(leggi precedente 7.)

8. Un’ideologia da fumetto

La metamorfosi dell’erede di quello che un tempo fu un partito di sinistra si è compiuta. Nella conclusione del precedente capitolo ne è racchiuso il senso.

Ormai il solo definirsi di sinistra lascia trapelare una sorta di disagio. Con la nascita del PD, i nuovi dirigenti, che poi erano i vecchi, hanno coniato la nuova definizione di “centrosinistra”, liberandosi con sollievo di quel trattino che caratterizzava le precedenti aggregazioni elettorali e che tanto li angustiava. Come se quel trattino, isolando la parola sinistra, rendesse qualcuno ancora identificabile, e quindi additabile al pubblico ludibrio.

Per quanto sia stata annacquata la provenienza, tuttavia, permane la sensazione di un vago imbarazzo nei confronti di quella parola che non vuole scomparire del tutto, un po’ come succede a quelle persone perbene appartenenti a famiglie malavitose quando il loro nome viene associato all’ingombrante parentela. Sembra che a sentire sinistra, anche loro si schermiscano e vorrebbero frettolosamente liquidare l’argomento dicendo: «sì, sì, è vero, ma non ci frequentiamo e non abbiamo niente a che spartire».

Certamente sarebbero più contenti se potessero dire solo centro. O meglio ancora, a scanso di equivoci, centromoderato. Che poi sarebbe dire la pura e semplice verità.

Senonché, tenere la fastidiosa reliquia nella ragione sociale della Ditta può tornare utile. Per esempio, in campagna elettorale, o stando sui banchi dell’opposizione, o anche quando un provvedimento da loro varato sta esattamente agli antipodi della sinistra. Quando, con tutta la prosopopea del caso, possono dire: «abbiamo fatto una cosa di sinistra». E già la necessità di doverlo puntualizzare vi dice che il boccone è troppo amaro da ingoiare, che si tratta di una cosa proprio di destra, perché se fosse stata di centro si sarebbe potuta ancora interpretarla come quasi di sinistra senza bisogno di specificarlo.

Per il resto, il PD è rimasto di sinistra (forse per la necessità di marcare il territorio) solo per la destra.

Se l’inversione a 180° operata dai vertici negli anni ‘90, come abbiamo visto, fu repentina, praticamente dalla mattina alla sera, c’è voluto, invece, più tempo per riorganizzare un partito che riflettesse il nuovo indirizzo. La nascita del PD rappresenta il completamento di questo processo.

Animato da quella specie di kennedismo di risulta che fu l’ecumenismo veltroniano, il nuovo partito dei vecchi comunisti nasce, per usare un eufemismo, come forza inclusiva. Perché il Kennedy di Veltroni non è quello storico, che patrocinava gli attentati terroristici a Cuba (più di 5000 in meno di un anno e mezzo)[1] o l’assassinio del presidente vietnamita che non voleva basi americane nel suo paese[2], bensì quello da fumetto, quello che «tutti noi abitiamo questo piccolo pianeta, respiriamo la stessa aria, ci preoccupiamo per il futuro dei nostri figli, e siamo tutti mortali».[3] Bastava e avanzava pure, il fumetto, per rappresentare l’ideologia del nuovo partito. Non serviva altro.

Così, al nuovo segretario dovette sembrare una mossa non poco astuta metterci dentro tutto e il contrario di tutto. Come poter puntare alla roulette su tutti i numeri. Per cui se fai una specie di presepe, addobbando le liste con un vecchio e un giovane, una femminista e una cattolica integralista, un rappresentante di Confindustria e un operaio (meglio ancora se con una tragedia sul lavoro alle spalle), ecc., e lo illumini poi con la cometa dei buoni sentimenti, ti voteranno tutti, vecchi e giovani, femministe e integraliste, industriali e operai, ecc.

 Perché all’interno del partito sono tutti uguali, anche se diversi, e, va da sé, destinati a rimanere diversi. Il partito diventa dunque luogo di uguaglianza, anche se puramente virtuale, perché una volta tornati alla vita di fuori, l’imprenditore riprende a fare i propri interessi con buona pace delle rivendicazioni dell’operaio. Un partito che voleva essere di tutti, ma non poteva che essere di nessuno, poiché un partito, per sua stessa natura, rimanda alla visione di una parte della società. Se include tutti c’è qualcosa che non va. A meno di non essere in Corea del Nord o in Cina, se un partito vuole rappresentare tutti, gli altri partiti chi rappresenteranno?

Poteva un simile progetto non rivelarsi vincente? Sì, poteva.

Lo si intuiva dalle facce dei padri fondatori, che, parafrasando Longanesi, spaventavano quanto le idee che rappresentavano. Ma poi ne abbiamo avuto l’immediata conferma con il suo spumeggiante esordio, un concentrato di fine strategia e lungimiranza politica, essendo riuscito in poco più di tre mesi a far cadere il governo Prodi, ricompattare la destra, una volta tanto divisa, e riconsegnare le chiavi del paese a Berlusconi. E ulteriore conferma è arrivata dopo con l’emergere delle nuove leve ancor oggi attive nei talk-show. Telegeniche, sorridenti, scandalosamente impreparate, delle quali l’unica cosa che non si capiva era come mai non militassero in Forza Italia.

La cosa difficile da spiegare, semmai, è come un progetto politico così vuoto e insulso abbia potuto essere preso sul serio. Come sia stato possibile che milioni di persone di sinistra abbiano partecipato alle primarie, siano andate ai comizi senza munirsi di pomodori e lo abbiano votato, quando era chiaro come il giorno che stava lì a officiare la commemorazione della sinistra scomparsa anni prima, rimane un mistero.

Siamo così arrivati ai giorni nostri.

Se, come sostiene Domenico Fisichella, citato nel libro di Bobbio, «la sinistra è fondata sull’idea di uguaglianza, la destra su quella di inegualitarismo», verrebbe di primo acchito difficile spiegare come mai a Roma il PD vinca solo ai Parioli e perda nelle borgate, o come mai lo voti la maggioranza di chi guadagna più di 5000 euro al mese, mentre precari e operai gli hanno voltato le spalle. Dato quel presupposto, infatti, ne deriverebbe che i ceti più deboli votano per l’inegualitarismo, mentre i più agiati per l’uguaglianza. Per conseguenza, si dovrebbe dedurre che mentre i primi non capiscano chi difende i loro interessi, i secondi votino per coloro che non difendono i loro interessi. Una teoria piuttosto arzigogolata. Molto più lineare dedurre che il PD non difende gli interessi dei ceti deboli, ma quelli dei più benestanti.

Si può veramente pensare che, quando il PD propone le politiche di Draghi come modello da seguire, possa raccogliere un minimo di consensi tra le fasce più deboli? Veramente c’è stato qualcuno in quel partito che ha potuto immaginare che oggi nelle periferie e nelle aree più disagiate del paese, la gente veda in un banchiere il suo campione? Veramente nessuno all’interno del partito ha alzato la mano per sollevare qualche dubbio, per dire «beh, ragazzi, mi pare che così si stia un po’ esagerando»?

Per quanti pochi voti abbia preso in quei quartieri, il PD ne ha presi sempre troppi. Identificarsi nelle politiche di Draghi significa né più né meno che offrirsi come un punching-ball alla destra, rendere a Meloni & company la campagna elettorale più facile che un tiro al bersaglio sulla Croce Rossa.

A questo punto, è sotto gli occhi di tutti: è pure riduttivo definire il PD come un partito interclassista, ormai è una vera e propria Arca di Noè della fauna politica nostrana, seppur destinato all’epilogo opposto dell’esempio biblico.

Misurarsi con le sfide poste dalla società del XXI secolo, come vedremo nei prossimi capitoli, è un’impresa a perdere, muovendo dal semplice principio che se deve fare cose di destra, le farà sempre meglio la destra. Non hanno quindi motivo di votarlo gli elettori di destra, perché votano già l’originale, né, tanto meno, ne hanno motivo quelli di sinistra, che se devono vedere il partito per cui votano fare cose di destra, preferiranno starsene a casa.

(leggi successivo 9.)


[1] https://en.wikipedia.org/wiki/Operation_Mongoose (consultato l’ultima volta il 2/12/2023).

[2] https://nsarchive2.gwu.edu/NSAEBB/NSAEBB101/ (consultato l’ultima volta il 2/12/2023).

[3]  John Kennedy, Discorso all’inaugurazione dell’America University del 13 giugno 1963.

Di Giovanni

"Trascorsi nell'antico Pci, ho lavorato in diverse regioni italiane e all'estero (Francia, Cina, Corea), scrittore per hobby e per hobby, da qualche tempo, ho aperto anche un blog ( quartopensiero ) nel quale mi occupo, in maniera più o meno ironica, dei temi che mi stanno a cuore: laicità, istruzione, giustizia sociale e cose di questo tipo."

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