Non esiste un presupposto per il riconoscimento del matrimonio “regolare“, visto che lo stesso poggia sull’assunto, proclamato dalla Chiesa Cattolica, che lo stesso è tale per volere divino e, quindi, perché rientra nella “verità naturale” di ciò che il Creatore avrebbe stabilito.

Il presupposto, ergo, è Dio stesso. E può una norma che trascende la divinità porsi eticamente al di sopra della stessa? Ne crollerebbe tutto il castello di artefatti e di contraffazioni della buona fede (letteralmente intesa…) che permette al potere della Curia romana di perpetuarsi di millennio in millennio.

La famiglia è stata, quindi, nei secoli dei secoli, uno degli aggregati sociali migliori attraverso cui avere un controllo comunitario e un potere di indirizzo etico-politico nei confronti degli stessi Stati, visto che la presunzione pontificia si è spinta a dichiarare uniformante la morale cattolica rispetto a qualunque altro tipo di visione tanto del nucleo composto da uomo, donna e figli, quanto dei rapporti che sarebbero dovuti intercorrere tra i singoli e il resto del proprio limitrofo giornaliero.

Il matrimonio eterosessuale e monogamo è divenuto così un sacramento. Se non fosse stato avvolto dall’aura del sacro, sarebbe stato difficile poterlo imporre come unica scelta di vita al di fuori del peccato originale e, nel senso più lato del termine, del peccato in quanto elemento regolatore dell’esistenza umana secondo il dettame della Chiesa.

Poco importa se re, principi, conti, baroni, gran signori di ogni tipo si siano concessi amanti di ogni tipo, femmine, maschi, eunuchi. Quello che è sempre valso è il rispetto formale delle convenzioni che si sarebbero dovute continuare ad imporre alla stragrandissima maggioranza della popolazione.

Stabilito questo, la prima minaccia che venne al matrimonio biblicamente rappresentato dalla scena mitologica della creazione di Adamo da parte di Dio e di Eva dalla costola del primo uomo, fu il corrispettivo civile dell’unione pur sempre tra maschio e femmina.

La Chiesa vide in ciò una sorta di atto eversivo nei confronti della sola, unica, imprescindibile e inalterabile etica universale: la sua. Che lo Stato potesse in qualche modo sostituirsi al diritto divino, inventato dai papi e mantenuto da loro e dalle gerarchie ecclesiastiche, era un attacco diretto, secolare con pericolose tendenze laicali.

Il matrimonio spettava solo alla Chiesa: la sua sacralità, unicità e indissolubilità non poteva venire messa in discussione da un diritto civile, da una legge terrena che, in quanto tale, era oggettivamente inferiore alla legge divina. Pio IX, nel “Sillabo“, si esprime in questi termini: l’unione tra l’uomo e la donna nel sacramento coniugale è un diritto di natura.

E la natura, si sa, è il Creato per gli uomini di fede, e quindi è qualcosa che proviene direttamente da Dio. Spetta quindi soltanto alla Chiesa regolare il diritto di famiglia e non allo Stato.

Ma le crisi di coppia non sono un portato soltanto del moderno mondo del gossip a trencentosessanta gradi. Marito e moglie litigavano anche nel Medioevo e, con la crescita della contraddizioni della moderna società sempre meno oscurantista e sempre più liberaleggiante ed illuminista, l’affermazione dei diritti civili ha portato alla progressiva messa in discussione del patriarcato di cui, peraltro, non ci siamo mai del tutto scrollati da addosso le vecchie scorie.

Così il divorzio è diventato la bestia nera della Chiesa, più dei matrimoni civili su cui si erano scaraventati gli anatemi papali precedenti. Il nuovo nemico del potere religioso, quindi dell’indiscutibilità etica del divino, sacro valore del matrimonio, era la separazione legale.

Prima che questo argomento fosse inserito nei trattati, nelle costituzioni e negli statuti delle nazioni quasi contemporanee, non solo per corrente tradizionalista, ma per la possibilità di poter contemplare anche una separazione consensuale o comunque accettata dalla Chiesa, le coppi preferivano il matrimonio religioso.

La Sacra Rota, infatti, era l’unica istituzione (non secolare) adibita alla separazione e all’annullamento del sacramento matrimoniale. La progressione laica del diritto coniugale ha fatto, indubbiamente, concorrenza a questo monopolio esclusivistico.

Per questo i matrimoni civili erano osteggiati grandemente già in allora. Con la comparsa del divorzio, paradossalmente, lo saranno meno. Perché, mentre il matrimonio davanti al sindaco è comunque una unione che, a volte, viene preceduta dalla cerimonia religiosa, il divorzio è una contraddizioni evidente con il precetto del “nessuno osi dividere ciò che Dio ha unito“.

Fin dalla Rivoluzione francese (definita dai papi “lo sconvolgimento delle Gallie“) il tema del divorzio viene sentito e ritrasmesso alle genti come un peccato mortale, come una offesa diretta a Dio prima ancora che alla Chiesa. La confessionalità della morale è ancora di più presa in considerazione da un clero che non intende in nessun modo aprirsi alle nuove esperienze laicali dei popoli che, pur tra molte contraddizioni, aprono all’Europa e al mondo una nuova stagione di diritti che non potranno più essere ignorati.

Così, la Chiesa si trincera nell’assolutismo della legge divina, condanna, anatemizza, scomunica e affigge proclami in cui il peccato mortale è il peccato morale, per cui si dovrebbe lentamente morire in vita subendo rapporti e costrizioni da cui si vorrebbe fuggire, obbligando uomini e soprattutto donne a rimanere vincolate ad un coniuge che non solo non amano ma che, il più delle volte, diventa la loro terrenissima dannazione.

E così, arriviamo all’oggi, alla nostra stretta attualità. Il Novecento è il secolo del confronto tra religiosità e laicità, è il tempo dei concordati per il superamento della “Questione romana“, è l’edizione e la riedizione (prima con Mussolini e poi con Craxi) di una stipula dei rapporti con il Vaticano da parte dello Stato italiano in cui il compromesso è un punto di avvicinamento tra il principio costituzionale dell’eguaglianza di tutte e tutti nella Repubblica e del rispetto di tutte le confessioni religiose. Un dato tutt’altro che scontato.

Fino ancora ai primi del secolo scorso, infatti, la Chiesa cattolica si riteneva l’unica depositaria della volontà divina su tutta la Terra ed escludeva il dialogo con altre confessioni religiose. Le circostanze hanno obbligato la Curia romana a divenire a più miti consigli e a prendere in considerazione, per potersi meglio adattare ai tempi, tanto il bilateralismo con le istituzioni repubblicane quanto quello con gli altri culti.

Nonostante ciò, il matrimonio è sempre e soltanto stato regolato sulla base del rapporto uomo-donna e le cosiddette “unioni civili” tra persone dello stesso sesso o altre forme di unione sono state definite “irregolari“, frutto di “accoppiamenti fatti per cieco istinto“.

L’omosessualità, da minoranza repressa e inespressa pubblicamente, da vizio privato diventava fenomeno naturale rivendicato come pieno diritto di espressione della propria essenza da milioni e milioni di persone e, sia per gli Stati, ma molto di più per la Chiesa (che continuava comunque ad influenzare le politiche laiche) si poneva ora una nuova frontiera, una nuova linea dietro cui trincerarsi o dalla quale avanzare.

Laicità, divorzio e ora il riconoscimento del matrimonio tra due uomini o due donne, oppure tra due persone transgender o bisessuali.

Le forme dell’amore, del desiderio, cornice di un sentimento negato ancora oggi da una parte dell’opinione pubblica che, proprio molto tradizionalmente e, quindi, anche cattolicamente, vede nella sola famiglia eterosessuale il fondamento della società che propone il trittico “Dio, Patria, Famiglia“, sfidano i pregiudizi secolari e, pertanto, anche il potere morale e civile, tanto religioso quanto laico.

Per poter reggere l’urto con la modernità dei tempi, il Vaticano utilizza tutti gli strumenti che può, trascurando le vistosissime incongruità con le sue passate condanne.

Dovremmo essere abituati alle abiure della Chiesa e alla riconsiderazione dei suoi tanti errori formulati sulla base di dottrine inventate per mantenere il Cristianesimo come fondamento di una società occidentale creata dalla grande cultura ellenistica in opposizione alla minaccia asiatica, prima persiana e poi arabo-islamica.

Ci sono voluti sei secoli perché la Curia romana ammettesse l’errore con Galileo. Molti secoli sono passati anche per la riabilitazione di Giordano Bruno (databile al 2022…) e, un po’ meno anni, ma alla fine i papi hanno (bontà loro) concesso la riabilitazione (ovviamente dal loro punto di vista…) per i tanti patrioti risorgimentali uccisi dal potere temporale in collaborazione anche con gli occupanti austriaci. Un nome tra tutti: il frate barnabita e garibaldino Ugo Bassi.

Partendo da queste considerazioni, è del tutto evidente che i tempi davvero “biblici” della Chiesa per aggiornare le proprie catechesi pretendono un cammino ancora più lungo se si tratta di ammodernare riti e liturgie che riguardano una pietra angolare del suo potere plurimillenario: la famiglia con, annessi e connessi, i rapporti che concernono i coniugi, i figli, amori, fidanzamenti, matrimoni, unioni di altro tipo.

Joseph Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e, successivamente, da pontefice qui sibi nomen imposuit Benedetto XVI, scriveva nelle “Considerazioni circa i progetti di riconoscimento delle unioni fra persone omosessuali” (datate 2003) che il tema riguardava la “legge morale naturale” derivante dal Creatore che ispirava la “verità” ovviamente “naturale” affidata dallo stesso al vincolo del matrimonio.

Che, nemmeno a dirlo, è santo, quindi sacro, “mentre le relazioni omosessuali contrastano” con tutto ciò. Non può esservi comprensione, tanto meno legale, per il diritto ecclesiastico in merito alla questione delle unioni omosessuali. Non può esservi altro se non una molto tiepida tolleranza.

Si potrà pensare che si tratti pur sempre di qualcosa, rispetto al nulla, rispetto alla condanna senza se e senza ma. Tenendo conto del fatto che, come sempre avviene quando si tratta di morale, la Chiesa la estende a chiunque, non riguardando solo quindi i credenti e, in senso ancora più stringente, i soli fedeli cattolici.

Sempre Ratzinger, divenuto ormai papa, in un discorso tenuto per il 25° anniversario di una fondazione in memoria di Giovanni Paolo II (al secolo Karol Wojtyla) dedicata niente di meno che alla famiglia e al matrimonio, fa corrispondere l’immagine del Dio trino ed uno, religiosamente monoteistico, alla monogamia matrimoniale: «Il matrimonio esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa».

Per Ratzinger i matrimoni omosessuali sono “il male“, la quintessenza dell’attacco relativistico ad una tradizione che si deve fondare soltanto sull’interpretazione cattolica del Vangelo.

Scrive Walter Peruzzi nella sua enorme ricerca su “Il cattolicesimo reale“, a questo proposito, che «…con la stessa arroganza di Leone XII o di Pio IX, Benedetto XVI trae dalle sue convinzioni religiose intorno a Dio, al monoteismo, al matrimonio monogamico e a un supposto “amore debole” […] la conclusione che si debbano vietare le unioni di fatto». E, si badi, non solo ai cattolici, ma a tutti i cittadini.

L’intromissione del Vaticano nella secolarità e nella laicità dello Stato italiano non è affatto una novità. Con Giovanni Paolo II e con Ratzinger raggiungerà vette eguagliabili solo a quelle del pre-Concordato.

La notizia, quindi, che Francesco abbia firmato una nota dichiarativa del Dicastero per la Dottrina della Fede in merito alla possibilità di benedire anche le unioni omosessuali, è certamente un segno in controtendenza che qualifica il pontificato di Bergoglio come, obiettivamente, quello più disposto al piano riformatore.

Però, attenzione: sia l’ex Santo Uffizio sia, quindi, il papa, non modificano la liturgia, non predispongono la Chiesa Cattolica al riconoscimento diretto e indiretto dei matrimoni LGBTQIA+. Nemmeno per idea. Sarebbe impossibile senza uno scisma da destra della grande comunità ecclesiale. E già questo piccolo passo creerà molti mal di pancia internamente al cattolicesimo.

Ma va riconosciuto a Francesco un certo coraggio, nonché una buona dose di pragmatismo unito ad una insistente ruffianeria del potere.

La chiesa moderna capisce di doversi nuovamente adattare ai tempi: se ha ammesso di essersi sbagliata sul geocentrismo un tempo, potrebbe domani non affermare, passo dopo passo, che, secondo il principio dell’intera umanità figlia dell’unico Dio, parte quindi di quel Creato che avrebbe lasciato increduli i greci che pensavano all’esistente come a qualcosa di increabile ma, invece, in continua mutazione e trasformazione, anche due uomini o due donne possono sposarsi con la benedizione ecclesiale.

Per ora l’enfasi creata è sufficiente a far ritenere che la rivoluzione dei diritti civili sia in marcia dentro le più alte sfere vaticane. Se associata al pacifismo e alla condivisione delle sofferenze dei migranti, fa apparire Francesco come un socialista vestito da papa. Pur sempre del pontefice si tratta. Se dovessimo trattare qui di aborto, di diritti civili a tutto tondo, di fine vita, potremmo trovare mille motivi per essere in contrasto con il successore di Pietro.

La benedizione delle coppie omosessuali è una eccezione, una disposizione che la Chiesa adotta per le “coppie in situazioni irregolari” (sono sempre loro a determinare cosa sia moralmente regolare e giusto e cosa invece non lo sia…) e, sebbene possa sembrare un passo in avanti verso una riconsiderazione dell’amore in quanto tale, al di là di eterosessualità e famiglia cosiddetta “tradizionale“, per ora rimane una astuzia per evitare che parti importanti tanto del clero quanto dei laici si allontani dalla Curia romana.

Belgio e Germania, tra gli altri, sono paesi in cui le iniziative autonome dei prelati in favore delle persone omo e transessuali, proprio in materia di riconoscimento delle loro unioni, hanno in qualche modo spinto il Vaticano a “legiferare” in tal senso. E’ dunque dalla base o dal vertice della Chiesa che proviene l’innovazione? E’ una domanda che, per ora, rimane sul tappeto della stretta attualità.

Ma, di sicuro, la lotta ininterrotta per l’affermazione dei diritti civili universali, il suo non poter più essere elusa, ha smosso le acque.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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