Livio Pepino

Trent’anni dopo quel 25 aprile che a Milano, sotto una pioggia torrenziale, pose un argine all’avanzata della destra, è fondamentale ritornare in piazza Duomo e, prima, in corteo per la città. Non per un patetico amarcord e, ancor meno, per l’illusione che si ripeta oggi, in condizioni politiche profondamente mutate, il miracolo di allora. Ma per riprenderci cose che in questi anni abbiamo perduto.

Anzitutto l’antifascismo. Sembra una cosa ovvia il 25 aprile. Ma così non è. In troppi, in questi anni, vanno dicendo che la pregiudiziale antifascista è anacronistica e che, dopo quasi 80 anni dalla Liberazione, va superata e consegnata alla storia. Magari aggiungendo che è necessaria una “riconciliazione” nazionale e che gridare “al lupo, al lupo” per l’approdo al governo dei nipoti di Almirante è inutile e controproducente. Sono posizioni che tante volte abbiamo sentito, anche a sinistra e, in particolare, nel Partito democratico. Ma sono posizioni inaccettabili: non per un reducismo fuori del tempo ma per un’attualità non esorcizzabile. Il fascismo è oggi. Ed è nella destra al governo: per esplicite rivendicazioni, per i simboli che esibisce, per la cultura che esprime, per il linguaggio che usa, per le immagini del passato che porta con sé. E, ancor più, lo è per il blocco sociale ed economico di cui è espressione e per le politiche che pratica: una nuova centralità della guerra, il nazionalismo e l’aumento delle spese militari, il respingimento dei poveri dalla pelle scura, la criminalizzazione del dissenso, una scuola che omologa ed esclude, il prevalere del privato sul pubblico, la torsione presidenzialista del sistema, la contrazione dei diritti delle donne e dei “diversi” e via elencando. A fronte di ciò non ha senso evocare una riconciliazione che presupporrebbe una totale discontinuità con il passato e non basta evocare alcune diversità esteriori (inevitabili in un mondo profondamente cambiato) e comportarsi come se si fosse di fronte a una semplice alternanza di governo. Il fascismo è ora e un antifascismo esplicito e senza tentennamenti, memore degli errori del passato, è il solo antidoto contro il suo consolidamento.

In secondo luogo questo 25 aprile è l’occasione per una necessaria ripresa di identità. Di fronte al tentativo, purtroppo assai avanzato, di mettere fine a una storia di riscatto e di affermazione di diritti, di libertà, di uguaglianza, nata con la Resistenza e trasfusa nella Costituzione del 1948 non si può solo vivere di rimpianti e giocare di rimessa. È tempo di ricostruire una politica fedele ai valori che hanno segnato la nascita della Repubblica e di tradurre in pratiche quotidiane la visione internazionalista, egualitaria, multiculturale, pluralista e pacifista della Costituzione. Occorre gridare quel che vogliamo: una società – per usare parole di Gastone Cottino (All’armi son fascisti!, Edizioni Gruppo Abele, 2024) – in cui si persegua la partecipazione e non il culto del capo, in cui si metta al centro il pubblico e non gli interessi privati, che concentri i suoi sforzi sulla salute e sull’istruzione, che persegua l’uguaglianza e condizioni di vita accettabili per tutti e tutte «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (come vuole l’articolo 3 della Costituzione), che sappia accogliere i nuovi italiani e le nuove italiane dovunque siano nati e nate. E, oggi più che mai, occorre dire no alla guerra, ad ogni guerra. Senza se e senza ma. Su questo, a cominciare dal 25 aprile di Milano va ricostruita la nostra identità antifascista.

E, poi, dobbiamo per riprenderci il territorio e la voce. Troppo spesso abbiamo lasciato il territorio ad altri a cui non è parso vero di impadronirsene senza incontrare resistenza. Oggi – inutile fingere che non sia così – lo spazio pubblico, nelle periferie delle grandi città come nelle “terre interne”, è della destra (esplicitamente fascista o leghista che sia). Eppure la piazza, le strade, i circoli, le associazioni, le bocciofile, lo stare insieme, il fare insieme sono l’abc della politica, la base per ogni progetto di rinnovamento. Nei territori non bisogna andarci, bisogna esserci. Riconquistare la piazza, una grande piazza – e non solo occasionalmente – è un segnale per ricominciare dal territorio riprendendo un percorso da troppo tempo interrotto. E, con il territorio, va riconquistato quel veicolo fondamentale della politica che è la voce. Tanto più ora, quando il tentativo di silenziarla è più forte che mai: sui media, nella scuola, nell’Università, nelle stesse piazze (che la maggioranza politica vorrebbe trasformare in zone rosse impermeabili a manifestazioni e proteste). In questo contesto la piazza di Milano può essere un megafono per dire finalmente e in modo intelligibile quel che vogliamo.

Non sarà facile. Ci sono divisioni, incomprensioni e divergenze reali. E ci saranno provocazioni, soprattutto sulla questione della pace. Da parte di chi, indifferente alle decine di migliaia di morti che insanguinano il Medio Oriente e l’Europa, continua a predicare le ragioni della guerra. Lo vediamo ogni giorno. Sui media, nella politica, sui social. Ma non possiamo aspettare ancora. Ci vuole coraggio a misurarsi con il 25 aprile del 1994. Eppure, se non lo facciamo, abbiamo già perso. Dunque andiamo a Milano mettendo in campo, insieme al coraggio, fantasia e determinazione.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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