Prosegue il braccio di ferro del governo italiano con le ONG che prestano soccorso nel Mediterraneo. Nella giornata di sabato alla nave Geo Barents di Medici Senza Frontiere (MSF), che trasportava 261 sopravvissuti, è stato imposto di farne sbarcare metà nel porto di Civitavecchia e metà in quello di Genova, distante 26 ore di navigazione (via terra lo spostamento avrebbe richiesto meno di 5 ore). Il giorno precedente è stato invece disposto un fermo amministrativo di 20 giorni nei confronti della Sea-Watch 5, che avrebbe “disobbedito alle istruzioni della cosiddetta Guardia Costiera libica”, nonostante non meno di un mese fa la Corte di Cassazione italiana abbia sancito l’illegittimità dei respingimenti in questo Paese.
La nave Geo Barents, con oltre 120 persone a bordo, è attraccata questa mattina nel porto di Genova, dopo essere ripartita domenica dal porto di Civitavecchia. A fronte dei costi elevati e della tempistica dilatata della navigazione via mare rispetto a quella via terra, è difficile comprendere le motivazioni di tale decisione. Monica Minardi, medico e presidente di MSF Italia, ha suggerito che si tratti di un modo di tenere le navi delle ONG lontane dal Mediterraneo centrale, dove normalmente si svolgono le attività di salvataggio delle vite umane. Prolungare la navigazione, sottolinea Minardi, significa solamente prolungare l’agonia e la sofferenza di persone che hanno già subito una lunga serie di violenze lungo il tragitto migratorio, soprattutto se, come in questo caso, a bordo vi sono donne e bambini. Se la motivazione morale appare debole, poi, c’è da sottolineare che quanto disposto dal governo italiano è inoltre una piena trasgressione della normativa internazionale, la quale dispone l’obbligo di far sbarcare i sopravvissuti nel primo porto sicuro (place of safety) disponibile.
A questo episodio si somma quello riguardante la nave Sea Watch-5, che, dopo aver soccorso un’imbarcazione alla deriva con una cinquantina di persone a bordo (tra le quali molte disidratate o con ustioni da carburante), ha richiesto l’intervento delle autorità. Nessuna di queste, tuttavia, si sarebbe attivata prima di alcune ore: nè quella italiana, nè quella tunisina, nè tantomeno quella maltese. Non è la prima volta che le autorità italiane vengono accusate di non rispondere con la rapidità necessaria in situazioni di forte pericolo per i migranti: nel caso recente più noto (per la portata tragica del suo esito), il supposto mancato intervento della Guardia Costiera italiana e di Frontex ha causato la morte di 70 migranti al largo delle coste di Cutro, in Calabria.
Mentre la Sea-Watch 5 attendeva l’intervento delle autorità, un ragazzo di appena 17 anni, giunto sull’imbarcazione in gravi condizioni, è morto. Secondo quanto riferito dall’equipaggio, dopo alcune ore le autorità italiane hanno concesso il trasbordo di 4 persone in condizioni gravi, mentre per le altre (compreso il cadavere del ragazzo, al quale ogni 4 ore l’equipaggio ha dovuto cambiare il ghiaccio per consentire la conservazione del corpo) è stato disposto lo sbarco nel porto di Ravenna. A 1.500 km dal luogo del salvataggio, 4 giorni di navigazione. Solamente “dopo forti pressioni politiche e mediatiche” all’imbarcazione è stato concesso di attraccare a Pozzallo. Qui, la nave è stata immediatamente sottoposta a un fermo amministrativo di 20 giorni, con l’accusa di non essersi coordinata con le autorità libiche per le manovre di salvataggio. L’ONG ha tuttavia riferito che “le ragioni addotte dalle autorità sono false“, in quanto “la nave libica Fezzan non ha ripetutamente risposto al contatto radio mentre portava a bordo decine di persone che erano a bordo di un’altra barca per respingerle illegalmente in Libia”.
D’altronde, è stata una sentenza della Cassazione, risalente a metà febbraio, a sancire che “La consegna di persone migranti soccorse in mare alla guardia costiera libica può configurare un’ipotesi di reato di abbandono in stato di pericolo di persone minori e incapaci e sbarco e abbandono arbitrario di persone (articoli 591 cod. pen. e 1155 cod. nav.)”. Pur riguardando una controversia molto specifica, ed essendo quindi valida in un contesto molto più ridotto di quello riportato dai quotidiani in questi giorni, la decisione della Corte ha innegabilmente un valore politico che sancisce la criticità di anni di politiche migratorie italiane fondate sulla collaborazione con la Libia e la sua cosiddetta “guardia costiera”. In particolare, la sentenza ribadisce l’obbligo dello Stato responsabile per la zona SAR (search and rescue, ricerca e salvataggio) di vigilare affinchè i “sopravvissuti” siano condotti in un luogo sicuro. In mancanza di tale assunzione di responsabilità, essa ricade sul comandante della nave.
Ulteriore elemento che va tenuto in considerazione, quando si discute di salvataggi in mare ad opera delle navi delle ONG, è il fatto che questi non costituiscono che una percentuale residuale degli sbarchi sulle coste italiane (circa il 15% nel triennio 2018-2021, il 10% nel 2022). 9 migranti su 10, insomma, raggiungono le coste italiane non grazie alle navi delle ONG, ma attraverso sbarchi autonomi o a bordo delle navi di istituzioni quali la Guardia Costiera e l’esercito. Eppure, le navi private sono una facile preda per le politiche che mirano alla “chiusura dei porti” e alla lotta a un generico “traffico di esseri umani”.
[di Valeria Casolaro]