vista l’intensa piega che sta prendendo il conflitto in corso.
Più probabile, comunque, che le ritorsioni di Tel Aviv avvengano con bombardamenti a tappeto dell’area. Quello che è certo, è che qualsiasi cosa accadrà vedrà un mutamento dello status quo, lasciando sul campo morti, feriti, sfollati e distruzione, con il rischio di dare luogo a una crisi umanitaria con pochi precedenti in un’area già di per sé martoriata da decenni.

Il mondo arabo e gli Stati Uniti

Con ogni probabilità, uno degli obiettivi dell’attacco di Hamas è quello di interrompere, o perlomeno rendere più complessa, la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita in corso negli ultimi tempi, cercando di ricompattare i paesi arabi contro il nemico storico.
Il Ministro degli esteri saudita ha rilasciato una nota sulla situazione con toni accusatori nei confronti di Israele e senza condannare in alcun modo le azioni di Hamas.
Missione compiuta, dunque? Non per forza. Certamente i sauditi ora guarderanno con molta attenzione a ciò che succederà a Gaza e dintorni, ma secondo il New York Times quanto sta accadendo non influenzerà il desiderio saudita di recuperare i rapporti con Tel Aviv. A dire la verità, questo sembra più un desiderio statunitense che altro, con Biden e Blinken che si sono spesi in prima persona per incentivare le trattative cercando di riportare la diplomazia americana al centro della regione dopo lo storico accordo, portato a casa dalla Cina, tra Iran e Arabia Saudita. Che fine faranno le relazioni tra i due stati è ora molto difficile da pronosticare e molto dipenderà dalla reazione di Israele su Gaza e sulla Cisgiordania.

In caso di attacco sproporzionato e che possa realmente mettere in pericolo la sopravvivenza dello stato palestinese è estremamente probabile che altri attori decidano di mettersi in gioco. Per il mondo arabo la Palestina è soprattutto un simbolo e difficilmente la lascerebbero sparire dalle cartine geografiche. Non solo per volontà dei governi degli stati arabi, ma anche su spinta delle stesse popolazioni.

A intervenire sarebbero senz’altro l’Iran (ufficialmente o no, nella sostanza fa poca differenza), ma anche milizie irachene e siriane, talebani dall’Afghanistan e Hezbollah dal Libano. Scenario che rischierebbe di chiudere in una morsa da più punti le difese israeliane, che senz’altro hanno mezzi decisamente superiori ai competitor nell’area, ma che l’attacco di Hamas ha dimostrato a tutto il mondo (in particolare quello arabo, segnale da non sottovalutare) essere vulnerabili. Tra l’altro, Hezbollah che nelle prime ore aveva soltanto invitato la “resistenza araba” a sostenere la causa palestinese, ma non era entrato attivamente nel conflitto, ha iniziato a sparare alcuni razzi verso Israele.

Se è difficile prevedere un coinvolgimento in un conflitto di questo tipo di altri due attori come la già citata Arabia Saudita e l’Egitto, nulla può essere escluso, vista la fragilità dell’area e le conseguenze che potrebbe avere un evento di questa portata. L’Egitto, in particolare, si è posto come mediatore negli ultimi anni tra Israele e Hamas e se la situazione dovesse degenerare si troverebbe in una posizione decisamente scomoda. In queste ore gli stessi israeliani stanno accusando il governo del Cairo di non avere espresso una forte condanna nei confronti del poliziotto egiziano che ha sparato contro un bus di turisti israeliani uccidendo tre persone, tra cui due israeliani e un egiziano, e venendo subito arrestato. Egitto, che per paura di uno scenario di guerra aperta aveva avvertito Israele dell’imminente pericolo, con informazioni di intelligence.

Dall’altra parte, gli Stati Uniti hanno già mobilitato la portaerei a propulsione nucleare “USS Gerald R. Ford” accompagnata da una flotta di incrociatori e cacciatorpediniere e squadre aeree da combattimento, compresi gli squadroni F-35, F-15, F-16 (gli stessi richiesti e non ancora ricevuti da Kiev) e A-10. Al momento, comunque, le forze armate statunitensi si limiteranno a monitorare la situazione e a compiere operazioni di soccorso.
Di certo, per quanto tra Biden e Netanyahu non scorra affatto buon sangue, essendo quest’ultimo strettamente legato al Partito Repubblicano statunitense, gli Usa non ci penserebbero due volte a intervenire in un conflitto che potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza stessa di Israele.

La guerra possibile

Questo nuovo conflitto, che duri pochi giorni o che si estenda e diventi più grande, va comunque inscritto all’interno della nuova polarizzazione che sta provando ad emergere a livello globale e iniziata il 24 febbraio 2022 con l’invasione russa in Ucraina. Un mondo che si riassesta è un mondo dove vecchie dispute tornano attuali e dove vari attori, in questo caso più o meno direttamente, stanno provando a emergere per ritagliarsi uno spazio di importanza maggiore all’interno degli equilibri internazionali.

Molto, se non tutto, dipenderà dall’intensità della reazione di Israele, se sarà una rappresaglia o se sarà una vera e propria guerra di conquista destinata a cambiare per sempre i confini e le geografie del Medio Oriente. In questo caso, si tratterebbe di una guerra di sopravvivenza per entrambe le parti e se oggi l’opzione “guerra totale” non sembra essere perseguibile, malgrado le parole dei vertici israeliani, le situazioni nei territori dove gli attori in campo hanno poco o nulla da perdere possono arrivare ad escalation rapide ed incontrollate.  Di questo gli analisti, ma soprattutto chi prende determinate decisioni, devono sempre e per forza tenere conto

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy