Il gioco dei pacchi”, trasmissione di successo in onda da anni sulla RAI, dietro l’apparente intrattenimento si rivela grammatica ideologica. Per confermare che il fallimento personale è una colpa.
La giostra dei poveri: Il gioco dei Pacchi
Negli anni ’90 far quadrare i conti rappresentava la raccomandazione ricattatoria per poter scorticare la sicurezza sociale con piglio etico. Si compì un rovesciamento concettuale. Il termine privilegio iniziò a essere appiccicato sugli abiti dei lavoratori.
Irrompeva quindi una particolare doxa costruita sul connubio tra rendita e merito equivalente a quello tra lavoro garantito e pigrizia.
Il futuro personale dipendeva dall’oculatezza delle proprie scelte per cui non esisteva alcuna società obbligata a garantire nessuno. Però tutti potevano sognare in grande. Anche le classi popolari furono soggiogate ‒ e lo sono tutt’ora ‒ da questa nuova rappresentazione esistenziale e lo Stato, per corroborare le moderne convinzioni, legalizzò d’incanto scommesse e gioco d’azzardo.
L’unico risarcimento concepibile dunque, per chi rimaneva indietro, era provare a svoltare. Gratta e vinci, eventi sportivi, slot machine. Dalla ponderatezza riflessiva del totocalcio si passava alla famelica impulsività di corpi chinati nel farsi mangiare soldi. Come allevamenti in batteria.
Del mondo disciplinato dall’idea ordinatrice imperniata sulla libera scelta individuale, “il gioco dei pacchi” ne rappresenta un’allegoria sadica. Lo scopo nascosto della competizione è quello di dimostrare che la scala sociale si forma senza alcuna ingiustizia perché, se messo di fronte alla dinamica della scelta, chi ha bisogno otterrà sempre meno di quanto avrebbe potuto o perderà tutto spinto dall’irragionevolezza.
Perché questo canovaccio sia sempre rispettato la trasmissione non ha regole ispirate all’azzardo puro. Difatti la sceneggiatura prevede la presenza di chi ha meritato successo e prestigio, sdoppiata però in differenti maschere.
Il “dottore” è colui che compone le offerte ricalcando la dinamica classista della beneficenza. Il “presentatore” simula un’alleanza paternalista con i concorrenti evocando la figura dei consulenti finanziari. Il loro cinismo asseconda la messa alla berlina di chi ingenuamente spera nella fortuna.
Si vuole dimostrare che i bisognosi mancano sempre di coraggio e per questo condizionano volontariamente il loro destino. Così attraverso le “offerte” lo stato di bisogno è spettacolarizzato. La scalata al successo sarebbe ostacolata dalla necessità di accontentarsi purché il tutto sia ragionato ad alta voce. Serve la confessione sulla propria indigenza perché la dinamica della beneficenza sia pedagogica.
Data la naturale incapacità dei mediocri nel dimostrarsi audaci saranno i ricchi a risolvere la questione facendo sgocciolare denaro. Le offerte difatti sono sempre al di sotto di un semplice ribasso. Ma la perversione non finisce qui. Chi tenta di conquistare il banco, rifiutando le proposte, è repentinamente stigmatizzato come dissennato. Come un eroe illuso. In questo caso il giudizio morale fa da sfondo al tentativo di cavalcata vincente. Le personalità grossolane si smarriranno in facili entusiasmi a loro discapito.
“Il gioco dei pacchi” finge di atteggiarsi in intrattenimento per rivelarsi grammatica ideologica. Per confermare che il fallimento personale è una colpa. E che non esiste alcuna società disposta a perdonarla. Sono sempre “affari tuoi”.