Niente di nuovo sul fronte delle destre. Anzi, tutte conferme del carattere reazionario del governo. Così doveva essere e così è stato.

La bocciatura della proposta di legge sul salario minimo a 9 euro l’ora fatta dalle opposizioni è stata praticamente archiviata in una delega con pieni poteri all’esecutivo per gestire una riformulazione in tal senso di un provvedimento che non andrà più a fissare un tetto di paga al di sotto del quale sia vietato andare, ma che sarà un rinvio sine die, una promessa aleatoria di concertazione tanto con le minoranze quanto con i sindacati per rivedere la materia.

A promettere una attenzione da parte del governo in questa direzione è stato il sottosegretario al Ministero del Lavoro, Claudio Durigon. Già missino, già esponente dell’UGL, ed infine leghista salviniano. Per intenderci, per capire il rapporto tra il sindacato di destra e il mondo del lavoro, mentre CGIL, CISL e UIL dichiaravano “antisindacale” un contratto di lavoro tra i più indecorosi mai sottoscritti, ossia quello del mondo dei rider (tecnicamente si chiama “contratto di collaborazione autoregolata“), UGL lo sottoscriveva a piene mani.

Un contratto che stabiliva un “salario minimo” di dieci euro l’ora ma, e qui sta l’inghippo, sulla base del tempo “stimato” per le consegne. Il che significa che per poter arrivare alla soglia del minimo orario si conta non il tempo reale ma quello che l’azienda reputa sia tale.

Il cumulo delle tempistiche di consegna nel concreto può superare molto i sessanta minuti, visto che nel concetto di “consegna” rientra solamente il tempo di percorrenza dal ristorante al cliente. Il resto, del percorso, ovviamente benzina compresa, è tutto a carico del rider.

Il contratto collettivo nazionale firmato da UGL con le imprese di consegne a domicilio venne un anno dopo messo in discussione da una sentenza del tribunale di Firenze che, dichiarando illegittimi i licenziamenti in massa fatti da Deliveroo, equiparava – nella scia del diritto comunitario europeo, i riders a veri e propri lavoratori, e li sottraeva a quel livello di parasubordinazione dell’occasionalità che, almeno fino ad allora, aveva permesso di leggere nel contratto di collaborazione autoregolata una sorta di autogestione a tutto tondo da parte del ciclofattorino.

Dunque, la destra che oggi pretende di regolare il salario minimo bocciando la proposta delle opposizioni è credibile tanto quanto lo era la contrattazione antisindacale nei rapporti di sfruttamento tra grandi imprese del delivery e pianeta dei riders.

Sarebbe innaturale che le forze conservatrici e reazionarie che stanno al governo del Paese si prodigassero nell’ampliamento dei diritti sociali, nelle tutele delle fasce più deboli della popolazione. Tutto il presunto patriottismo di questo mondo non giustificherebbe l’allontanarsi dalla loro precisa missione: l’interclassismo.

La bocciatura di una proposta molto timida, ma pure importante, come quella portata avanti da PD, M5S e Alleanza Verdi-Sinistra, che prevedeva nove euro all’ora come minimo salariale, senza adeguamento all’inflazione, in parte finanziato dalle imprese e in parte dello Stato (quindi pagato con i nostri stessi soldi…), da applicare nel lungo arco temporale di un anno e mezzo, seppure insufficiente ad affrontare il dramma dell’impoverimento progressivo della popolazione, apre ora le porte ad un impegno del governo per trovare, entro sei mesi, una soluzione per dare seguito ad un progetto di “equa redistribuzione“,

Sarà permesso avere un atteggiamento molto più sottile dell’ingenuità dubitativa. Le ragioni le abbiamo già elencate.

La destra non può permettersi di dirottare risorse pubbliche su una riforma sociale storica come quella dell’introduzione di un minimo salariale per legge. Tanto meno potrebbe consentire all’iniziativa di Legge proposta da Unione Popolare di diventare quello che si propone: un salario minimo di dieci euro l’ora (vero e non come quello contrattato da UGL per i riders), adeguato all’inflazione, totalmente a carico degli imprenditori, da applicare entro sei mesi.

Ma la proposta di Legge, forte di oltre settantamila firme raccolte in tutta Italia, è approdata comunque al Parlamento e, quanto meno, verrà discussa nelle commissioni preposte e, ci si augura, in entrambe le Camere. Il tema del salario minimo – e qui hanno ragione Fratoianni, Conte e Schlein che lo hanno sottolineato più volte nel corso del dibattito alla Camera – è ormai entrato nell’agenda di un nuova fase del mercato del lavoro.

Al pari della riduzione di orario a parità di salario, il problema dell’aumento delle retribuzioni entra a far parte di una piattaforma rivendicativa di una lotta di classe che, pur non essendo percepita in quanto tale da vasti settori del mondo del lavoro, si produce ogni giorno.

Lo si è visto nella difesa del posto di lavoro da parte degli operai della GKN, lo si vede oggi nella trattativa sull’Ilva di Taranto, lo si vede ogni giorno nello stillicidio di morti che sono la firma più eloquente, reiterata quotidianamente sotto una pagina bianca che aspetta di essere riempita con nuove regole sull’antinfortunistica e contro ogni morte causata dal mancato adeguamento alle più basilari norme di sicurezza che sono puntualmente disattese da molti, troppi imprenditori.

Per questo, nonostante la proposta delle opposizioni parlamentari fosse, per così dire, “al ribasso“, sarebbe stato estremamente importante vederla approvata, perché avrebbe aperto una grande breccia nel moloch pregiudiziale che stabilisce la correlazione svantaggiosa tra salario minimo e debolezza strutturale del salario genericamente inteso per altre realtà contrattuali.

In sostanza, se si pone un minimo di nove, dieci euro all’ora sotto al quale nessuno può scendere, si determinerebbe una caduta degli altri monti salariali verso quel punto di attrazione.

Questo cosa dimostrerebbe? Niente altro se non il fatto che il padronato moderno, per il ruolo che svolge nel liberismo attuale, non ha la minima intenzione di adeguare i salari italiani alla media europea e che, quindi, in caso di obbligo alla remunerazione per Legge di una paga non derogabile ad un ulteriore ribasso, risponderebbe con una offensiva antilavorativa, antisalariale, antieconomica per le classi più sfruttate, per il mondo del lavoro e della precarietà diffusa.

Caso mai ve ne fosse bisogno, questa sarebbe l’ennesima prova che i ricchi non arricchiscono il Paese, ma ne impoveriscono la popolazione, approfittandosi, molto spesso e molto più che volentieri, delle ingenti risorse pubbliche messe a loro disposizione, mentre i profitti fanno la loro bella vita nei paradisi fiscali al di là dei confini della Repubblica.

Generalmente, se si fanno consegne in moto, si impiega un quarto d’ora (traffico e condizioni meteo permettendo) per portare a casa di un cliente il panino, la pizza, la piadina o la spesa che ha ordinato. Se la consegna è fatta nell’ambito cittadino, ci si vede accreditare 3,77 euro.

A questa cifra va sottratto il 20% della ritenuta d’acconto che si applica anche sulle mance elargite tramite applicazione telefonica. Se a questa detrazione sommiamo il costo della benzina e dell’usura del mezzo, possiamo tranquillamente affermare che rimangono “puliti” circa 2,80 euro.

In media un rider fa tre consegne in un’ora, se il ristoratore fa già trovare pronto il tutto, se gli ingorghi in città non sono troppi e se tu, che sei in bicicletta o in moto, non fai di tutto per violare il codice della strada mettendo in pericolo oltre alla tua vita anche quella degli altri…

Questo significa che, mediamente, la paga di un rider è di otto euro all’ora. Sono escluse dal conto le mance che il cliente può dare di sua spontanea volontà non passando per la app; ma siccome sono a totale discrezione di chi riceve il cibo, non possono essere conteggiate come composizione salariale.

Questo è solo un esempio di povertà lavorativa, di sfruttamento ai massimi livelli possibili. Si fa passare il lavoratore come una sorta di imprenditore di sé stesso perché gestisce i propri tempi, perché si regola secondo le sue esigenze. In realtà, lo si costringe ad un rapporto perverso con il tempo, di monetizzazione dello stesso che lo induce a trascurare tanto la sua salute quanto la sua sicurezza in ogni momento.

Si potrebbero fare tantissimi altri esempi: dalla scuola alla sanità, dalle cooperative fintamente sociali ai lavori agricoli. Lì addirittura si muore sotto il sole, nei campi di pomodori, negli aranceti, quando d’estate il caldo picchia sempre più ferocemente sulle teste di tutti, per nemmeno tre, quattro euro all’ora. Qui siamo ben al di là dello sfruttamento. Qui ci troviamo, come giustamente è stato tante volte detto, dentro un moderno schiavismo che supera il caporalato della seconda metà del Novecento.

La lotta per il salario minimo è appena cominciata e andrà combattuta ostacolando i nuovi progetti di gabbie salariali che il governo Meloni intende portare avanti anche sulla scorta del progetto di autonomia differenziata, dentro il più complessivo disegno di controriforma costituzionale che intende assegnare a Palazzo Chigi pieni poteri legislativi, relegando il Parlamento a mero ratificatore delle decisioni dell’esecutivo, lasciano al Quirinale funzioni rappresentative e non più di esclusiva garanzia tra i poteri dello Stato.

Tutto si tiene e tutto si compenetra. Non dobbiamo pensare che la lotta per i diritti sociali sia sganciata da quella per la difesa della democrazia. Se il mondo del lavoro viene sempre più reso ininfluente nei processi decisionali dell’intera vita del Paese, allora è l’intera società ad essere trascurata e resa spettatrice di fatti decisi soltanto e fatti calare dall’alto.

Quando il sindacato viene, in pratica, estromesso dalle trattative, deriso radiofonicamente al pari delle opposizioni, è la tenuta anzitutto collettiva del sistema pubblico che è in pericolo. E, infatti, il paradigma della destra ruota tutto attorno all’esaltazione del privato come solutore degli enigmi più inestricabili che le contraddizioni economiche di oggi pongono sotto gli occhi di tutti.

La sinistra deve essere in grado di dare una risposta nettamente contraria a questa torsione antisociale e antidemocratica che sta vivendo l’Italia dentro un contesto europeo privo di mordente. Non basta rispettare i vincoli di Bruxelles per essere virtuosi sul piano dei numeri, dei conti e della produzione della ricchezza nazionale. Rimaniamo, checché se ne dica, un paese con un debito pubblico abnorme che, ancora nel 2019, segnava il 134% rispetto al PIL. Si tratta di 2.841 miliardi di euro…

Se non siamo ancora crollato sotto il peso di tutto questo ammanco, è grazie (ma si fa per dire…) alla cornice europea che, come è noto, non è una benefattrice di semplici elargizioni a fondo perso… Qualcuno pensa di poter affermare, anche riscuotendo un certo successo elettorale, che questo debito va spalmato sull’interezza della popolazione, visto che la produzione della ricchezza è compito di tutte e di tutti.

Altri, invece, più onestamente, dal loro punto di vista di classe, rivendicano solo gli utili fatti, soprattutto nel corso della crisi pandemica, dividono il tutto agli alti livelli aziendali e proclamano che il debito non li riguarda, visto che danno così tanto alla nazione.

Altri ancora propongono di fare ancora più debito, visto che in questo modo, nonostante tutto, nonostante i miliardi spesi in armamenti militari piuttosto che in sovvenzioni alle strutture sociali e ai tanti settori di protezione e tutela che ne avrebbero bisogno, il progresso si vede, è tangibile, è l’orizzonte migliore possibile dell’oggi per il domani. Le teorie liberiste si sprecano, ma i fatti continuano ad avere la testa dura.

E i fatti sono questi: senza un salario minimo di almeno dieci euro, indicizzato all’inflazione e completamente finanziato dalle imprese, non ci potrà essere un inizio minimo di recupero di quella giustizia sociale che si è andata disperdendo nel corso degli ultimi trent’anni.

La lotta per il salario minimo è appena cominciata. Si riuscirà a vincerla soltanto dal punto di vista del mondo del lavoro. Se inizieranno i compromessi con quello delle imprese, allora sarà sempre soltanto una vittoria di Pirro, un qualcosa di estremamente parziale. Questa lotta, per essere vinta, deve potersi imporre. Come un tempo accadeva per quasi tutte le rivendicazioni operaie.

Per questo bisogna lavorare sui rapporti di forza. Su un rinnovamento sociale, politico e culturale del Paese. Un lavoro lungo, faticoso e oggi, dalle prospettive tutt’altro che certe. Ma proprio da ciò se ne deduce tutto il potenziale, oseremmo dire, “rivoluzionario“.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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