Corsi e ricorsi economici, dunque storici in quanto sociali, fatti dalla società nel suo insieme, ci hanno illustrato molto bene come, fin dagli albori del capitalismo moderno la lotta per un salario dignitoso, composto da qualcosa di più del semplice valore pagato dall’imprenditore per riavere la forza-lavoro il giorno dopo in fabbrica o in qualunque altro ambiente occupazionale, si sia dovuta confrontare con la tesi secondo cui l’aumento delle paghe corrispondeva ad un aumento dei prezzi.

Il Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori faceva bene a bollare come «false in linea teorica e pericolose in pratica» le asserzione del “cittadino Weston“, un owenista che Marx aveva contribuito a rendere famoso per più di quindici minuti nel suo discorso sul salario, il prezzo e il profitto.

La tesi dall’aumento inflazionistico causato dalla modificazione della struttura del salario (in senso ovviamente progressista per quanto concerneva un diritto fondamentale del mondo del lavoro) si è trascinata stancamente, eppure con un certo vigore, dal 1865 fino ad oggi.

Non solo Confindustria, come è ragionevole che sia rispetto al suo ruolo di classe, ma in particolare i governi che in questi decenni si sono succeduti alla malaguida di una Italia sempre più povera, impaurita dai mutamenti globali e resa schiava di una ossessione per un consumismo planetario da cui non può rimanere estranea, hanno rielaborato la tesi dell’inutilità dell’aumento dei salari che, infatti, sono rimasti – Europa dixit – praticamente al palo.

L’altra grande minaccia al riconsolidamento del capitale nel corso della seconda metà del Novecento, dopo gli sconvolgimenti delle guerre mondiali e gli annientamenti di interi popoli con le varie fasi colonialiste di tutto il Secolo breve, è stata la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.

Proprio la redistribuzione del monte ore complessivo necessario alla produzione tra più lavoratori era, tanto ad inizio quanto a fine Novecento, il presupposto per un’ammodernamento sociale molto più esteso rispetto alla pur importante questione economica.

Si trattava di cambiare alla radice la vita di decine di milioni di persone che, giovando di più tempo “libero” e di meno impiego nelle fatiche quotidiane per procacciarsi il necessario per sé stessi e la famiglia, avrebbero potuto avere maggiori cure sanitarie, una migliore istruzione, una vecchiaia meno anticipata rispetto ai regolari cicli biologici dell’esistenza.

Quella che veniva tacciata di essere una rivoluzione esclusiva dei tempi di lavoro era, in realtà, una vera e propria rivoluzione dell’intera giornata di un salariato, di un dipendente, di prestatore di braccia e di mente.

Si parva licet, il confronto tra l’ieri e l’oggi è indubbiamente condizionato dalle enormi differenze che si possono registrare sul piano dell’espansione del capitalismo nella sua ultramoderna fase liberista e l’ancora ristretto (seppure intercontinetalissimo) campo di estensione dei commerci e dei mercati nella prima metà del Novecento; pur tuttavia, anche gli economisti tutt’altro che keynesiani o marxisti dell’oggi non potranno non ammettere che i fenomeni intrinseci alle contraddizioni del sistema produttivo e di accumulazione del capitale si ripresentano nei rapporti di classe di un tempo.

La guerra, come contraddistinzione della ciclicità di una crisi globale che investe i grandi apparati di potere che vorrebbero sfruttare risorse in esaurimento, tanto naturali quanto prettaemente umane ed animali, è l’estrema irrazionalità che si produce nel momento in cui le nazionalità che si fronteggiano lottano per un diritto alla sopravvivenza a scapito di altri.

I poteri politici, che supportano e cercano queste tensioni internazionali, si garantiscono così o la permanenza al potere grazie al sostegno di nuovi traffici (il commercio delle armi tra gli altri…) o la completa rovina e la sostituzione con altre classi dirigenti pronti alla bisogna.

L’allarme lanciato dal Fondo Monetario Internazionale sulla pernicisosa minaccia della stagflazione, che penderebbe come una spada di Damocle sulle sorti anzitutto dell’economia europea (con una riduzione dei capitali bancari dell’oltre 12% e con circa un quarto degli istituti che finirebbero letteralmente in bancarotta), ha prodotto in paesi come Spagna e Germania una unità politica tra forze socialiste, socialdemocratiche e di centro liberale che stanno pensando e ripensando di modulare i salari ed adeguarli ad una risposta anti-inflazionistica che, proprio nell’essenza dei provvedimenti, negherebbe l’antico assunto di causa-effetto tra aumento degli stessi e aumento del costo della vita.

Più facile che questo accada a Berlino, meno probabile che avvenga a Parigi. Escluso che possa avvenire in Italia. Sicuro che avvenga in Spagna: il resuscitato governo di Pedro Sánchez, dopo aver seguito la linea di aumento dei salari fin dal gennaio scorso, oggi annuncia, nel patto federativo del nuovo esecutivo, siglato con Sumar e con gli indipendentisti catalani amnistiati, la volontà di ridurre la settimana di lavoro da 40 a 37,5 ore.

Anche in questo caso qualcuno potrebbe fare come ad inizio Novecento o a metà dello stesso, obiettando che si tratta di una misura nociva per l’insieme delle economie di una nazione, di una rivoluzione al contrario.

E dal punto di vista della moderna borghesia reazionaria, popolare e in parte neofranchista, è senza dubbio così. Ma per la classe lavoratrice e per tutti coloro che sopravvivono invece di vivere decentemente, significherebbe fare un grande passo avanti nella riconsiderazione a tutto tondo della propria giornata, della propria interezza esistenziale.

In un momento epocale come il presente, in cui le guerre divampano nei teatri di frizione tra le placche tettoniche dei grandi colossi mondiali dell’economia e della politica imperialista (Russia vs Occidente e viceversa, Stati Uniti e Israele vs Medio Oriente e viceversa, Cina vs Stati Uniti e viceversa), la lotta per il salario e per la riduzione dell’orario di lavoro è il cuneo critico in mezzo a tante verità distorte.

Mehring scrive nella sua “Vita di Marx“, pressapoco nel 1918, sul finire del primo grande conflitto mondiale, che la guerra – proprio secondo il Moro e secondo Engels – non aveva nulla a che fare con pretese di regolamenti tra umani su fondamenta ascrivibili a volontà divine; e neppure poteva essere ricondotta ad una unicità per cui, antistoricamente, esisteva quasi una idea di guerra che poteva essere giudicata soltanto col metro etico.

La guerra era parte di un processo dialettico di una umanità che si relazionava secondo paradigmi strutturalmente legati ai bisogni, al potere che li interpretava e li faceva convergere verso altri bisogni. Non sociali ma del tutto particolari, esclusivi: privilegi tanto di casta quanto di classe. La guerra aveva, per Marx ed Engels, dei presupposti ben precisi e definiti.

Ed ogni conflitto era diverso dagli altri non solo per metodo ma per merito, per contesto, per ciò che lo aveva innescato e anche per tutto ciò che lo aveva condotto a terminare entro il perimetro di uno o più accordi, che altro non avrebbero finito per essere se non intese soprattutto economiche tra le diverse classi dirigenti di ogni epoca.

Dovremmo interpretare così anche quelle guerre che circondano il vecchio mondo occidentale, mentre i paesi BRICS allargano la loro sfera di influenza, si compenetrano nelle differenze e scavalcano antiche pregiudiziali per oggettivizzare una alternativa al dominio imperiale a stelle e strisce.

Dovremmo pensare agli scoperi e alle lotte sociali come a qualcosa che mette insieme le differenze tra i lavoratori di ogni paese e obbliga la sinistra a ripensarsi come strumento di condizionamento delle politiche istituzionali, nonché come elemento rifondativo di una nuova cultura civile e sociale a cui si accompagni un sindacalismo che – come giustamente osservava Rosa Luxemburg – non fa del riformismo una “rivoluzione diluita” nel tempo e, ugualmente, non pensa alla rivoluzione come ad un “riformismo condensato” in poco tempo.

Lo sciopero generale indetto da CGIL e UIL oggi rivendica un protagonismo di massa del mondo del lavoro per salari che devono essere aumentati rispetto ad una ondata inflazionistica che è prima di tutto causa dell’accumulazione di ingenti profitti, di capitali non redistribuiti socialmente.

A questa rivendicazione imprescindibile si accompagna tutta una serie di critiche ad una manovra di governo che tassa i salari e le pensioni e salvaguarda le grandi ricchezze, le rendite da capitale senza colpire – come è logico nell’impostazione liberista dell’esecutivo – quell’evasione fiscale che sostiene una larga fetta di introiti sottratti al conteggio generale delle entrate (e del PIL nazionale).

Non c’è alcun intervento nella tassazione dei cosiddetti “extraprofitti” e non c’è, pare logico, nemmeno nessun ripensamento delle politiche industriali e di investimento. Della riduzione dell’orario di lavoro non ne parliamo nemmeno. Da un governo come quello di Giorgia Meloni e delle sue destre non ci si può attendere nessuna riforma sociale, fiscale, lavorativa, pensionistica, scolastica, sanitaria, infrastrutturale che vada nel solco di un aumento della vera ricchezza nazionale. Quella del benessere collettivo. Il governo dei patrioti è il peggiore nemico della patria.

Una sincera alternativa, tuttavia, al moderno “cretinismo parlamentare” di una buona fetta della moderna sinista di opposizione, tornata ad essere tale dopo aver attraversato il deserto di sé stessa con governi tecnici, renzismo e liberismo a cattivo mercato, è molto al di qua dall’essere pronta per contraltareggiare l’antisocialità delle peggiori destre mai avute dalla fine del fascismo in avanti.

Per pensarla come un blocco compatto di ferma rivendicazione sociale, di rappresentanza davvero di massa dei bisogni del mondo del lavoro, del precariato, del disagio diffuso e molto articolato, la sinistra non può prescindere da questi due pilastri dell’evoluzione progressista in senso lato e stretto al tempo stesso: l’aumento dei salari e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Su questo duplice piano si muove il senso di una lotta politica chiaramente riconoscibile, senza più compromessi di sorta, senza più alleanze di comodo. Senza più la trasfigurazione di sé stessa in un centro privo di colore.

Senza la conquista di salari più alti e senza la redistribuzione dell’orario di lavoro a un numero maggiore di lavoratrici e lavoratori, qualunque diritto ulteriore, seppure chiesto ad alta voce, sarà solo una concessione dall’alto della preservazione dei privilegi di classe verso il basso di una miseria esponenziale.

Non lasciamo che la guerra aumenti ancora di più la crisi globale che ci piomba addosso: la tragedia delle migrazioni è lì ad evidenziare ogni giorno ciò che, a causa di noi stessi, noi potremmo essere costretti a far vivere in futuro alle giovani generazioni. Non sono i migranti a rubarci le paghe, il lavoro, le case, la cultura, il benessere. Sono gli imprenditori, i mercanti di armi, i grandi finanzieri e gli speculatori. E sono i governo loro amici. Come quello italiano, come molti altri.

Se non esistono governi amici, che almeno possa tornare ad esserci una sinitra veramente amica degli sfruttati. Una sinistra che sta da una parte sola: quella di chi non fa profitti, quella che non può risparmiare e risparmiarsi nulla…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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