Giuseppe Libutti

Quando parliamo di beni comuni andiamo a toccare uno dei principi cardine dell’organizzazione sociale in Europa, ossia la proprietà in senso privatistico; di conseguenza, si lancia una sfida ad un istituto giuridico intorno al quale si compongono interessi di tipo speculativo.

Ma quando ci troviamo dinanzi ad un bene comune? Paolo Maddalena, Vicepresidente emerito della Corte costituzionale, chiarisce che un bene comune è tale quando consente in modo diretto l’esercizio dei diritti fondamentali. I beni comuni, dunque, segnano una relazione stretta tra una comunità di abitanti e l’esercizio che quella comunità fa dei suoi diritti fondamentali. Questo è un punto essenziale in quanto, in assenza di correlazione tra cittadini e diritti, la parola bene comune sta a significare una trappola retorica per far avanzare la speculazione edilizia e la sottrazione di beni alla comunità.

Maddalena aggiunge un passaggio formidabile nella sua definizione quando dice che i beni comuni servono immediatamente la collettività, la quale è ammessa istituzionalmente al godimento non esclusivo e partecipato di questi beni. Il dispositivo di tale definizione ci dice che i cittadini sono direttamente chiamati in causa nella cura e nella gestione dei beni.

È indubbio che il termine bene comune è entrato a far parte del linguaggio collettivo, anche se il significato che esso assume è di volta in volta differente e bisogna stare molto attenti nel valutare l’uso che se ne fa. Un esempio è fornito dalla Legge regione Lazio sui beni comuni n. 10 del 2019.

All’epoca, infatti, la Giunta Zingaretti annunciò trionfalmente di aver consegnato alla Regione Lazio, muovendosi nel solco tracciato da Rodotà, una legge sui beni comuni. L’allora consigliera regionale Marta Bonafoni, che insieme alla collega Marta Leonori se ne intestò la formulazione, dichiarava come la legge fosse: “ispirata ai lavori della commissione Rodotà, più volte evocato al momento dell’approvazione, che a sua volta nasceva dal grandissimo movimento referendario che nel 2011 ha portato 27 milioni di cittadini a votare per i beni comuni”.

A quasi cinque anni dalla sua approvazione, giova fare una breve analisi di questa legge, sia per esaminare alcuni contenuti essenziali sia per verificarne l’effettiva applicazione. Ciò è utile al fine di comprendere gli sviluppi che ne sono seguiti; questo “modello” è stato, infatti, riproposto anche dall’amministrazione progressista Gualtieri.

All’articolo 2 delle legge regionale è scritto che possono essere cittadini attivi “tutti i soggetti, compresi i bambini, singoli e associati o comunque riuniti in formazioni sociali o di natura imprenditoriale che, indipendentemente dai requisiti formali riguardanti la residenza o la cittadinanza, si attivano, anche per periodi di tempo limitati, per la cura, la gestione o la rigenerazione dei beni comuni in forma condivisa, anche con capacità organizzativa e di mobilitazione di risorse umane, tecniche e finanziarie”. I cittadini attivi, per intendersi, sono quei soggetti che, attraverso la stipula di patti di collaborazione, possono gestire i beni comuni secondo accordi, anche di natura commerciale, che di volta in volta il privato stipulerà con la pubblica amministrazione.

Ebbene, nulla di più lontano da quanto sancito da milioni di italiani con il Referendum del 2011, ossia fuori i privati dalla gestione dei beni comuni.

Questa legge prevede, inoltre, di istituire nella “piattaforma digitale regionale dati”, una sezione denominata “amministrazione condivisa dei beni comuni”, in cui sostanzialmente dare trasparenza ai processi di assegnazione dei beni comuni; purtroppo, dal 2019 ad oggi questa piattaforma è ancora “in costruzione”, come facilmente verificabile al seguente link | AMMINISTRAZIONE CONDIVISA BENI COMUNI-BENI COMUNI REGIONE LAZIO | Regione Lazio. Risulta, quindi, pressoché impossibile a chicchessia conoscere quanti e quali sono stati i patti di collaborazione stipulati in questi anni dalla Ragione Lazio, con buona pace degli auspici di partecipazione e trasparenza della legge stessa.

Per quanto attiene lo stretto legame tra la comunità di cittadini ed il godimento dei diritti fondamentali, esso è stato del tutto perso di vista dal legislatore regionale a vantaggio dell’ingresso nella gestione del patrimonio dei privati commerciali.

Questo percorso non ha scoraggiato l’amministrazione Gualtieri dall’emanare un nuovo regolamento sui beni comuni improntato sul modello regionale.

Il 23 maggio 2023 l’Assemblea capitolina ha, infatti, approvato all’unanimità il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni materiali e immateriali di Roma Capitale. “Grazie a questo innovativo strumento”, riporta il sito del Comune, “da oggi la cittadinanza e l’amministrazione possono operare insieme per la cura, rigenerazione e gestione dei beni comuni della città, in modo agile, trasparente e collaborativo”.

A farsi promotore del regolamento è stato l’assessorato alla partecipazione ed ai servizi per il territorio per la “Città dei 15 minuti”.

C’è da chiedersi se davvero Roma Capitale avesse bisogno di questa delibera, visti gli sviluppi che di seguito si andranno a specificare, in merito alla gestione del patrimonio pubblico di sua proprietà. È utile ricordare che già durante la Giunta Raggi il Partito Democratico aveva provato a introdurre una delibera sui beni comuni bocciata dall’allora maggioranza e da parte dell’opposizione, tra questi Stefano Fassina di Sinistra per Roma.

La bocciatura derivava proprio dalla mancata trasparenza della Legge regionale e dalla privatizzazione dei beni comuni che essa conteneva.  

La dimostrazione della scarsa utilità pratica del Regolamento sui beni comuni è data anche dalla situazione che si sta vivendo a Roma, caratterizzata dalla battaglia di resistenza portata avanti da numerose realtà associative romane, tra cui spicca C.A.I.O. – Comunità per le Autonome Iniziative Organizzate – a difesa degli spazi pubblici.

Queste realtà sono impegnate in una vertenza per la salvaguardia degli spazi sociali iniziata sotto la giunta Marino che sta proseguendo con picchi quasi grotteschi con l’attuale amministrazione, nonostante Gualtieri, tra gli innumerevoli proclami elettorali, avesse promesso una soluzione soddisfacente nell’interesse della città.

Ebbene, per questi spazi il dipartimento patrimonio ha adottato la delibera n. 104 del 2022 che si rifà a categorie pre-costituzionali, ossia alla distinzione tra patrimonio disponibile ed indisponibile contenuta nel Codice Civile.

Ancora una volta, quindi, dobbiamo porci una domanda: a cosa serve la delibera sui beni comuni se agli spazi sociali, che agiscono a difesa del patrimonio pubblico, viene applicata un’altra delibera che non contempla i beni comuni ma addirittura si rivolge a classificazioni antecedenti alla Costituzione?

Ed ancora: se la delibera sui beni comuni non si applica a questi spazi a quali beni si applica?

Occorre anche evidenziare che la mera distinzione catastale tra patrimonio disponibile ed indisponibile fu superata già dal Sindaco Rutelli nel 1995, il quale aveva riconosciuto legittimità agli spazi sociali di Roma, partendo da un presupposto anche di tipo pratico: ossia che sul territorio di Roma insiste innumerevole patrimonio abbandonato che può essere utilizzato dalle associazioni per fini sociali. Il risultato è stato il riconoscimento di questi presidi di cittadinanza attiva e democraticità, nonché il loro valore sociale.

Quindi, non serviva neanche essere rivoluzionari per dare legittimità a questi spazi in conformità alla Costituzione. Questa nuova delibera, invece, li ha messi a bando, innalzando anche il canone di concessione.

Le ragioni dell’aumento dei canoni sono piuttosto singolari poiché vengono imputate all’incremento del valore commerciale di questi luoghi, dovuto alle ristrutturazioni, alla manutenzione e alla cura operate da coloro che hanno per anni animato questi spazi, considerandoli realmente presidi territoriali da aprire alla collettività, molto spesso salvandoli da incuria e abbandono. Parliamo di palestre popolari, teatri, centri di aggregazione e socialità, che hanno contribuito in maniera profonda e significativa alla tenuta sociale e comunitaria di una città in continua e disarmonica espansione, esasperata dall’inadeguatezza e dall’inefficienza dei servizi, incattivita da una povertà crescente e da una miseria culturale diffusa.

In seguito alla messa a bando per il rinnovo delle concessioni di questi luoghi, con relativa richiesta di saldare debiti pregressi, è scaturita anche una importante campagna di raccolta fondi per la Palestra popolare S. Lorenzo, la prima palestra popolare a Roma e in Italia. Questa mobilitazione spontanea e dal basso, che ha coinvolto anche personalità del mondo della cultura, ha dimostrato ancora una volta quanto sia distante la politica istituzionale dalla sensibilità e dai bisogni reali delle persone che questi spazi li fruiscono.

Il Sindaco Gualtieri e la sua giunta avrebbero potuto, come annunciato quando erano in cerca di voti, sanare finalmente e definitivamente queste contraddizioni. Ma è stata scelta, ancora una volta, la strada della propaganda.

La giunta “taglia nastri” ha preferito approvare provvedimenti con nomi altisonanti che poco aiutano o interessano alla cittadinanza. A ciò si aggiunge che, che con il pretesto dei beni Comuni così come disciplinati dalla Regione Lazio, si è data la possibilità, nel silenzio più totale, al privato commerciale di gestire i beni pubblici in assenza di meccanismi di pubblicità e trasparenza. È preoccupante la via intrapresa dal partito democratico e dai suoi alleati su questo tema, poiché dimostra ancora una volta la vera e propria sudditanza al pensiero neoliberale.

Questa colpevole miopia dell’attuale giunta denota la mancanza di prospettiva per Roma poiché anche dalla sopravvivenza di questi spazi dipende anche il futuro della città. Una buona disciplina sulla gestione del patrimonio pubblico, invece, avrebbe potuto portare ad immaginare e costruire una città migliore e più giusta, partecipata da donne e uomini che amano Roma e che tanto hanno dato per essa.

La via per riconoscere gli spazi c’è, con una base di conoscenza e di buona volontà si sarebbero potuti fare grandi passi in avanti in tal senso.

L’articolo 118 della Costituzione, con il principio di sussidiarietà in esso contenuto, e l’art. 3 della Legge 267 del 2000 chiariscono che le amministrazioni svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dall’autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali.

In questo senso i beni comuni si “fanno istituzione” e di conseguenza ogni centro liberato dall’abbandono e restituito ai cittadini è un’istituzione che svolge funzioni costituzionali legate ai diritti fondamentali.

Basta partire dalla Costituzione e abbandonare derive apertamente liberiste per riconoscere la legittimità anche politica agli spazi recuperati.

Una scelta in tal senso però richiederebbe un’impostazione politica e culturale che manca a chi governa Roma oggi, esattamente come manca una visione della città per il futuro che vada oltre le “grandi opere”, spesso inutili per la cittadinanza.

Di questo discuteremo sabato 27 gennaio dalle ore 10:30 presso la Palestra Popolare di San Lorenzo, Via dei Volsci 94, chiamando a raccolta le forze democratiche e i cittadini e le cittadine che hanno a cuore la gestione pubblica del patrimonio per promuovere insieme un percorso che da una parte sia di salvaguardia degli spazi attualmente sotto attacco e, dall’altra, costringa l’amministrazione a ritirare delibere e regolamenti che penalizzano la partecipazione.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy