Spesso, quando si fa riferimento a date epocali, che hanno segnato uno spartiacque nella continuità esistenziale umana, in quella che apparirebbe come la “vita di tutti i giorni“, ci si immagina che a far data da quel preciso istante o giorno tutto sia immediatamente cambiato. Il 4 luglio 1789 la Francia, improvvisamente, sarebbe divenuta altro da quella che era: abolizione dell’Ancien régime, nuova era universale, cambiamento radicale. Come se fosse un fuoco di paglia un po’ più fortunato di altri.

Questa è la Storia raccontata a mo’ di favoletta: i primi rudimenti possono anche avere questo taglio descrittivo semplicistico. Ma poi, ci si deve rendere conto che ogni passaggio da una società ad un’altra, da un regime ad un altro, ha avuto bisogno di parecchio tempo per poter crescere e diventare ciò che sarebbe ben presto apparso al mondo. Le rivoluzioni, più di tutti gli eventi umani, sono processi che paiono esplodere d’improvviso e che, invece, sono il prodotto di decennali, se non secolari, cumulazioni di ingiustizie, insoddisfazioni, privazioni e malversazioni.

Così, appena dopo che i parigini hanno preso d’assalto l’antica fortezza-prigione e e hanno issato sulle picche le prime teste dei comandanti e dei soldati che la difendevano, nulla si è veramente ancora rivoltato del tutto e per sempre. Ammesso che la conquista dei diritti sociali, civili ed umani possa essere data per acquisita in un tempo così dilatato, affidata a chissà quale protezione volontaria che prescinderebbe dal singolo attimo di vita di cui godiamo su questa Terra.

Sono passati quasi due secoli e trentacinque anni da quella Rivoluzione che Hegel magnificava come un “superbo levarsi del sole“. Eppure, mentre gli accadimenti si susseguono, dopo che viene abolita la monarchia, dopo il processo al re e poi alla regina, dopo il taglio delle loro teste che, non solo simbolicamente, recide i legami con il dispotismo assolutista del passato, nella Francia dei club dei cordiglieri, dei giacobini e dei girondini, il dibattito sui diritti è tutto aperto e niente è dato per scontato. A cominciare dal rapporto tra donna e uomo, tra donna e istituzioni, tra donna e società.

Quello che noi oggi chiamiamo “patriarcato“, denunciando un sistema di potere che si sorregge e che alimenta una concezione predominante dell’uomo e del maschio in ogni ambito della società, considerando la donna una appendice di sé stesso, un prolungamento della volontà propria e non un soggetto con uguali diritti e doveri in tutto e per tutto, allora era ben lontano dall’essere un residuo del passato. Si trattava del presente nell’Ancien régime, si è trattato per molto tempo di uno scontro anche politico nel corso degli sviluppi rivoluzionari. Tanto in Francia quanto in Europa.

Nei primi giorni di fermento popolare, madame B.B., che probabilmente vive abbastanza agiatamente in una casa del sud dell’Occitania, a Caux, nel suo cahier de doléances femminile si lamenta senza mezzi termini: «Ma bisognerà che noi donne di debba sempre lavorare, obbedire e tacere?»¹. La signora lamenta il fatto che la donna del 1789 è considerata dall’uomo come incapace di autogestirsi, di provvedere a sé stessa: l’immagine è quella del carattere debole, della fragilità che si evince proprio nei momenti in cui avvengono le gravidanze.

Insomma, la moglie pre-rivoluzionaria è quella che noi oggi definiremmo “stereotipata” della donna seduta accanto al caminetto, silenziosa e magari pure in preghiera. Questa immagine era la raffigurazione reale di condizioni di esistenza femminile arrivati fino a metà del Novecento anche in Italia e non soltanto, per uscire un po’ dai preconcetti fisiologici di un certo razzismo, nel meridione. Non solo la donna della Francia rivoluzionaria deve lottare per la propria emancipazione, che non è affatto un dato scontato, un elemento di progresso che il grande capovolgimento istituzionale, politico, sociale ed economico porta con sé.

La donna francese deve convincere anzitutto proprio i più ferventi esponenti del nuovo governo e dell’Assemblea nazionale a iniziare a riconsiderare i rapporti interpersonali tra i sessi. E non si tratta soltanto di una questione che riguarda l’emotività, la ragione, i sentimenti, l’empatia, la generazione dei figli, la cura della famiglia e così via dicendo. Si tratta pure della gestione dei beni, delle proprietà: case, soldi, beni dotali, tutto è del marito. Niente è della moglie.

La risposta dei giacobini ai movimenti femminili (è un po’ presto per utilizzare il termine “femminismo“…) è pari a quella un po’ primitiva dei sanculotti: paradossalmente, una avanguardia del pensiero come quella rappresentata da Rousseau, diviene il presupposto ideologico della conservazione di quasi tutte le prerogative considerate maschili e tali in quanto unicamente privilegio dell’uomo. Per cui, nel solco del filosofo ginevrino, si afferma con piglio rivoluzionario e candore al tempo stesso che «è nell’ordine naturale delle cose che la donna obbedisca all’uomo».

L’inferiorità femminile è reputata una oggettività naturale, tanto quanto la Chiesa considera la donna come costola adamitica, parte del maschio per volontà divina e, pertanto, soggetta al volere del marito senza se e senza ma. Chaumette, procuratore generale sindaco della Comune di Parigi, ancora nel 1793, in pieno consolidamento dei valori rivoluzionari dentro la Repubblica e al di fuori dei suoi confini nei territori liberati dai dominatori austriaci e piemontesi, dichiara pubblicamente:

«È detestabile, è contrario alle leggi di natura che una donna voglia farsi uomo […]. Da quando è permesso alle donne di abiurare il loro sesso e farsi uomini? Da quando si usa che la donna abbandoni le cure pietose della sua casa, la culla dei suoi figli per andare sulle pubbliche piazze, sulla tribuna, a far prediche? La natura ci ha forse dato dei seni per allattare i nostri figli? E’ la natura che dice alla donna: “Sii donna!”».²

Letto oggi, il discorso di Chaumette potrebbe perfettamente rientrare nel contesto di qualche Family day di casa nostra, di comizi di estrema destra. Altro che rivoluzione! Se esistesse una macchina del tempo, Chaumette, teletrasportato nel 2024, si troverebbe d’accordo con Salvini, Le Pen, Orbàn, Milei, Trump. Ed infatti noi sbagliamo quando pretendiamo di considerare con le categorie politiche dell’oggi i fatti di due secoli e mezzo fa. Ma non ci inganniamo affatto se affermiamo che la Rivoluzione, presto o tardi, avrebbe prodotto dei mutamenti di più lungo corso.

Anche e soprattutto in materia di libertè e fraternitè, in materia di diritti civili. La Rivoluzione francese transiterà dalla teorizzazione dei diritti delle donne all’attivismo pratico, alla considerare la società come non qualcosa di esclusivamente dirigibile dall’uomo, ma da tutti. Quindi da tutte. La figlia adulterina di un marchese, Olympe de Gouges, sul finire del 1791, quando la Repubblica ancora non è nata e le truppe straniere premono ai confini della Francia per rimettere a posto le cose, scrive una “Déclaracion des droits de la femme et de la citoyenne“.

La figura maschile ne esce impietosamente descritta. Ma, del resto, l’acredine c’è da entrambe le parti: basti ricordarsi dei proclami di Chaumette o dei giacobini che si rifanno, in quanto all’uguaglianza tra i generi, al Rousseau meno illuminista (per come noi oggi possiamo considerarlo, filosoficamente e culturalmente, a posteriori). Olympe, che rivendica per le donne libertà di espressione e di opinione, si batte anche per un primordiale diritto al divorzio.

Commette l’errore di esagerare con gli attacchi diretti contro Robespierre e Marat: il primo è per lei un “animale anfibio“, mentre il medico rivoluzionario è addirittura un “aborto umano“. La accusano di far parte della congiura federalista e la mandano alla ghigliottina. Siamo nel 1793. La politica del governo rivoluzionario accetta che le donne inizino ad interessarsi di politica: sono ammesse nelle sedute dei club ed alla Convenzione qualcuno interviene per sondare il terreno sulla possibilità di avere anche delle “soldatesse” tra le truppe che difendono la Repubblica.

Nascono le prime associazioni di “cittadine repubblicane e rivoluzionarie” e, fin da subito, si dimostrano molto energicamente agguerrite nel proporre le proprie idee e nel diffonderle. Ma, nonostante il clima rivoluzionario induca al cambiamento, le resistenze sono comunque tante. Amar, membro del Comitato di Sicurezza Generale, relaziona alla Convenzione il 9 brumaio 1793 (30 ottobre):

«L’uomo è forte, robusto, nato con una grande energia, audacia e coraggio; sfida i pericoli, le intemperie delle stagioni, grazie alla sua costituzione; resiste a tutti gli elementi, è adatto ad ogni arte o lavoro faticoso […] In generale le donne non sono capaci di concezioni elevate e di meditazioni serie; e se presso i popoli antichi la loro naturale timidezza e il pudore non permettevano loro di mostrarsi fuori dalla loro famiglia, volete che nella Repubblica francese salgano alla tribuna, sul podio, nelle assemblee politiche come gli uomini abbandonando la riservatezze, fonte di tutte le altre virtù di questo sesso, e la cura delle loro famiglie?»³.

Sembra di sentire Chaumette. Toni leggermente più ovattati, meno virulenti, ma la sostanza è la stessa. I diritti delle donne si fermano a ciò che delle donne l’uomo pensa, ai confini che ha stabilito per loro dentro e fuori le mura domestiche. Il rapporto di Amar viene approvato e mette fine per un lungo periodo al tentativo di organizzazione di un mondo femminile entro le ragioni rivoluzionarie, entro la nuova società che si prospetta. Ma, come ne deduce storicamente e sociologicamente Jean-Paul Bertaud, la Rivoluzione ha, nonostante tutto, «gettato un seme che continuerà a germinare».

Ed infatti, nulla sarà più come prima. Anche per le donne. Se oggi l’erede di quella Francia rivoluzionaria diviene, nel 2024, la prima nazionale al mondo (dopo la bocciatura referendaria della Costituzione cilena che lo introduceva nel proprio paese) ad inserire nella propria carta fondamentale il diritto all’interruzione di gravidanza, è anche perché il laicismo è diventato nella République una identità cultural-sociale della nazione. Un tratto distintivo della democrazia, una fondamentale essenza dell’esistenza stessa del repubblicanesimo.

La Francia è sinonimo di laicità, così come l’Italia lo è di dipendenza dalle scelte cattoliche e fa sempre più fatica, soprattutto in presenza di governi di estrema destra conservatrice e antiabortista, a vedere applicata la Legge 194 in intere regioni. L’Abruzzo, che va al voto tra pochi giorni, ne è un esempio clamoroso. Ma si potrebbero citare altre regioni, anche del nord del Paese, in cui l’obiezione di coscienza dei medici e degli operatori sanitari ultracattolici, si manifesta con un rimpallo di responsabilità che nega alla donna un diritto sancito con un referendum e con le normative che ne sono derivate.

Macron e Attal, almeno sul piano dei diritti civili, mostrano quel liberalismo che, invece, si tramuta in cieco liberismo sul terreno dei diritti sociali. L’articolo 34 della Costituzione francese da ieri ha un nuovo paragrafo: «La legge determina le condizioni nelle quali viene esercitata la libertà garantita alla donna di fare ricorso a un’interruzione volontaria di gravidanza». E’ compromesso con le forze meno convinte, quelle centriste e in parte di destra moderata che non vogliono sentire parlare e nemmeno vedere scritto il termine “diritto“. Ma la sostanza è che c’è una libertà garantita dallo Stato.

C’è da stare certi che la risposta dei reazionari si farà sentire proprio nel merito del “dovere” da parte della Repubblica di garantire una libertà che non è espressa come “diritto” (visto che se c’è un diritto del cittadino deve esserci anche un dovere da parte dello Stato). Ma la “garanzia” della libertà appena introdotta nella Costituzione d’oltralpe si dovrà concretizzare proprio con una Legge che la specifichi in quanto tale e che, quindi, superi il timore terminologico, la prevenzione di una sorta di assolutismo laico che intacchi il diritto alla vita cattolicamente inteso.

L’eco della Rivoluzione si fa, dunque, sentire ancora oggi. Proprio qui, in questa affermazione di un principio universale che sfida, come nel 1789, l’Europa e il mondo intero a diventare ancora più moderno di allora e di quanto non lo sia odiernamente. Si tratta, in tutta probabilità, del maggior successo popolare della presidenza di Macron che, invece, non può non deludere se si parla di lavoro, pensioni, scuola, sanità. Ancora una volta liberalismo e liberismo provano ad andare d’accordo ma, inevitabilmente, lo fanno a scapito dei diritti sociali.

E il disequilibrio che si crea non porta mai nulla di buono. L’impoverimento di larghe fasce popolari induce sempre le destre a lavorare per la restaurazione di vecchi armamentari ideologici che presuppongono l’abbandono dei diritti civilmente conquistati. Se non c’è giustizia sociale non ci potrà essere, a lungo, nemmeno libertà, uguaglianza e fraternità. Ciò nonostante, grazie alla Francia.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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