Andrea Romani

La radice esistenziale del capitalismo è la negazione della presenza dell’altro, sia esso umano o non umano, a vantaggio dell’estrazione massima di profitto: nient’altro che l’esplicitazione di un senso di onnipotenza e competizione tra il singolo e il resto dei viventi.

Vi sono, per fortuna, ancora tante persone che tentano di coltivare relazioni sociali e politiche votate all’erosione di questo sistema che aliena e annichilisce l’essere umano e non.

Vi è, per sfortuna, un dramma politico-antropologico che investe tutta la società, comprese quelle parti di essa in cui si proclama di voler erodere questo sistema. Il dramma è sintetizzato così da Mark Fisher (2017):

“L’ideologia capitalista in generale, continua Žižek, consiste precisamente nella sopravvalutazione del «credo» inteso come atteggiamento interiore soggettivo, a spese di quanto professiamo ed esibiamo coi nostri comportamenti esteriori. Fintantoché, nel profondo dei nostri cuori, continuiamo a credere che il capitalismo è malvagio, siamo liberi di continuare a partecipare agli stessi scambi propri del capitalismo.” (p. 45)

In sostanza, sta dilagando da anni un mutamento antropologico per il quale è sempre più comune per ogni attore sociale asserire “a” e contemporaneamente performare non “a”. Questo vale anche quando “a” sta per anti-capitalismo, pacifismo o simili ideologie che direttamente o quasi si prepongono di erodere il capitalismo come forma di relazione dei viventi.


Sono una persona particolarmente attiva nel mondo dell’associazionismo, movimentismo e dei partiti anticapitalisti e pacifisti.

Da ieri sto affrontando personalmente un lutto di una persona vicina.

Nell’arco di 24 ore, mi è capitato di interagire tramite chat o chiamata con due persone da gruppi politici o associazionistici a cui partecipo con frequenza. Durante queste interazioni, ho spiegato che per qualche giorno non avrei potuto partecipare o contribuire in nessun modo alle attività politiche e sociali che condividiamo per ragioni di lutto. Entrambe hanno risposto freddamente senza neanche fare le condoglianze (né tantomeno chiedere come mi sentissi o come stessi), semplicemente registrando la mia assenza, come se la qualità di questa dovesse misurarsi solo in base alla mia capacità performativo-sociale rispetto alle attività “anticapitalistiche” o “pacifiste”.

Qual è il senso politico di organizzazioni che chiedono di impedire la “morte a Gaza” o contrastare l’“alienazione” dal capitale, se queste escludono dalle loro pratiche sociali semplici condoglianze in segno di riconoscimento del lutto affrontato da un partecipante?

Che politica è quella che, in linea esatta con l’ideologia capitalista, predica “a” mentre semina non “a”?


Ritengo che questi comportamenti singoli non siano responsabilità o mancanze individuali di chi li ha performati, ma sintomi evidenti di una faglia schizoide che attraversa tutto la nostra società e che presto diventerà paradigma assoluto del sociale. A meno che non apriamo una crisi esplicita e consapevole rispetto a cosa significa fare “politica” nel capitalismo contemporaneo quando il suo potere si riproduce proprio grazie a questa scissione praticata da tutte e tutti, anticapitalisti, pacifisti e non. Una crisi che richiede attenzione “terapeutica” e tanto coraggio di cambiare. E forse il cambiamento può arrivare solo riconoscendo la nostra fragilità, i nostri limiti, la nostra mortalità. E in questo la pratica del cordoglio non può che aiutare.*


Vi sono, per sfortuna, l’inerzia dell’abitudine e la potenza affettiva della mimesi sociale che stanno facendo proliferare questo virus schizoide del sociale.
Vi sono, per fortuna, la meraviglia della rinascita e la bellezza liberatoria del cambiamento che possono invertire la rotta quotidiana dei nostri gesti.

Questa meraviglia e bellezza fioriscono ogni volta che una parte di noi dice “no” alle abitudini e all’imitazione dell’agire consumistico, lavorista, competitivo ed egoista. Questo “no” apre alla carità, al riconoscimento della condizione umana comune e quindi a un modo di esistere con gli altri che è già oltre quello capitalistico segnalato in apertura.

Dato che questa scissione tra il credere e l’agire sono evidente prodotto del mutamento antropologico legato al consumismo, mi sembra opportuno recuperare il messaggio del più noto e più profondo critico del consumismo in Italia, Pier Paolo Pasolini (2021).

Nel Settembre del 1968, registrando e augurandosi uno scisma all’interno della Chiesa Cattolica, Pasolini scriveva le seguenti osservazioni, che ora più che mai possono sollevarci con lucidità e amore. Queste parole valgono oggi per tutta la parte di società che dichiara di voler erodere il capitalismo e coltivare un altro mondo, senza alienazione e oppressione.

“Ricorrerò a San Paolo. Nella Prima Lettera ai Corinti, si legge questa stupenda frase (non tutto in Paolo è stupendo, spesso parla in lui il prete, il fariseo): “Restano fede, speranza e carità, queste tre cose: di tutte la migliore è la carità”.

La carità – questa “cosa” misteriosa e trascurata – al contrario della fede e della speranza, tanto chiare e d’uso tanto comune, è indispensabile alla fede e alla speranza stesse. Infatti la carità è pensabile anche di per sé: la fede e la speranza sono impensabili senza la carità: e non solo impensabili, ma mostruose. Quelle del Nazismo (e quindi di un intero popolo) erano fede e speranza senza carità. Lo stesso si dica per la Chiesa clericale.

Insomma il potere – qualunque potere – ha bisogno dell’alibi della fede e della speranza. Non ha affatto bisogno dell’alibi della carità. L’abitudine alla fede e alla speranza senza carità è un’abitudine difficile da perdere. Quanti cattolici, diventando comunisti, portano con sé la fede e la speranza, e trascurano senza neanche porsene il problema, la carità. É così che nasce il fascismo di sinistra.

Lo scisma verrebbe dunque a dividere la Chiesa Cattolica in due tronconi: nel primo resterebbero solo la fede e la speranza, cioè le due informi e cieche forze del potere; nel secondo resterebbero la fede e la speranza con la carità.” (pp. 44, 45).

*Non è forse un caso che entrambe le persone in questione fossero persone educate come “uomini”.

Vi è tanta letteratura, studio e movimento femminista a sottolineare la centralità politica del lutto come momento che apre all’emancipazione e alla liberazione.

Ottocento anni fa le donne fuori dalla casa di Beatrice chiedevano a Dante di non piangere per la morte del padre di questa, sostenendo che il lutto fosse affar femminile e non maschile. A Dante, in quanto “uomo”, era proibito partecipare socialmente alla pratica del cordoglio e del lutto. Forse, se vogliamo davvero cambiare questa società, questa pratica deve diventare affar di tutte e tutti, finché siam qui.

FONTI:

Fisher, M. (2017), Realismo Capitalista, Nero.

Pasolini, P.P. (2021), I grandi interventi civili, Garzanti

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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