(leggi precedente 6.)

7. Le grandi profezie del passato: “la Cina è un’opportunità”.

Il discorso del capitolo precedente ci porta ad ampliare il ragionamento a livello mondiale. Del resto, se i voti della destra si basano per una metà abbondante sull’immigrazione, che peraltro della globalizzazione è una conseguenza, per l’altra metà, o quasi, sono da ascrivere proprio agli effetti di quest’ultima. Emblematico il caso del Nord-Pas-de-Calais, un tempo roccaforte del Partito Comunista francese, diventato negli ultimi due decenni il feudo di Marine Le Pen. Non c’è niente di cui sorprendersi. Non significa che gli operai abbiano avuto una crisi identitaria trasformandosi da comunisti a fascisti da un giorno all’altro, ma solo che, come accaduto in molte aree industrializzate delle nostre città, sono stati quelli sui quali più si è abbattuto il ciclone delle delocalizzazioni.

La globalizzazione era stata presentata come promessa di libertà e benessere per tutti, simbolo dell’inarrestabile avanzata della modernità, di un mondo nuovo che si lasciava alle spalle gli egoismi e gli odi tra le nazioni, aprendosi verso un orizzonte di fratellanza e cooperazione, ecc. Per farla breve, ha beneficiato di un ottimo marketing. Opporsi a essa, per converso, significava essere contro il progresso e contro tutte quelle belle cose che il futuro ci stava apparecchiando. Non solo conservatori, ma anche un po’ ottusi. In questa visione progressiva dei destini umani i no global ci facevano la figura dei poveri illusi che si ostinano a contrapporsi al cambiamento, espressione di quelle frange minoritarie refrattarie all’innovazione che si sono manifestate in ogni epoca, una sorta di movimento millenarista dei nostri tempi, dei neodolciniani catapultati nel presente, personaggi per i quali non c’è posto nella storia, degni più di compassione che di essere presi sul serio.

Sui quotidiani nazionali si sono sentiti per anni le grandi firme dell’economia intonare l’ode corale al mercato, il luogo sacro dove tutti possono competere e dove il migliore non può fare a meno di vincere. Senza mai chiedersi, però, come mai il migliore fosse sempre cinese e se in questo grande campionato mondiale dell’impresa tutte le squadre giocassero alla pari e rispettando le medesime regole, o se ce ne fosse qualcuna che giocava con ventidue giocatori anziché con undici, o i cui giocatori potevano toccare la palla anche con le mani, o che potevano prendere a calci negli stinchi gli avversari, senza che l’arbitro intervenisse, anzi rimanendosene tranquillo a sonnecchiare su un’amaca a bordo campo.

Nemmeno di fronte all’evidenza (perché non è successo tutto dall’oggi al domani) hanno avuto l’intelligenza di capire che i fatti andavano in direzione contraria e/o l’onestà di fare dietrofront, ammettendo che una competizione su scala planetaria senza regole premiava il peggiore, non il migliore. Anzi, hanno insistito nel «dogma bambinesco che la totale liberalizzazione degli scambi commerciali avrebbe portato al mondo – a tutto il mondo, senza distinzioni – molti più vantaggi che svantaggi».[1]

E i leader della sinistra non vedevano quello che stava accadendo? O era proprio quello il mondo verso cui volevano andare? Oppure lo vedevano bene, ma non avendo i mezzi e la forza per contrastarlo, preferivano assecondarlo?

La prima opzione si può tranquillamente escludere. Se lo vedevano migliaia di giovani in tutti il mondo, potevano vederlo benissimo anche loro. Quando alla seconda, appare inconcepibile che la sinistra avesse come obiettivo il mondo odierno. A meno che avesse smesso di essere sinistra, cosa che in effetti era accaduta. La terza opzione può venire in soccorso alla seconda: se tutti vanno in una direzione, è più rassicurante e meno impegnativo seguire la corrente. Così, nel 2006, in trasferta a Shanghai, Prodi si univa al coro profetizzando: «la Cina è un’opportunità».[2]

Oggi, che i risultati di quelle politiche sono visibili a tutti, sappiamo chi erano i beneficiari di quell’opportunità.[3] «Mentre la liberalizzazione del commercio e l’emergere di catene globali del valore hanno estremamente rafforzato il potere di mercato di alcune imprese, i sindacati sono stati indeboliti in tutto il mondo, le prestazioni sociali sono state tagliate e in molti luoghi è iniziata una corsa al ribasso dei salari. E invece della libertà, della democrazia e dei diritti umani promessi dalla narrazione, in realtà oggi sempre più persone sono confrontate con la repressione e l’oppressione».[4]

Oggi, lo stesso Prodi, smesse le vesti dell’oracolo e indossate quelle del buontempone, dice che «non siamo stati in grado di rappresentare gli sconfitti della globalizzazione».[5]

Quindi, per prima cosa, prendiamo atto che degli sconfitti ci sono stati, e questo, come abbiamo visto, non era difficile prevederlo né servivano vent’anni per accorgersene. Per costoro, la Cina e la globalizzazione in generale non erano tutta questa grande opportunità.

In secondo luogo, dovremmo trarre la conseguenza che era intenzione sua e della sinistra rappresentare gli sconfitti? Beh, che dire… ci porremmo forse questa domanda se le parole non fossero quelle di un buontempone.

I veri beneficiari della profezia prodiana, per continuare il discorso, sono state quelle multinazionali che hanno assunto dimensioni tali da contribuire a quel fenomeno di indebolimento delle sovranità nazionali. L’economista indiano Prem Shankar Jha[6] sostiene che fin dalla sua nascita il capitalismo tende in ogni fase della sua crescita a distruggere il “contenitore” entro cui si sviluppa, cioè le strutture politico-istituzionali. Nella prossima fase, scrive, questo contenitore sarà lo stato-nazione, destinato perciò a scomparire nel caos prima di dar vita a qualcos’altro.

Senonché, questo processo non è di là da venire, ma è già accaduto senza che ce ne accorgessimo. Solo che la dissoluzione degli stati-nazione non è avvenuta in una maniera prevedibile e visibile, come, non avendo mai visto prima il fenomeno, ci si poteva immaginare, bensì in una maniera nuova, inaspettata e sotterranea, senza incidere sulla forma, svuotandoli di potere reale, nella gestione del quale sono subentrati i mercati e i grandi centri del potere finanziario. Le agenzie di rating (che, detto per inciso, ritenevano molto affidabili, tra gli altri, Enron e Lehman Brothers fino a qualche ora prima del default) possono far saltare un governo con un tratto di penna alla faccia della sovranità popolare; i mercati decidono quando, come e, soprattutto, se deve essere fatta una riforma delle pensioni. E quanto ai mercati stiano a cuore i redditi dei pensionati è risaputo.

Sempre più spesso i ruoli apicali del potere economico nazionale sono intercambiabili con quelli delle grandi istituzioni finanziarie, le cosiddette porte girevoli.[7] Esemplare il caso della banca d’affari Goldman Sachs,[8] per la quale a fasi alterne, entrando e uscendo, hanno lavorato presidenti del Consiglio, ministri, direttori del tesoro, governatori della Banca d’Italia e presidenti della CDP.[9]

Allora, o gli interessi della Goldman Sachs coincidono con quelli dello Stato, e allora è del tutto normale che il presidente di un ente pubblico (dal quale GS compra poi delle società controllate) sia nello stesso tempo anche un suo consulente, o che il direttore del Tesoro ne diventi vicepresidente, dopo aver ceduto alla banca il patrimonio immobiliare di un ente pubblico; oppure gli interessi di GS e quelli dello Stato non solo non coincidono, ma confliggono, come sempre succede quando c’è un venditore da una parte e un compratore dall’altra, e allora non è affatto normale che il presidente di un ente pubblico o il direttore del Tesoro stiano un po’ di qua e un po’ di là. Difficile capire chi e come possa sostenere la prima opzione.[10] Ricordiamo, per inciso, che un normalissimo dipendente pubblico sottostà a vincoli lavorativi ben più stringenti: gli è fatto pure divieto di aprire una libreria.

Dello stato-nazione, alla fine, è rimasta la forma vuota, dietro cui opera quello che Hardt e Negri chiamano «un apparato di potere decentrato e deterritorializzante, che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione»[11].

«Il supercapitalismo ha rimpiazzato a un tempo capitalismo e democrazia. Le grandi aziende, le banche e gli ultraricchi combattono nell’arena politica tramite plotoni di lobbisti, avvocati, esperti e specialisti di pubbliche relazioni, modellando le normative governative a proprio vantaggio o a svantaggio della concorrenza. Negli anni ’70 il 3% dei parlamentari dopo la fine del proprio mandato diventava lobbista; oggi sono il 50%».[12]

Tornando ai beneficiari della profezia prodiana, oggi le multinazionali possono trattare da una posizione di forza con i singoli Stati, facendo leva sul ricatto del lavoro e degli investimenti. I trattamenti fiscali di favore di cui beneficiano rappresentano il simbolo della diseguaglianza. Le grandi multinazionali high-tech, in particolare, si sono ormai configurate come nuovi enti lontanissimi dalle vecchie aziende. Sono delle enclavi nelle quali anche le norme e le regole degli Stati in cui operano cessano di essere efficaci in virtù delle loro dimensioni transnazionali e del potere di contrattazione acquisito.

Gli Stati, dal canto loro, si trovano in condizioni analoghe a quelle degli imperatori costretti dopo l’anno Mille a prendere atto della crescente potenza dei grandi feudatari, preferendo rinunciare alle loro prerogative in cambio della pacifica coesistenza, piuttosto che imbarcarsi in dispendiosi conflitti dall’esito tutt’altro che scontato e potenzialmente destabilizzante.

Approfittando quindi di una normativa che fatica ad adattarsi alla rapidità delle trasformazioni in atto, risultando quindi del tutto inadeguata, come se provenisse da un’altra epoca, le grandi multinazionali high-tech hanno creato delle aree franche, dei grandi “feudi”, nei quali possono fare il bello e il cattivo tempo, mentre gli utenti si vengono a trovare in una sorta di doppio status: cittadini per lo Stato in cui vivono; sudditi soggetti all’arbitrio del feudatario all’interno della piattaforma.[13]

Ma, ancor prima dell’aspetto economico, a spingere la sinistra a schierarsi contro la globalizzazione avrebbe dovuto essere l’impatto che essa ha avuto sull’identità dei popoli. Da un punto di vista strettamente culturale, infatti, essa è sinonimo di americanizzazione. È il modello di vita americano che si impone su scala planetaria a scapito delle culture tradizionali, relegate ai margini e destinate a essere cancellate dalla storia. È un processo nel quale il più forte schiaccia ed elimina il più debole. Ci si aspetterebbe di trovare il PD dalla parte di queste culture; invece, da un po’ di tempo a questa parte, si trova più a suo agio stando dalla parte dell’oppressore. Perché, alla fine, è qui il nocciolo della questione: si può ripetere quanto si vuole che destra e sinistra non esistano più, che siano ferri vecchi della storia così come chi ancora ne fa uso, ma gli oppressori e gli oppressi, quelli ci sono sempre. Gli uni, sempre più forti; gli altri, sempre di più.

(leggi successivo 8.)


[1] Edoardo Nesi, Storia della mia gente.

[2] https://www.lastampa.it/esteri/2006/09/14/news/prodi-cina-un-opportunita-1.37147665/ (consultato l’ultima volta il 30/11/2023).

[3] La curva dell’elefante di Branko Milanovic mostra come i benefici della globalizzazione siano stati iniqui a livello planetario. Nessun beneficio per i più poveri del mondo e quasi nessuno per la classe media occidentale; benefici per le nascenti classi medie delle economie emergenti (Cina e India) e grandissimi benefici per l’1% più ricco.

https://en.wikipedia.org/wiki/The_Elephant_Curve (consultato l’ultima volta il 30/11/2023).

[4] “La fine della globalizzazione (oppure no?)”, Alliance Sud, del 21/06/2022.

https://www.alliancesud.ch/it/la-fine-della-globalizzazione-oppure-no (consultato l’ultima volta il 30/11/2023).

[5] http://www.romanoprodi.it/interventi/il-pd-deve-saper-affrontare-la-nuova-complessa-fase-della-storia-in-una-sinergia-tra-riformismo-e-radicalismo-dolce_20107.html (consultato l’ultima volta il 30/11/2023).

[6] Prem Shankar Jha, Il caos prossimo venturo.

[7] Negli Stati Uniti il fenomeno ha oramai assunto un carattere sistemico.

https://www.opensecrets.org/revolving/ (consultato l’ultima volta il 30/11/2023).

[8] Per riferirsi alle amministrazioni Clinton e Bush è stata eloquentemente adottata l’espressione “Government Sachs”.

https://www.huffpost.com/entry/government-sachs-goldmans_n_210561

[9] https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/02/21/draghi-monti-prodi-goldman-sachs/ (consultato l’ultima volta il 30/11/2023).

Più emblematico di tutti, il caso di Henry Paulson, CEO della Goldman Sachs fino al 2006 e sottosegretario al Tesoro di Bush dal 2006 al 2009. In qualità di CEO multato per una frode che aveva causato agli investitori una perdita di un miliardo di dollari e poi, in qualità di sottosegretario al Tesoro, regista del salvataggio coi soldi pubblici delle banche a rischio, tra le quale la stessa GS.

https://www.nytimes.com/2009/08/09/business/09paulson.html (consultato l’ultima volta il 30/11/2023).

[10] Partiamo dal presupposto che abbiano operato tutti con specchiata onestà (tanto da essere attesi in paradiso da Traiano e Costantino nel cielo degli spiriti giusti), magari cancellando dalla memoria tutte le informazioni riservate acquisite durante i delicati incarichi pubblici ricoperti e che avrebbero poi potuto sfruttare per fare ottimi affari, ma se tre degli ultimi nove presidenti del Consiglio hanno lavorato per GS, allora alla gente comune, non a quelli che “decidono le sorti del mondo”, viene da porsi una piccola e ingenua domanda: è stata una casualità che i nostri rappresentanti li abbiano eletti, come poteva capitare che eleggessero tre impiegati della CONAD o della COOP, o GS si è adoperata in qualche modo per eleggerli attraverso i nostri rappresentanti?

[11] Michael Hardt e Antonio Negri, Impero.

L’errore è credere, come fanno i due autori, che l’Impero «generi esso stesso le condizioni del suo superamento». Non si può escludere a priori, ma anziché la “moltitudine” da loro preconizzata, è molto più probabile che sia un’altra élite, così come l’élite attuale ha soppiantato o integrato la precedente.

È il peccato originale dei teorici della sinistra rivoluzionaria. L’analisi storica trascende nell’attesa fideistica. Così come lo stesso Negri teorizzava alcuni decenni addietro che la società capitalistica avrebbe prodotto le forze che l’avrebbero cancellata, allo stesso modo oggi i due “prevedono” che l’Impero produca i presupposti che consentiranno alla “moltitudine” di creare una società nuova. Molto più prosaicamente (e più realisticamente), così come il capitalismo non ha dato il la ad alcuna rivoluzione, allo stesso modo la società post-capitalista, decentrata e deterritorializzata, non darà luogo ad alcun capovolgimento. In un mondo “decentrato e deterritorializzato”, decentrati e deterritorializzati saranno anche le manifestazioni di protesta e di ribellione. Più probabilmente, una nuova classe dominante rimpiazzerà o integrerà la precedente. Che la moltitudine possa dar luogo al mondo nuovo, allo stato attuale appare di gran lunga meno realistico di una seconda venuta di Cristo.

[12] Robert Reich, Supercapitalismo.

[13] Prendiamo Facebook, che, per le sue dimensioni e per essere ormai entrato a far parte della vita di tutti, rappresenta l’esempio più eloquente (ma il discorso vale ovviamente per tutti i social e tutte le piattaforme). Poter aprire un profilo non equivale a un dono graziosamente elargito. Facebook non è un ente di beneficenza che accoglie la gente, con la sola condizione che rispetti le sue regole, come comunemente si è portati a credere. Tecnicamente, aprire un profilo è a tutti gli effetti un contratto. L’utente ottiene un servizio gratuito; la piattaforma ottiene in cambio l’adesione dell’utente, che si traduce in un maggior potere contrattuale sul mercato delle inserzioni e quindi in un aumento di valore.

Nella realtà, però, il rapporto non è affatto paritario. Va molto al di là dei contratti standard con clausole vessatorie predisposti unilateralmente da grandi aziende, come fornitori di elettricità o servizi di telefonia. La piattaforma, infatti, può in qualsiasi momento cacciare l’utente, sia perché ritiene che questi abbia violato la sua policy, sia perché ha deciso di cambiare la sua policy, magari chiedendo di pagare ciò che prima era gratuito, sia anche per un semplice errore.

Si aggiunga il fatto che la piattaforma, nonostante eserciti la sua attività grazie al permesso dello Stato in cui opera, gestendo uno spazio aperto al pubblico, di fatto beneficia di una sorta di extraterritorialità, dal momento che le sue regole possono non coincidere con le leggi in vigore. Ne deriva quindi che un utente può essere estromesso per un’infrazione delle regole della piattaforma senza che questa sia una violazione della legge, oppure può continuare a operare pur violando la legge ma non le sue regole.

Ora, quasi tutti hanno un profilo Facebook. Per molti questo profilo rappresenta una parte importante della propria vita, raccogliendo ricordi, relazioni, attività, ecc. Per queste persone perdere il profilo potrebbe rappresentare un danno esistenziale (o anche economico) enorme e, in quanto tale, tutelabile per legge. Tuttavia, al contrario di ciò che accadrebbe in qualsiasi altro contratto, far valere le proprie ragioni presso un ente giudicante risulta estremamente difficile, nonché estremamente oneroso. Bisogna dunque accettare che l’ente giudicante sia la stessa piattaforma. Eppure, in nessun esercizio aperto al pubblico si sottostà all’arbitrio del proprietario. Un avventore può essere allontanato da un locale per ubriachezza molesta, ma il giorno dopo nessuno gli può vietare di entrare se perfettamente sobrio. Un cliente di un supermercato può essere bloccato per aver sottratto un prodotto, ma sarà lo Stato a comminare la sanzione, senza perciò precludergli il diritto di tornare in quel supermercato a fare i suoi acquisti.

L’equivoco di base è che siccome la piattaforma è privata anche lo spazio virtuale lo sia. Invece, lo spazio virtuale è pubblico, a meno che non si voglia non considerare reali i fatti che vi accadono (instaurare una relazione, acquistare un prodotto, pubblicizzare un’azienda, ecc.). Andrebbe quindi regolato da una normativa ad hoc, nonché sottoposto a una giurisdizione specifica concepita per il settore, perché non si può certo intentare una causa civile per ogni profilo sospeso o chiuso. Ma, allo stato attuale, una simile prospettiva non si vede nemmeno all’orizzonte.

Oggi possiamo solo prendere atto di come le grandi piattaforme abbiano acquisito un potere abnorme, del tutto inconciliabile con i diritti garantiti in uno Stato democratico. Ma non solo, si tratta di un potere inevitabilmente destinato a sconfinare nella politica, potendo facilmente alterare il funzionamento delle democrazie. Ormai sono dei moderni leviatani, a metà tra il feudalesimo e 1984.

Di Giovanni

"Trascorsi nell'antico Pci, ho lavorato in diverse regioni italiane e all'estero (Francia, Cina, Corea), scrittore per hobby e per hobby, da qualche tempo, ho aperto anche un blog ( quartopensiero ) nel quale mi occupo, in maniera più o meno ironica, dei temi che mi stanno a cuore: laicità, istruzione, giustizia sociale e cose di questo tipo."

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