L’esplosione della bomba totiana in quel di Genova e di tutto l’arco ligure ha rinverdito il linguaggio tele-istituzionale dei commentatori che si sono affannati, e non senza una qualche oggettiva ragione, a paventare il ritorno di un crisi tangentopolizia come nemesi per un Paese che i conti li fa con i potenti di turno, con i grandi imprenditori, mentre le rese dei conti le chiede quasi sempre ai più fragili ed indigenti.

Insomma, se non ci fossero altre enormi problematiche, tanto per dirne una: la guerra, a distrarci dai rapporti tra politica istituzionale e portualità, si potrebbe anche prendere seriamente lo stupore di tanta parte della cosiddetta “opinione pubblica“. Ambizione, corruzione e degrado del rapporto con i cittadini vanno di pari passo da tanto, troppo tempo. Se all’epoca della “prima repubblica” il sistema si reggeva su una compromissione consolidata tra affari e politica, una volta scoperta la enorme macchinazione, c’era stato un attimo in cui s’era sperato di poter superare tutto ciò.

Di poterlo fare tramite l’antico adagio che vuole si impari dalla Storia, in quanto maestra; e che magari si impari anche dagli errori commessi per non ricompierli in eguale misura. Non solo, invece, la coazione a ripetere pare divenuta una dea laica da venerare e da seguire pedissequamente laddove si intersecano i rapporti tra istituzioni e imprenditoria, ma pare inoltre che il sistema, cambiato l’ordine dei fattori, non sia poi così tanto diverso dal passato.

Il cuore della questione resta la pervasività che una certa politica intende mantenere con un affarismo che mortifica il pubblico, che subordina le istituzioni ad un intreccio di relazioni economiche che trascendono le regole del capitalismo strutturale. Qui si tratta di scambi di favori, di mercimonio di prebende, di impalmarsi su una pluralità di piani secanti che rendono irriconoscibile il ruolo istituzionale da quello di politico e quello dell’imprenditore da quello di cittadino che dovrebbe essere invece rispettoso della comunità, dei ruoli vicendevoli.

Gli schemi, dunque, sono saltati, afferma qualcuno. Probabilmente non sono mai stati messi a posto, non è per niente cambiata una cultura civica anche di massa: quella che non ti fa esigere lo scontrino fiscale dal panettiere, dal ristoratore, dal dentista o dal fruttivendolo che così evade le tasse a discapito dei lavoratori dipendenti, dei salariati che invece le pagano tutte quante. E non si è diversificata dalla fase tangentopolizia del pentapartito quella del pluralismo dell’alternativa tra i poli.

Forse il ventennio berlusconiano ha segnato una discontinuità con tutto questo? Sarebbe sufficiente elencare tutti gli scandali che si sono susseguiti, soprattutto a destra, ma non meno purtroppo anche nel centrosinistra, per abbandonare qualunque stupore sulla corruttibilità di chi va a ricoprire incarichi di governo (e di opposizione) e, sovente, riesce ad arrivarvi perché a monte esiste già il voto di scambio, la compravendita dei consensi, il riciclaggio delle opinioni in partite di do ut des.

L’Italia non ha soltanto un grande problema di memoria storica quando si riferisce ai dibattiti sul fascismo e sul neofascismo. Ha un problema grande quanto una nazione nella classe imprenditoriale e dirigente del Paese. La lunga traversata nel deserto della democrazia, patita con i governi del Cavaliere nero di Arcore, ripropostasi con i tentativi tutt’altro che bislacchi di amputare il parlamentarismo, di ridimensionarlo a tutto vantaggio del governo, non è mai veramente terminata.

Oggi, prima ancora di discutere dell’affaire Liguria, siamo di continuo impegnati nella disamina di nuove tentazioni autoritarie, di separatismi localistici che si innervano proprio sul sincretismo tra un finto neonazionalismo che è, questo sì, conservazione di nuovo modello, e premierati unici al mondo: una commistione di alterazioni delle fondamenta costituzionali che, ovviamente, viene negata dai proponenti, perché il tentativo è quello di mantenere avanti a tutto questo una parvenza del tutto formale di rappresentanza plurale.

Se tutto questo è possibile, non è soltanto in virtù della delega popolare – peraltro maggioranza relativa di una minoranza di coloro che avrebbero diritto al voto e che, per tutte queste ed altre ragioni, si astengono dal partecipare alle tornate elettorali – ma prima ancora della rete di malaffare e corruttele che si tramandano di legislatura in legislatura e che lasciano poco spazio all’iniziativa di forze davvero impegnate nella difesa e nelle tutela dei pubblici e comuni interessi. Il quadro politico, inoltre, si è complicato, infittito di personalismi partitici che rasentano il ridicolo.

Dalle tredici forze politiche ideologiche e di massa, nonostante fossero anche numericamente piccole rispetto ai giganti democristiani e comunisti dell’epoca, si è passati ad una frammentazione, ad una atomizzazione che ha regalato alla mediocrità dei piccoli poteri un protagonismo insperato. Nuovi titani del dopo-Tangentopoli hanno poi formato una nuova classe dirigente, proprio mentre, nel cambiamento contrario avvenuto nel centrosinistra, si manifestava tutta l’incapacità di fronteggiare il connubio saldo emblema del liberismo moderno: lo Stato al servizio del mercato, del capitale, dell’impresa.

Senza più spazio per le mediazioni con il mondo del lavoro, con le maestranze, con milioni e milioni di lavoratori, di precari, di subordinati e parasubordinati, di indigenti a cui sono toccate le briciole di una suddivisione della ricchezza prodotta che è andata a vantaggio dei privati e non dei beni comuni, dei settori fondamentali per la cura e l’integrità fisica, culturale, morale e civile di ognuno di noi. La deriva populista vera è il televisionismo mercatista berlusconiano, la seduzione catodica prima e pixellante poi che ha trasformato l’Italia nel suo profondo.

Un profondo fatto di elusione ed evasione delle regole nel nome del “lo fanno tutti” di craxiana memoria; non più un cattivo costume soltanto, ma una vera e propria cultura di massa del disprezzo dell’interesse comune, abbandonato al suo destino, sbeffeggiato da cento, mille battute ironiche e autoassolutorie che recitano più o meno così: «Siamo proprio in Italia!». Esclamazioni di una retorica insopportabile che, proprio perché semplificatrice, rassicura al punto da sostituirsi a quell’atteggiamento grottesco che viene rimproverato a chi le tasse le paga e, quindi, passa per fesso.

Noi leggiamo le cronache dei giornali sull’affaire Liguria e minimizziamo i nostri comportamenti quotidiani che, indubbiamente, non arrivano ai livelli delle reità scritte nero su bianco dai magistrati in quattro lunghi anni di indagini, ma che non di meno sono gravi perché la complicità diffusa nel singolo interesse pregiudica, nell’insieme, il tessuto sociale e civile dell’Italia che vorremmo moderna, libera e democratica. Non siamo nulla di tutto questo. Non siamo moderni perché ripetiamo la storia tecnocratico-tangentizia del passato.

Non siamo liberi perché, oltre a prendere ordini da Bruxelles, ci facciamo dettare la politica estera dalla NATO e dagli Stati Uniti d’America. E, ultimo ma non ultimo, non viviamo in una democrazia perché gli equilibri tra i poteri sono ampiamente alterati, il Parlamento è ridotto ad una protesi dell’esecutivo, la nazione scivola in basso nelle classifiche sulla libertà di informazione, ed i condizionamenti tra l’economia e la politica oltrepassano il rapporto marxianamente inteso tra struttura e sovrastruttura.

Si provi ad osservare nemmeno tanto tra le pieghe di questi rapporti malevoli tra impresa e mondo istituzionale e si ci accorgerà di come il lavoro sia trattato alla stregua di una variabile dipendente non da un interesse capitalistico diffuso, ma da una spietato ricorso ad una concorrenza singolare tra grandi gruppi che incidono negativamente pure sulla tenuta dei territori, deprendadoli dal mare ai porti, dalle infrastrutture di terra fin dentro il cuore collinare delle regioni.

Le teorizzazioni e le messe in pratica delle “grandi opere” sono affari sporchi che vengono stipulati sulla coltre pesante di comunità che lottano da anni e anni in una posizione difensiva e mantengono le posizioni grazie alla presa di coscienza diffusa e interpartitica che riescono ad avere. Lì si risveglia la cultura vera anelata dalla Costituzione della Repubblica: lì la partecipazione popolare è e diviene politica propriamente detta che, purtroppo, trova sempre troppo pochi e deboli interlocutori sul terreno della competizione elettorale.

Più i partiti assumono un profilo istituzionale e più tendono, anche oggi come nella “prima repubblica“, a scegliere la linea della compromissione rispetto a quella del compromesso. E’ una torsione non inevitabile, certamente, ma in quanto punto di incontro tra potere politico e potere economico rappresenta uno snodo di primaria importanza nell’approccio che si vuole tenere nei confronti dell’assetto istituzionale se, per davvero, si intendono portare avanti i programmi con cui ci si presenta agli elettori.

Invece, sembra quasi sistemico questo scostamento partito-politico e partito-sociale che, invece, dovrebbe essere riconsiderato come un unicità imprescindibile se, quanto meno nel fronte e nel settore progressista, si ha a cuore l’avanzamento dei diritti del mondo del lavoro, unitamente ai doveri civili e civici che comporta l’essere delle comunità attive. Lo sfarinamento del tessuto culturale del Paese è, quindi, in tutta evidenza, una premessa ma anche una conseguenza del logoramento delle classi dirigenti che si fanno portavoci anzitutto degli interessi delle imprese.

E’ da questa prevalenza del privato sul pubblico che prende origine l’alterigia della supremazia del mercato rispetto al lavoro, la considerazione primaria degli interessi nazionali in quanto non interessi di tutti ma della sola classe di quelli che, un tempo, si sarebbero potuti definire “gli sfruttatori” senza essere tacciati di anacronismi linguistico classista.

L’Italia ha, quindi, ben più di una nuova tangentopoli a cui fare fronte: perché il sistema di potere che accusiamo di essere il prodotto di una cultura di classe, di un interesse di classe, esclusivista e, per questo, protettore del privilegio dei più ricchi imprenditori dello Stivale, riguarda tanto il Nord quanto il Sud del Paese e non fa distinzioni di colore politico. La preoccupazione maggiore, oltre al drenaggio di risorse pubbliche finite nelle tasche dei padroni di turno, è l’olezzo di impunità che emerge dalla carte dei magistrati.

Queste circostanze sono così tanto penetrate dentro il contesto istituzionale da non impensierire chi, ricoprendo ruoli apicali, parlava tranquillamente al telefono o mandava mail e messaggini senza alcun timore di essere intercettato o, anche, finire preda della ricattabilità ulteriore del corrotto o del corruttore. La disinvoltura del malaffare è l’ombra ben visibile di un potere spregiudicato a cui degli elettori e dei cittadini non importa niente. Li utilizza soltanto come mezzo per arrivare ai propri scopi e poi li spreme a dovere una volta arrivato in cima.

Chi se non i lavoratori e le lavoratrici, gli sfruttati moderni, ha la possibilità di rovesciare tutto questo? Lo si può fare pensando ad un compromesso tra ragioni e interessi delle imprese e mondo del lavoro? Lo si può fare riproponendo la stanca litania dell’unità nazionale come interesse collettivo, protetta pure da un premier forte che si fa delegare i pieni poteri da un popolo anestetizzato nella sua volontà e nella sua coscienza critica?

Il compromesso ha un valore finché non scade nella compromissione. Così come la contrattazione aveva il suo perché finché non diventava (e diventa) concertazione tra le parti, scivolando, quindi, spesso e volentieri proprio nella compromissione medesima. C’è tutto un mondo italiano da riconvertire alle ragioni di una giustizia sociale di cui, nelle rivendicazioni dell’anche timido progressismo democratico-pentastellato, si fa davvero fatica a trovarne traccia…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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