Da New York a Los Angeles. Studentesse e studenti universitari americani occupano i campus, piantano tende e presidiano fisicamente i palazzi della conoscenza in cui per prima la memoria dovrebbe essere insegnata come antidoto alla disinformazione crescente nell’oggi. Quella che prova a far sembrare la guerra scatenata dal governo di Netanyahu e Gantz contro l’intero popolo palestinese e non solamente contro Hamas.

L’equazione è fin troppo facile: siccome il movimento jihadista e resistente è largamente diffuso tra la gente di Gaza, tutti sono dei potenziali terroristi e tutti devono essere ritenuti responsabili dell’attacco del 7 ottobre contro i kibbutz e contro i giovani del rave party nel deserto. Trentacinquemila morti e quasi centomila feriti non sono sufficienti al governo di Israele per fermarsi.

Gli studenti americani, che la stampa e le televisioni definiscono spregiativamente “propal“, sono quanto di più eterogeneo si possa riscontrare in una lotta per il “cessate il fuoco permanente” che è la voce che grida davvero nel deserto, dal fiume al mare, in quella Palestina in cui Israele è ospite e che potrebbe convivere con le popolazioni arabe piuttosto che sionisticamente pensarsi come il “popolo eletto“, l’unico ad avere diritto di cittadinanza nella vecchia terra del mandato britannico.

Gli studenti resistono alle provocazioni della polizia, ad una sordità istituzionale che decreta repressivamente la loro occupazione come illegale: ad iniziare dagli accampamenti delle tende. Farlo, significa autorizzare le forze dell’ordine a creare disordine; prevedere fin da ora lo sgombero forzato e non, invece, il dialogo, anche qui la trattativa, tra rappresentanti e rappresentanti. In tempi, oltretutto, in cui il rapporto tra eletti ed elettori si fa sempre più sottile, meno democratico, più distante.

Ma gli studenti non hanno l’aria di lasciarsi scoraggiare dalle dimostrazioni muscolari del potere. La causa è giusta; è quella della rivendicazione del diritto per i palestinesi di avere esattamente uno Stato così come lo hanno gli israeliani. Uno Stato che, seppur profondamente legato ad una ispirazione religiosa, afferma di essere democratico nel mentre mette in essere un genocidio (o etnocidio che dir si voglia), mentre spinge un milione e mezzo di palestinesi nella trappola di Rafah.

Le immagini televisive che provengono dai circuiti internazionali mostrano le centinaia di arresti che la polizia sta eseguendo nei campus. Ci sono studenti americanissimi, americani e di origine arabo-palestinese, americani di origine israeliana, ed israeliani di fede ebraica. Tutti contro la potenza occupante, contro la guerra spietata di Netanyahu contro l’intera Striscia di Gaza. La questione degli ostaggi, ogni giorno che passa, sembra divenire sempre meno rilevante ai fini delle trattative.

Hamas li mette sul piatto della bilancia delle trattative. Israele si dice pronta a trattare ma, intanto, ha pianificato per filo e per segno l’offensiva finale contro Rafah. Un altro bagno di sangue, se così sarà; ancora di più di quello che abbiamo assistito sino ad ora a Gaza e Khan Yunis, per via dell’altissima densità di palestinesi lì presenti, ammassati e impossibilitati dalle tendopoli (dove manca praticamente tutto, persino l’acqua potabile) ad oltrepassare il confine con l’Egitto.

La protesta universitaria americana richiama il governo di Joe Biden, sempre più agli sgoccioli in quanto a popolarità, soprattutto in vista delle presidenziali del prossimo autunno, ad una assunzione di responsabilità nell’oggi per il domani: i pacchetti di aiuti all’Ucraina e quelli ad Israele vengono giustificati come la continuazione di una politica estera della Repubblica stellata rivolta alla preservazione di un ordine democratico internazionale di cui la libertà sarebbe l’espressione più genuina e primaria.

Ma la libertà con tutto questo ha davvero poco a che fare. Muoiono i soldati, muoiono i popoli, si scontrano praticamente due (e più) visioni imperialiste, etnocentriche e militariste di un mondo che è ritornato ad essere multipolare e che, proprio per questo, ha visto tornare al centro delle questioni la contesa globale tra i grandi aggregati di potere e di finanziarizzazione dell’economia.

La grande protesta degli studenti universitari statunitensi è trasversale anche per questo: non riguarda solamente il tema della guerra in sé e per sé; riguarda questa problematica ultramillenaria che si innesta in un presente in cui non c’è più spazio per la politica, per la trattativa, per il dialogo, per il confronto. Là dove gli interessi economici fanno attrito e vengono allo scontro, non c’è dialettica che tenga.

Si passa immediatamente alla militarizzazione delle posizioni e alla determinazione della risoluzione dei conflitti politico-istituzionali-economici con la guerra.

Le giovani generazioni dimostrano di aver compreso con sufficiente acume la struttura che è alla base della complessità delle grandi questioni internazionali che i governi vorrebbero rappresentare come uno scontro tra civiltà, come l’opposizione tra il libero mondo occidentale e il resto del pianeta in soggezione a dittature, tirannie e teocrazie di varia natura.

Giorno dopo giorno, è sempre più chiara la natura imperialista della guerra di Netanyahu contro i palestinesi e l’aver colto la tremenda e orrorifica occasione del 7 ottobre per scatenare contro una vasta parte del Territorio occupato  da Israele una sanguinosa guerra che devastasse la civiltà nel suo complesso di quelle terre. Infatti, a Gaza non rimane in piedi nulla di nulla: non sono stati solamente colpiti i palazzi del potere e dell’amministrazione di Hamas.

Le intere città della Striscia sono praticamente state rase al suolo. La distinzione tra miliziani e civili è divenuta impossibile nel momento in cui Israele ha scelto di non farla, di attaccare indiscriminatamente. E tutto questo ha colpito profondamente una opinione pubblica prima letargica, che in particolare il protrarsi della guerra in Ucraina – percepita come lontana tanto geograficamente quanto per gli stretti interessi interni degli USA – ha rischiato di trascinare sul terreno apatico dell’indifferenza.

La questione israelo-palestinese ha risvegliato soprattutto la popolazione giovanile, perché è un tema di lunga portata storica che si proietta nella scena della modernità mondiale, incuneandosi negli interessi diretti che gli Stati Uniti d’America hanno nell’altro giardino di casa che posseggono, oltre a quello dell’America Latina, che è per l’appunto la regione mediorientale.

Israeliani ed ebrei per la pace, contro la guerra di aggressione a Gaza e contro l’occupazione del territorio palestinese si sono uniti ai manifestanti democratici, progressisti, di altre confessioni religiose e di un pluralismo politico davvero di grande portata. Uno degli slogan che maggiormente si leggono sui cartelli e sugli striscioni, e che viene ritmato mentre la polizia arresta gli studenti, è: «Difendiamo Israele da Netanyahu!».

Qui c’è la sintesi efficace di una protesta umanitaria che è anche, ovviamente, politica: perché Benjamin Netanyahu è il primo nemico dello Stato di Israele. Lo ha trascinato in un conflitto con Hamas ben prima del 7 ottobre, proprio sostenendo la formazione politica e jihadista integralista, storicamente avversaria dell’ANP di Abu Mazen. Il prodotto finale è stata la radicalizzazione del conflitto, la trasformazione della Striscia di Gaza in un luogo in cui questa estremizzazione si è totalizzata.

Qualche giornale e qualche sito Internet di una certa importanza vocifera che la Corte Penale Internazionale potrebbe far scattare un mandato di arresto per il leader del governo israeliano con l’accusa di crimini contro l’umanità. Non sorprenderebbe l’accusa, sorprenderebbe invece se i giudici decidessero in tal senso, pareggiando in sostanza i conti con quello emesso nei confronti di Vladimir Putin per l’aggressione all’Ucraina.

Le guerre si somigliano ma nessuna è mai veramente uguale all’altra. I morti nemmeno sono tutti uguali, tanto meno quando lo sono da vivi e, ancora di più, se sono o sono stati capi di governo e di Stato che hanno dato adito a massacri, carneficine nel nome della libertà del proprio popolo, della magnificenza delle istituzioni, di una ragione assolutamente indiscutibile che affonda le radici nella visione unilaterale e nell’interesse egoistico.

In realtà, lo sappiamo, tanto la questione della guerra del Donbass quanto quella del conflitto di Gaza hanno dei pregressi che vanno ben oltre i nuovi posizionamenti da modernissimo e attualissimo risiko mondiale. Per cui, tanto gli alibi degli Stati Uniti, della Nato, di Putin, di Netanyahu o di Hamas sono irricevibili se si cerca una sorta di giustificazione per le guerre in corso.

Le modalità della protesta degli studenti americani lo evidenziano con grande precisione e nettezza: la politica mondiale va verso un inasprimento dei toni che esige, per forza di cose, un ricorso alle armi se si reputa il proprio avversario una sorta di Hitler o di Satana con cui è impossibile parlare.

E’ capitato già più volte di scrivere che Israele, in quel tragico 7 ottobre dello scorso anno, aveva recuperato la posizione di stare dalla parte della ragione per qualche istante. L’ha persa con immediatezza allucinante nel momento in cui il suo governo ha deciso di scatenare la guerra contro i palestinesi di Gaza, senza distrarsi dall’esponenzializzazione colonizzatrice della Cisgiordania.

L’allargamento non impossibile del conflitto al Libano, alla Siria e all’Iran, i toni del presidente turco Erdoğan, la spregiudicatezza dello Stato ebraico nell’attaccare direttamente le sedi diplomatiche della Repubblica islamica in terra siriana, hanno creato un vero e proprio allarme mondiale intorno ad una questione palestinese che è, tra tutte le guerre che si combattono nel mondo (sono decine e decine, purtroppo), quella che dimostra la debolezza democratica occidentale.

Una debolezza che per primo Israele confessa al mondo nel momento in cui decide la guerra di annientamento. Una debolezza dovuta alla inconiugabilità tra esasperazione nazionalista del sionismo post-novecentesco, economia di guerra (quindi imperialismo) e stabilità nell’asse mediorientale.

Tutto ciò che Israele sta facendo oggi segna non solo il destino dei palestinesi, ma anche quello proprio di Stato democratico sulla carta, autoritario, omicida e genocida nei fatti. Gli studenti dei campus americani stanno contagiando con la loro esuberanza critica, nonviolenta e pacifista, per questo risoluta e determinata a proseguire al di là della repressione poliziesca e governativa, le università europee.

L’eco delle proteste oltrepassa gli oceani. Il rumore delle armi proverà a coprire la voce della pace e della giustizia, del rispetto dei diritti umani e della fine dei crimini contro il popolo di Gaza, contro tutti i palestinesi. Perché gli interessi in gioco, sulla pelle della gente che muore sotto le macerie, senza più cure, affamata e assetata, sono davvero enormi.

La risposta deve essere internazionale. Deve essere popolare e deve rovesciare le cosiddette “narrazioni ufficiali” delle propagande di Stato. La risposta tocca a tutte e tutti noi che di quel gioco al massacro non facciamo e non faremo mai parte.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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