Quando nel 1948 a Parigi vennero ratificati e proclamati i diritti umani all’interno della Dichiarazione dei diritti dell’uomo dalle Nazioni Unite, l’omosessualità era ancora considerata un disturbo mentale e si faceva molta confusione, anche tra chi studiava la sessualità in ambito medico e psicologico, a distinguere l’orientamento sessuale dall’identità di genere. La strada affinché si affermasse a livello normativo il diritto a non subire discriminazioni per il proprio orientamento o dell’identità sessuale è stata molto lunga e tortuosa e possiamo dire che ancora oggi non è conclusa. La questione dei diritti delle persone LGBT+ si affaccia sulla scena internazionale nel giugno del 1969, quando i moti di Stonewall, a New York, segnano formalmente la nascita del movimento di liberazione gay in tutto il mondo. Da quel momento la comunità LGBT+ inizia una fase militante, il cui momento simbolico diviene il cosiddetto Pride, ovvero una manifestazione nella quale dimostrare al mondo la propria esistenza. Il primo venne organizzato l’anno successivo ai fatti di Stonewall per celebrarne la ricorrenza. Quantomeno nel mondo occidentale si inizia a respirare un’aria di cambiamento culturale che porta ad esempio nel 1973 alla rimozione dell’omosessualità dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (MDS) e nel 1990 alla cancellazione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali dell’OMS. Questa fase iniziale di lotte aiutò inoltre a far uscire i discorsi sulla sessualità dal solo ambito medico e psicologico al quale erano confinati, portandoli nel campo delle scienze sociali e in quello normativo. Un percorso che culmina con il Trattato di Amsterdam nel 1997 e con la Carta dei diritti fondamentali di Nizza nel 2000, che normano a livello internazionale il principio di non discriminazione sulla base dell’identità sessuale. Se le norme giuridiche da un lato recepiscono i bisogni che la società esprime, dall’altro contribuiscono a farli emergere, aumentando la consapevolezza sociale. Eppure la comunità LGTB+ subisce ancora trattamenti discriminatori su ampia scala che colpiscono molti aspetti della vita pubblica e privata delle persone, esponendole a svariate violazioni dei diritti umani: stigmatizzazione, aggressioni, criminalizzazione, discriminazioni nel mondo del lavoro, nell’accesso ai servizi sanitari, nel godimento dei diritti sessuali e nel diritto a formare una famiglia.

La situazione in Europa

Negli anni l’impegno sulle tematiche LGBT+ è andato rafforzandosi e si è concretizzato nell’adozione, da parte dell’Unione Europea, di provvedimenti vincolanti per gli Stati Membri al fine di introdurre negli ordinamenti specifiche tutele per i soggetti a rischio di discriminazione. Contestualmente, importante è stato il ruolo della giurisprudenza delle Corti di Giustizia Europee e l’impegno del Consiglio d’Europa, che il 16 giugno 2016 ha invitato gli stati membri ad “agire per combattere la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere”. All’interno dell’UE, i diritti delle persone LGBT+ sono considerati dalle leggi dei singoli Paesi con alcune differenze. Per esempio, per quanto riguarda i diritti civili, alcuni Paesi hanno adottato una normativa che riconosce le coppie di fatto, altri hanno riconosciuto il diritto al matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso, in alcuni è riconosciuto anche il diritto all’adozione, seppure con diverse modalità. Per quanto riguarda invece i diritti delle persone transgender – ovvero quelle persone che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita, che desiderino o meno modificare il proprio corpo e il proprio aspetto – l’Europa presenta la possibilità di riconoscere il nome d’elezione sostanzialmente in quasi tutti gli Stati e, nella maggior parte, di poter accedere al cambio dei dati anagrafici previa diagnosi di disforia di genere, espressione che sta ad indicare il disagio sperimentato da alcune persone che non si riconoscono nel genere associato ai loro organi genitali. Tra l’altro solo nel 2018 l’OMS dichiara che la disforia di genere non deve essere più considerata una malattia mentale.

La situazione in Italia

L’Italia è stato uno degli ultimi Paesi europei a dotarsi di strumenti di legge per la parità dei diritti delle persone omosessuali. Solamente nel 2016 è stato introdotto l’istituto delle unioni civili per le coppie dello stesso sesso, pur senza permettere le adozioni, argomento che d’altra parte divide profondamente l’opinione pubblica (48,3% a favore e 51,7% contrari secondo un sondaggio Eurispes del 2022). Diversamente, in materia di rettificazione di attribuzione del sesso, già nel 1982 il nostro Paese si era dotato della Legge n. 164/1982 che, seppur con parecchi limiti, permetteva alle persone transessuali di effettuare il percorso di transizione e ottenere la modifica dei dati anagrafici (nome e sesso) sui documenti d’identità, attraverso l’autorizzazione all’intervento chirurgico. Dal 2015 in Italia non è più obbligatorio sottoporsi a un intervento chirurgico dei genitali per cambiare il sesso sui documenti.

I diritti delle persone intersessuali

Un discorso a sé bisognerebbe farlo invece sui diritti delle persone intersessuali o intersex, quella “I” che si trova dentro la sigla LGBTQI+ con la quale ora si definiscono i movimenti. Intersex è un termine che viene utilizzato per indicare quelle persone che hanno alcune caratteristiche biologiche (come ormoni, cromosomi sessuali o organi genitali) riconducibili al sesso maschile e altre al sesso femminile. Queste persone sono sovente oggetto di pesanti discriminazioni perché molto spesso i loro corpi sono percepiti come non conformi alle norme di genere. È infatti ancora pratica comune sottoporre i bambini intersessuali a interventi chirurgici e altre terapie mediche, allo scopo di conformare la loro fisionomia al genere maschile o femminile. Ma questi interventi clinici, spesso condotti in tenera età, vanno a impattare in maniera pesante sull’identità del soggetto che, crescendo, con molta probabilità potrebbe non identificarsi col sesso biologico assegnatogli alla nascita, perché frutto di un approccio clinico che tratta i corpi come anomalie da curare e normalizzare e non tiene conto delle possibili variazioni presenti in natura, che non possono essere inquadrate nelle categorie sociali di femmina e maschio.

Gli effetti psicologici possono essere devastanti, con notevoli implicazioni rispetto al benessere fisico, sessuale e relazionale della persona. Non si tratta di una questione di poco conto, dato che, secondo le stime, fino al 1,7% della popolazione mondiale presenta caratteristiche intersessuali: significa che, solo in Italia, circa centomila persone sono classificabili non binarie dal punto di vista biologico. Negli ultimi anni gli organi internazionali che si occupano di diritti umani stanno appoggiando sempre di più la richiesta da parte degli attivisti Intersex di una sospensione degli interventi chirurgici sui bambini. Nel 2016 l’ONU, il Consiglio d’Europa (COE), la Carta africana dei diritti umani e dei popoli (ACHPR) e la Commissione interamericana sui diritti umani (IACHR) hanno pubblicato una dichiarazione congiunta, indicando che: “Gli Stati devono, con urgenza, vietare interventi chirurgici e le procedure non necessarie dal punto di vista medico sui bambini intersex. Devono difendere l’autonomia degli adulti e dei bambini intersex ed il loro diritto alla salute, all’integrità fisica e mentale, a vivere liberi dalla violenza e dalle pratiche dannose e ad essere liberi dalla tortura e dai maltrattamenti. Ai bambini intersex e ai loro genitori dovrebbe essere fornito sostegno e consulenza”.

Per la legge italiana si tratta ancora di una realtà inesistente, sconosciuta e priva di diritti. Nel nostro Paese rimane infatti ancora l’obbligo di identificarsi come maschi o femmine. Fino al 2014 i protocolli di alcuni grandi ospedali italiani prescrivevano di intervenire chirurgicamente sulle persone intersessuali appena nate anche solo per ragioni estetiche e in Italia, come nella maggior parte dei Paesi, non esistono linee guida che regolino il trattamento medico per chi alla nascita mostra una condizione di intersessualità. A livello internazionale qualcosa si sta muovendo e nel 2020, per la prima volta, 34 Paesi facenti parte dell’ONU hanno condannato gli interventi chirurgici non necessari sui bambini intersessuali come una violazione dei diritti umani, mentre già dal 2019 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che chiede alla Commissione e agli Stati membri di intervenire per garantire il diritto all’integrità fisica e all’autodeterminazione.

Il contesto globale

Tornando alla questione generale, nel mondo sono ancora tantissimi i Paesi in cui in cui le persone subiscono violenze, discriminazioni, esclusione sociale ed economica e detenzione arbitraria in base all’identità di genere e all’orientamento sessuale. In un terzo dei Paesi del mondo l’omosessualità è considerata illegale e, tra questi, 11 prevedono la pena di morte, 9 la reclusione a vita. In alcuni Paesi anzi, dopo una relativa apertura, si sta tornando a discriminazioni legali più diffuse, come in Russia, dove nel 2013 è stata approvata una sulla “propaganda gay”, che limita fortemente la libertà di espressione delle persone LGBT+. Rivolgendo lo sguardo al continente africano, sono numerosi gli Stati dove la discriminazione e la repressione sono stabilite dalla legge. L’esempio lampante è quello dell’Uganda, dove è stata approvata una legge, l’Anti-Homosexuality Act (AHA), che è tra le più severe e le più moderne al mondo al tempo stesso. La norma aggrava le pene già previste dal codice penale ugandese, confermando l’ergastolo per i rapporti omosessuali, e contempla la pena di morte per i casi considerati “aggravati, come nel caso di rapporti tra omosessuali che coinvolgono persone sieropositive, i minori e altre categorie di persone vulnerabili, come i disabili”. La legge introduce inoltre anche nuovi reati volti a eradicare ogni forma di attivismo delle persone LGBT+, prevedendo pene detentive fino a 20 anni per chi si macchia del reato di “promozione dell’omosessualità”.

La situazione in America Latina è invece piuttosto variegata: si va dal riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso e del diritto di adozione a ritenere illegale la stessa omosessualità. Nel continente sudamericano il problema maggiore rimane la violenza, dato che la maggioranza dei Paesi non possiede una normativa che proibisce l’omofobia, per cui i crimini rimangono per lo più impuniti. La metà dei Paesi asiatici ancora criminalizza l’omosessualità e quelli che non lo fanno compromettono la libertà di espressione e le manifestazioni pubbliche della collettività. Di recente alcuni passi in avanti sul fronte culturale sono stati mossi in Vietnam, dove il ministero della Salute ha dichiarato che l’omosessualità non sarà più considerata una malattia, mentre il Brunei è ancora considerato tra i Paesi più pericolosi del mondo per la comunità LGBT+. Secondo i dati OSCE, nel 2021 sono stati perpetrati 979 crimini d’odio in 38 stati nei confronti della comunità LGBT+. In 603 casi si è trattato di aggressioni fisiche, alcune delle quali sfociate in omicidi. Una cifra che restituisce solo la punta di un iceberg, non solo perché ovunque si tratta di un fenomeno sottorappresentato, ma anche perché queste cifre non tengono in alcuna considerazione i crimini d’odio commessi in quegli Stati in cui la violenza contro le persone LGBT+ è istituzionalizzata e tollerata. Sono solo 58 gli Stati membri delle Nazioni unite con una normativa sui crimini d’odio che faccia esplicito riferimento agli atti discriminatori.

A che punto siamo con le discriminazioni

Seppur ancora tortuosa e lunga la strada verso il riconoscimento dei diritti della comunità LGBT+ non si è interrotta e i trattati internazionali sui diritti umani hanno stabilito esplicitamente che le discriminazioni sulla base dell’orientamento e dell’identità sessuale sono illegali. In occidente, in particolar modo nell’ultimo decennio, queste direttive sono state recepite non solo a livello normativo, ma anche dal senso comune. La manifestazione esplicita degli atteggiamenti omofobi e transfobici, nella maggior parte dei Paesi occidentali, sta diventando socialmente sempre meno accettata. Negli ultimi anni, tuttavia, non mancano segnali di una pericolosa inversione di tendenza. Nel Rapporto annuale sullo stato dei diritti in 49 Paesi del continente europeo e dell’Asia centrale, il 2022 è stato definito “l’anno più violento dell’ultima decade per le persone LGBT+” per l’aumento di discorsi discriminatori e d’odio, omicidi e suicidi a sfondo discriminatorio.

Essere se stessi non dovrebbe mai essere un crimine: chi fa parte del gruppo dominante tende a ignorare i processi di esclusione sociale perché non li subisce direttamente e sono i gruppi minoritari che affrontando stigma e discriminazione che si attivano per reclamare cambiamenti che possano migliorare la loro esistenza. Ed è infatti grazie all’attivismo di queste persone, riunite in associazioni e gruppi, che le rivendicazioni dei diritti umani della comunità LGBT+, seppur con difficoltà, vengono sollevate.

[di Elisa Arianna Passatore]

https://www.lindipendente.online/2024/03/08/il-cammino-verso-i-diritti-dellidentita-di-genere-e-orientamento-sessuale/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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