Excursus su Hannah Arendt e il sionismo: dalla giovanile collaborazione alla critica sempre più aspra e alla profetica denuncia dei rischi di guerra permanente e apartheid insiti nel concetto e nella messa a terra dello Stato ebraico

Hannah adorava conversare in greco antico, ma era una ragazza pratica, aveva un buon rapporto con la vita, a differenza del caro amico Walter. Cioè si prendeva con voracità tanto il piacere quanto il rischio («amore per il mondo», lo chiamerà poi). Gli piaceva il suo famoso professore e se lo fece, senza badare troppo al sentimentalismo ginnasiale delle sue lettere e alle balzane idee politiche. Non cedette neppure al magnetismo del pensiero e certo trovò divertente, in seguito, capovolgere la fascinazione per la morte autentica e personale in impersonale elogio della natalità, l’introspezione esistenziale in pubblicità dell’azione. Più tardi gli perdonò il nazismo, perché considerava, a ragione, il perdono più forte della vendetta – e il vecchio se ne sentì umiliato, tacque. Non sopportava i nazisti di Berlino e detestava sentirsi vittima “innocente” (ovvero impotente) e quindi si buttò in attività clandestine di controinformazione uscendone per il rotto della cuffia. Innocenza, destino e morte sono esperienze impolitiche, il margine sordo del pubblico-mondano. Lavorava in contatto con strutture sioniste, senza mai crederci troppo, ma bisognava pure darsi da fare con quello che c’era, reagire da ebrei e non da essere umani generici quando si era perseguitati in quanto ebrei.

Nel frattempo aveva rivisto – a un ballo in maschera, sempre “per amore del mondo” – Günther, già collega a Marburg e apertamente critico dell’antico professore, se lo sposa, scappano entrambi dalla Germania, vanno d’accordo per le idee ma non tanto nel resto e, sempre nel turbolento esilio, si accasa definitivamente con lo spartachista Heinrich, che ha fatto le sue esperienze rivoluzionarie e non è affatto “innocente”. Ha reagito ai nazisti da ebrea perché così era giusto fare, ma vuole rifletterci sopra e i suoi rapporti con il sionismo si deteriorano sempre più fino alla rottura nel 1942, quando contrappone, per fuoriuscire dall’assimilazionismo impolitico, il progetto di Lazare, che cerca compagni d’arme politici contro l’antisemitismo fra gli oppressi, al sionismo nazionalista di Herzl, che punta alla protezione delle grandi potenze e alla paradossale complicità degli antisemiti per l’esodo in Palestina. Prima della proclamazione dello Stato di Israele Hannah si schiera con il minoritario Ihud di Magnes, fautore di una struttura federale bi-nazionale e della cooperazione con gli Arabi. Pensa che la “patria” (non “lo stato”) ebraica deve fondarsi sul socialismo agrario pionieristico dei kibbutzim e sul polo culturale dell’Università di Gerusalemme, evitando di trasformarsi in una Sparta armata fino ai denti con gli Arabi quali iloti all’interno e nemici implacabili fuori dei confini.

Durante la guerra del 1947-1948 e soprattutto dopo gli attentati di Haifa e la strage di Deir Yassin denuncia indignata la subordinazione di fatto del gruppo dirigente ufficiale di Ben Gurion al revisionismo di Žabotinskij con l’accettazione di fatto del progetto di una Grande Palestina da cui gli arabi siano espulsi o ridotti a cittadini di serie B. Con la conseguenza di un’inevitabile protezione Usa e di diventare un avamposto dell’imperialismo in un’Asia anteriore “balcanizzata”.

Ma fa di più. Si costruisce poi un’autobiografia immaginaria con la biografia dell’ottocentesca Rahel Varnhagen, cultrice di Goethe, assimilata ma tormentata in sogno dalla “vergogna” dell’origine ebraica non smacchiata dal successo mondano. Rahel all’inizio è il tipo della parvenue di successo, dell’assimilata “riuscita” ma accolta “per eccezione” sempre revocabile, sempre sull’orlo di ricadere nella personale “malasorte” del suo destino da Schlemil senz’ombra, solo dopo il suo incontro con il giovane Heine si farà carico del suo essere pariah, della sua solidarietà ideale con gli oppressi e i ribelli – una condizione che con la persecuzione nazista e la Seconda guerra mondiale verrà condivisa con i profughi, i discriminati e le displaced persons di ogni razza e classe: oggi con i migranti. Solo gli schiavi delle galere si conoscono veramente.

Dopo la guerra e il trasferimento negli Usa, Hannah era tornata di frequente in Europa (non manca neppure di rivedere il perdonato Martin) e finalmente visita Israele, quando le commissionano un reportage sul processo del ferroviere-capo di Auschwitz che gli costò l’ira furente dell’establishment locale – Hannah è per decenni una dei giganti ebrei più censurati e invisi in Israele, come il figlio del falegname di Nazareth e lo scomunicato marrano di Amsterdam.

Perfino un vecchio interlocutore, Gershom, le rimprovera la mancanza di Ahabath Israel, l’amore per il popolo ebraico, che si desume dalla «derisione del sionismo». Hannah replica pungente, in primo luogo appellandolo «caro Gerhard» – del resto lo faceva d’abitudine anche l’amico Walter. E che cazzo, Hannah ha imparato l’ebraico, scrive ormai in inglese, ma non dimentica la comune lingua madre, la lingua che è la patria rimasta a ogni apolide, perfino se è il tedesco, e allora sia Gerhard!, ed è il luglio 1963. La mia ebraicità è fuori discussione, è un dato di fatto, di quelli che sono fysei (per natura) e non nomô (per convenzione, per scelta) – a Marburg parlavo greco, ricordatelo (sottintende). Tuttavia hai ragione, non sono animata da nessun “amore” di tal genere e in tutta la mia vita non ho mai “amato” nessun popolo o collettività, amo solo i miei amici e la sola specie di amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone. Tutto sommato Hannah aveva avuto parecchi amici notevoli, un paio di mariti di prim’ordine e qualche amante niente male, ma soprattutto non potrebbe mai “amare” il popolo ebraico perché sarebbe davvero sospetto amare come qualcosa di esterno una parte di se stessa. E poi rincara la dose ricordando una sua recente conversazione con Golda (le due donne si detestavano a pelle). Golda cerca complicità, viste le polemiche sul processo e quella maledetta è internazionalmente famosa: eh, sono socialista (come te) e “ovviamente” non credo in Dio, ma nel popolo ebraico. Hannah lì per lì resta senza parole, ma adesso coglie la palla al balzo e a freddo, lei atea, replica con grande retorica che la grandezza di questo popolo consisteva un tempo (prima del sionismo) nel fatto che credeva in Dio in modo tale che la sua fiducia e il suo amore in Lui superavano il suo timore. E adesso crede solo in se stesso? Cosa può venirne di buono? Io, appunto, non “amo” gli Ebrei e non “credo” in essi, sono semplicemente una di loro.

Quanto ci insegna ancora oggi l’arrogante estremismo di Hannah nel suo duplice movimento di presa di posizione pubblica per combattere ogni privilegio (essere un paria, una schiava riottosa ai remi) e di negare ogni identità immanente di popolo.

Che arrivi dalla sua autodefinizione di ebrea a contestare la pratica sionista (come, per altre vie, farà il Bund proletario e yiddish fino all’epopea della rivolta del ghetto di Varsavia) è un fatto rilevante perché si fa carico della differenza per ricomporla nell’assemblaggio della moltitudine e offre così una sponda ontologica alle soluzioni politiche multinazionali sia in Palestina che nella diaspora.

Contro le logiche piatte dell’assimilazionismo e le logiche stragiste di un eccezionalismo sionista fondato sul presunto antisemitismo eterno e del suo opposto complementare, l’integralismo islamico jihadista. Contro ogni comunità fusionale di destino e di martirio, contro i miti luttuosi e vittimari di Masada e dello shaid.

Cosa direbbe oggi la ragazza Hannah possiamo immaginarcelo. La guerra permanente, la prepotenza colonica e coloniale l’aveva già tutta prevista e le aporie di una federazione bi-nazionale pure, oggi aggravata e resa impraticabile dalla frammentazione della Cisgiordania e dallo spianamento di Gaza. Dubito che accoglierebbe con entusiasmo due stati distinti (uno dei quali subalterno e disarmato), cioè il raddoppio infelice del nazionalismo statale sulla base di una ostile sorveglianza reciproca nel migliore dei casi, di un bantustan satellite in regime di apartheid nel più probabile. Nella piccola Palestina, dal fiume al mare appunto, sovraffollata dal persistente flusso di olim ebrei e dalla richiesta di ritorno degli espulsi arabi della Nakba e discendenti, non c’è spazio per stati nazionali di tipo tradizionale e di postura “balcanica”. D’altra parte fu utopia fallimentare negli anni ’40, sembra impossibile oggi – in entrambi i casi perché rivela, in un lembo di terra, «l’aiuola che ci fa tanto feroci», la contraddizione insanabile di quel relitto arcaico e infetto che è lo stato-nazione. Il circolo della vendetta reciproca ripetitiva (cioè l’opposto dell’agire politico che innova e costruisce) può essere rotto soltanto dalla promessa e dal perdono. Entrambe sembrano oggi remote (il fallimento di Oslo e il pogrom reciproco), ma la via d’uscita è sempre quella, non si scampa. Le alternative sono l’apartheid, il genocidio praticato e quello desiderato. In un’area strategica queste infamie sono il preludio di un conflitto solo all’inizio di carattere regionale.

P.S. Ogni anno la Fondazione Heinrich Böll, legata ai Verdi, assegna, insieme alla città di Brema, il prestigioso premio Hannah Arendt. Quest’anno è toccato all’attivista Lgbtq+ non binaria russo-ebrea Masha Gessen, costretta ad abbandonare la sua terra per le critiche a Putin. Ultimamente, però, Masha aveva scritto per il “New Yorker” un articolo, All’ombra dell’Olocausto, in cui condannava la risoluzione del Bundestag tedesco, che qualificava il movimento di boicottaggio d’Israele (BDS) come movimento antisemita, e definiva Gaza un ghetto, i cui abitanti avevano il diritto di ribellarsi, come gli ebrei a Varsavia nel 1943, e che del pari erano stati massacrati senza pietà. Dopo una lettera di protesta a “Die Zeit” della Deutsche-Israelische Gesellschaft (Dig), che in sostanza accusava la dissidente di antisemitismo, la Fondazione ha ritirato il proprio appoggio a Gessen e gli organizzatori di Brema, hanno optato per un compromesso, prima rinviando l’assegnazione, poi spostandola in una sede semi-clandestina.

Giusto ostracismo, in quanto anche Hannah, come Masha, era una figlia “infedele” del suo popolo e chiunque critichi il sionismo e le politiche israeliane ricade nella categoria di antisemitismo in quanto difende il più alto concetto ebraico di giustizia. Mai come in questo caso un cattivo uso della memoria produce un eccezionalismo tedesco, fondato sulla passione triste del rimorso, che colpisce, per paradosso due figure eminenti dell’ebraismo non-sionista e “compensa” una persecuzione genocida con un’altra persecuzione genocida. Cui vergognosamente si accodano i seguaci italiani del fucilatore e antisemita Almirante, che non possono giustificarsi con un eccesso di rimorso.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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