L’unica forma rimasta di consenso etico nel mondo moderno è definita dal configurarsi pubblico come vittima.

In mancanza di valori positivi condivisi, l’ultimo residuo di ragione etica è definito dall’appello liberale a non violare lo spazio personale, e quando questo spazio viene violato ci si può fregiare di principio del ruolo di “vittima”.

L’ambito ruolo della vittima

Quello di “vittima” è un ruolo ambito, in quanto fornisce oggi diritti speciali, considerazioni speciali, particolare comprensione. Dopo tutto se uno è una vittima è in credito con il mondo e noi tutti gli dobbiamo qualcosa, no? Ma essere “vittima” non è naturalmente un dato oggettivo.

Non basta aver subito qualcosa, una prevaricazione, un’ingiustizia. Non c’è individuo o gruppo sociale nella storia che non abbia subito prevaricazioni e ingiustizie, e moltissimi individui e gruppi hanno subito prevaricazioni e ingiustizie gravissime.

Ciò che è essenziale è l’adeguata coltivazione culturale del ruolo di vittima, che è un compito per cui ci vuole un certo talento e molto lavoro.

La prima cosa da osservare è che formalmente parlando soltanto un individuo può essere vittima di qualcosa, può subire un’ingiustizia e chiedere che sia risarcita. Le lesioni subite da Mario non passano automaticamente alla consanguinea Maria né al nipote Mario Jr.

Ma se risolvessimo in ciò il ruolo etico del vittimismo non ci sarebbe molto profitto da trarne, perché verrebbe preclusa completamente la possibilità di farne un uso politico, che necessariamente travalica la sfera individuale.

Dunque il primo passo essenziale sta nell’identificare il gruppo o la classe di riferimento che può legittimamente definirsi vittima.
E qui si aprono le praterie dell’arbitrio. Chi sono i gruppi vittimizzati della storia?

Lo sono i lavoratori sfruttati dal capitale?
Lo sono i russi, aggrediti dai tedeschi e usciti dalla guerra con 20 milioni di morti?
Lo sono i cinesi ridotti a protettorato nell’800 dalle cannoniere inglesi?
Lo sono gli armeni massacrati dai turchi dopo il 1915?
Lo sono gli indiani d’America, defraudati di un continente e della vita dai coloni anglosassoni?
Lo sono i maori, gli indios, i congolesi, i maghrebini, e tutte le mille etnie che sono state sottoposte a più o meno feroce colonizzazione dagli europei?
Lo sono i comunisti, perseguitati, incarcerati e messi fuori legge costantemente dall’anticomunismo novecentesco?
Lo sono i palestinesi, defraudati sistematicamente della propria terra e dignità da quattro generazioni?
Lo sono gli iracheni, il cui paese è stato ridotto ad un cumulo di macerie dalla “Coalizione dei volenterosi”?

Si potrebbe proseguire l’elenco letteralmente all’infinito.
Ma chiaramente non basta aver subito ingiustizie e prevaricazioni per ambire ai privilegi speciali conferiti dallo status di vittima. Bisogna organizzarsi con efficacia in gruppi di pressione e lavorare alacremente per costruire e rinforzare nel tempo la propria immagine di vittima.

Ecco, quando leggo l’ennesima articolessa pensosa sul “veleno serpeggiante dell’antisemitismo”, mentre ogni giorno che dio manda in terra Israele compie l’equivalente della strage degli innocenti, non posso che provare ammirazione per la capacità organizzativa di questi gruppi di pressione.

Quando la malafede diviene seconda natura e il vittimismo una professione di successo.

* Ripreso da Andrea Zhokfilosofo e accademico italiano, professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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