Prontissimo come sempre, l’Istituto Cattaneo ci consegna l’analisi del flusso dei voti tanto nelle regionali sarde quanto in quelle abruzzesi. Scorrendo le pagine, ci si rende conto che questa volta era molto difficile potersi sbagliare nell’analisi successiva alla chiusura delle urne e allo spoglio delle schede. Tanta era l’evidenza che, a mani basse, regalava l’oggettività di una serie di indizi che, come avrebbe detto Agatha Christie, messi insieme costituiscono una prova.

E la prova è anzitutto data dall’astensionismo che si ripercuote negativamente nel campo progressista e che finisce col generare un cortocircuito lacerante che non prescinde, anzi mette radici da ormai molto tempo, sulla indistinguibilità di una fisionomia riconoscibile come linea politica dell’alternativa alle destre. Mentre queste ultime sono in grado di compattarsi al momento del voto, ogni volta, anche se un attimo prima si erano magari trovane nella condizione di essere divise tra banchi di maggioranza e opposizione, lo stesso non avviene per i progressisti.

Difficile chiamare “centrosinistra” quello sardo, ad esempio; non fosse altro perché, in una alleanza un po’ bislacca, ma ascrivibile a motivazioni tutte regionali, Calenda e i suoi centristi stavano non con il PD e i Cinquestelle come in Abruzzo, bensì con Soru che comprendeva nella sua coalizione anche Rifondazione Comunista.

Molto più facile invece attribuire il vecchio toponimo politico al campo largo o giusto che fosse riunito sotto la candidatura di Luciano D’Amico. Se si analizzano i dati dell’Istituto Cattaneo, si può riconoscere una somiglianza tra gli astensionismi e molte differenze nei comportamenti degli elettori votanti. Mentre in Sardegna la legge elettorale regionale prevede il voto disgiunto, in Abruzzo ciò non avviene. Mentre in Sardegna vi erano più di due candidati alla presidenza, in Abruzzo la competizione era bipolare.

Si confrontano, quindi, non solamente le attitudini dell’elettorato nei confronti dell’offerta data dalla politica locale, ma di certo anche gli influssi nazionali che derivano dalle politiche di governo, da quelle di opposizione e dalle azioni o inazioni delle rispettive parti dell’arco parlamentare. Va tenuto conto quindi di uno spettro ampio di concause che, senza lode e senza infamia, finiscono col determinare il risultato finale.

La questione, però, elezione dopo elezione, sembra divenuta quella di registrare, attraverso il piano locale una più generale propensione dei cittadini al sostegno o meno al governo di Giorgia Meloni. Dopo la riconferma di Marco Marsilio a presidente della regione che non è bagnata affatto da tre mari, riesce più difficile attribuire alla vittoria del campo progressista in Sardegna una svolta politica, un vento del cambiamento che inizia a soffiare davvero. C’è chi, alla luce di tutto questo, oggi teorizza persino una sorta di magica fortuna di Alessandra Todde.

La politica italiana, quando diventa così complicata e difficile da spiegare, piega persino i commentatori ad accarezzare l’imponderabilità del mistero, dell’impenetrabile, dell’irraggiungibile con l’umana ragione e nonostante i dati dell’Istituto Cattaneo. I fatti, però, che hanno la testa durissima, finiscono col tracciare una multidimensionalità tra politica di palazzo e politica sociale, civile, tra istituzioni e cultura, tra Stato e Repubblica se volessimo fare della finezza costituzionale.

Ad esempio, il caso dei Cinquestelle è veramente iconico: rappresenta un po’ da sempre, da quando il movimento grillesco è nato, un unicum nel panorama politico. Non solo per ciò che è stato: una esperienza di antipolitica populistica che ha sovvertito gli schemi della destra e della sinistra post-prima repubblica che si davano per acquisiti nelle rispettive polarizzazioni nella logica dell’alternanza che aveva sconfitto quella dell’alternativa.

Semmai perché il Movimento Cinquestelle ha ottenuto risultati nelle elezioni politiche che sono, sia all’apice del successo sia al minimo, quasi sempre stati smentiti dalle competizioni regionali e comunali. Diversamente, invece, quando la tornata elettorale è nazionale, come nel caso delle europee, i risulatti del partito di Conte tendono a riallinearsi con quelli dell’elezione del Parlamento.

Gli esperti del Cattaneo evidenziano come parte del dilemma sulla emorragia di consensi degli (ex)grillini sia risolvibile dando uno sguardo alle percentuali dell’astensione. Da un lato il centrodestra recupera elettori che non votavano da tempo, dall’altro i contiani perdono in questa direzione e, in particolare nell’abbandono delle urne da parte dei loro sostenitori.

Ottantamila voti lasciati sul campo sono davvero una ecatombe, un tonfo forte, uno sfracellarsi al suolo di una politica che ha un fiato cortissimo quando deve toccare problemi di carattere molto locale e ha la testa invece sempre e soltanto proiettata sui rapporti di coalizione nazionali. Diamo però a Cesare quel che è di Cesare: molti attivisti e molti consiglieri comunali e regionali dei Cinquestelle sono persone che si impegnano attivamente e fattivamente nelle istituzioni; non assumono i loro mandati con superficialità.

Sono stati abituati dal rigore del primo grillismo, che tendeva a distinguere il M5S da tutti gli altri partiti, a dare quell’esempio che, ormai lustri e lustri fa, erano i comunisti a fornire agli altri partiti per eccellenza nel rigore civico, morale e quindi sociale e politico. Quindi, la spiegazione del tracollo abruzzese è, almeno da questo angolo di visuale, molto povera e insoddisfacente.

Non si possono, del resto, ascoltare le uguali e contrarie propagande, le considerazioni e gli anatemi dei competitori: la verità sta nel mezzo e, a volte, nemmeno lì, perché se ne trovano pezzetti sparsi un po’ ovunque in una diversificazione della politica che atomizza persino le certezze più fondate.

La questione delle questioni è, almeno dal punto di vista della metà d’Italia (o quasi) che si affida al progressismo di sinistra e al moderatismo progressista – liberale di centro, come riuscire, dopo le ammucchiate prodiane de L’Ulivo e de L’Unione, trovare un punto da cui sollevare il mondo dell’alternativa tanto a queste destre quanto ad un mondo che non può essere condiviso, accettato e soltanto un po’ corretto nei suoi eccessi.

Non si tratta di imporre l’anticapitalismo come morale superiore di una politica che, obiettivamente, sarebbe certamente più degna, morale, civile ed umana di quelle fatte dai governi tecnici che hanno preceduto l’attuale, così come dagli attuali inquilini di Palazzo Chigi. Si tratta, almeno a sinistra, di riconsiderare le ragioni per cui le politiche che devono essere fatte non possono più essere di compromesso tra utilità pubblica e profitto privato, tra interesse sociale e dividendi aziendali, tra beni comuni e profitti padronali.

Il PD di Elly Schelin parla bene e razzola male. Espone la bandiera della pace nella sala della sua Direzione nazionale e poi vota i crediti di guerra europei per la continuazione del conflitto fino a che – così recita la mozione approvata – la Russia non sarà sconfitta e i territori ucraini liberati del tutto. Crimea compresa.

Così si disorienta non soltanto il proprio partito, ma principalmente l’elettorato e quelli che potrebbero votare non solo il PD ma anche altri partiti di sinistra, meno moderati, più radicali e che comunque sono parte di qualcosa di più di un campo largo meramente elettoralistico o giusto sul piano della condivisione dei valori.

Se si dice “pace“, non si può dire “guerra“. Così se si dice “pubblico“, non si può dire “privato“. Nel momento in cui è stata decisa la fine dell’ideologia come base fondante della politica in cui si riconoscevano i partiti e i movimenti, perché ha prevalso la personalizzazione leaderistica, la vittoria del vecchio terorema di destra sul rafforzamento delle istituzioni a scapito dei diritti ha prevalso unitamente all’avanzata della prepotenza liberista.

Di questa incertezza sociale e democratica, affidata nel corso della prima repubblica all’equilibrio tra pentapartito e opposizione comunista, ha approfittato l’esacerbazione dei toni da comizio che sono diventati l’unica forma di comunicazione, priva di riflessione, fatta di immediatezza per venire in soccorso all’emergenza economico-finanziaria di un capitalismo in affanno anche in Italia, nonché in Europa, con un regime dell’alternanza che ha segnato il passo davanti al populsimo generalizzante e totalizzante al tempo stesso.

I Cinquestelle oggi rimangono vittime della loro stessa creatura: la banalizzazione dei concetti, l’estrema individualità e unicità dei candidati, portati come madonne pellegrine in giro per le città e i paesi, prescindendo da una visione della società. Tanto quella di tutti i giorni, quotidianamente vissuta nei microcosmi locali, quanto quella nazionale e internazionale. La sinistra moderata ha tentato di essere resiliente, utile per dio e per mammona, ma ha finito coll’apparire soltanto ruffiana da un lato e impopolare dall’altro.

La destra non ha creato una competizione sulla primazia del rapporto col capitalismo italiano. Anzi, ha giocato all’aprire contraddizioni in seno all’evidente dicotomia tra il vecchio piano su cui si stagliava la difesa dei lavoratori, dei ceti deboli e sfruttati e la fascinazione moderna per l’imprenditoria, sostituita al proletariato d’un tempo come motore economico e sociale della nazione.

Ne resta un panorama pullulante di incertezze che permea la politica regionale e, soprattutto, quella di stampo nazionale di una vaghezza di contenuti che rimangono pericolosamente oscillanti nell’ambivalenza di un bipolarismo che riprova a farsi largo dopo il fallimento della rivoluzione grillina da un lato e del cercare di farsi strada del defunto Terzo polo dall’altro.

Ne resta, quindi, un grande lavoro da fare per una sinistra che, da troppo tempo lo diciamo e lo scriviamo, ripetendoci ogni volta con un pizzico di melanconia che rischia di scadere nella tentazione alla rassegnazione, deve anche sopportare la grande questione di questi tempi, quindi la sconfitta storica che registra; ma, ciò constatato, deve saper sopravvivere se vuole un domani – e si spera non troppo lontano – contribuire a ricreare le condizioni per un protagonismo dell’eguaglianza come valore universale.

Come sinonimo primo dell’umanità nell’animalità, schivando le arti seduttive dell’egoismo, anche politico, che tanti danni hanno già fatto in questi ultimi trent’anni. Dalla “morte delle ideologie” non è venuto fuori nulla di buono: solo ideologie di morte, di distruzione, di prevaricazione anticulturale, antisociale, immorale e incivile. Prima o poi un nuovo senso critico si riprenderà una buona maggioranza delle menti.

Ma per solleticarne la nascita occorre contrastare un’altra seduzione pericolosissima per le aggregazioni sociali e progressiste: quella del rampantismo come fine ultimo della politica o come principio della fine di un approccio generoso nella logica del benecomunismo, dell’altruismo sociale. La struttura economica è la nostra essenza in questo capitalismo. Materiale. Ma anche morale.

Dovremmo tenerne sempre conto quando pensiamo che basti una percentuale elettorale per fare grande un partito. Quelle piccole non lo aiutano a crescere. E’ fuori di dubbio. Ma quelle grandi, se adoperate male, finiscono per distruggerlo fin dentro le sue fondamenta. La lezione abruzzese sembrerebbe al momento smentire tutto ciò. Ma alla fine sarà così.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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