Le convenzione dell’estrema destra europea, convocata dai neofranchisti di Vox in quel di Madrid, ha avuto come parola d’ordine, almeno da parte della presidente del Consiglio italiano, che presiede anche il Gruppo dei Conservatori e Riformisti al Parlamento di Strasburgo, “rinascimento“.

Che dai tuffi nel passato delle peggiori esperienze antidemocratiche ed antisociali, richiamate oggi nella novità della politica moderna (si fa per dire…), possa venire fuori una conversione dell’Europa in chiave rinascimentale è francamente tutt’altro che probabile.

Nessuna affinità quindi con il Rinascimento propriamente inteso. Semmai un utilizzo esclusivamente politico-propagandistico del termine, usato in quanto metafora immaginifica di una torsione verso i disvalori retrivi di un conservatorismo che faccia dell’Unione Europea il collante di tanti neonazionalismi patriottardi, revanchisti su parecchi fronti, tutti dediti alla restaurazione più che alla rinascita di qualcosa di innovativo e, quindi, di progressista.

I nemici giurati, oltre alla sinistra – più che altro socialdemocratica e liberale – sono i centristi macroniani e tutto il gruppo di potere che ruota attorno ad Ursula von der Leyen, con cui però Giorgia Meloni intrattiene rapporti che vanno oltre la cortesia istituzionale o le relazioni dettate dai reciproci ruoli di interscambio tra governo nazionale e Commissione europea.

In ciò, forse, qualche tenue differenza con Abascal e Ventura c’è. Ma si tratta di piccole increspature tra le declinazioni di un programma più ampio di una destra estrema piuttosto compatta.

Il disegno è eversivo nella misura in cui si propone di rimanere fedele al contesto internazionale soprattutto nella prospettiva di una vittoria trumpiana alle presidenziali statunitensi d’autunno. E si propone altresì di saldare il protezionismo interno dei singoli paesi con un disegno liberista che Javier Milei, ospite tutt’altro che d’eccezion della kermesse di Vox, ha descritto nei minimi particolari.

Lo Stato ridotto a mero esecutore delle priorità mercatiste, del protezionismo profittuale, della tutela dell’aziendalismo in tutto e per tutto.

La ricetta europea, ed italiana, in questo senso deve cercare una mediazione con le proprie pulsioni che la porterebbero lontano nel desiderio di abbracciare finalmente un capovolgimento radicale tra compromesso con l’impianto costituzionale della Repubblica e idea di un nuovo Stato improntato sul premierato da un lato e la regionalizzazione delle competenze maggiori dall’altro.

Un ibrido che si concilia molto poco con l’idea centralizzatrice che da sempre le destre hanno riguardo al potere esecutivo e alle sue diramazioni localistiche.

Si tratta, vieppiù, di un affastellarsi di contraddizioni che sono tipiche di un’Europa in cui le storie nazionali, anche e soprattutto in materia di progresso economico, non sono venute a sintesi perché questo avrebbe obbligato ventisette differenti modi di governare a ridursi ad uno solo, con vere istituzioni continentali comprese in un contesto federalista come immaginato e proposto dai radicali di casa nostra, oggi insieme a Renzi e ciò che resta del Partito Socialista Italiano.

Gli “Stati Uniti d’Europa“, ben prima di essere il nome della lista partita nei sondaggi con un risultato dell’oltre cinque percento, hanno innervato un filone culturale, politico e civile di ideologizzazione della vecchia Comunità Economica in qualcosa che avrebbe permesso una unificazione molto differente rispetto alla sola unione monetaria.

Ma ha prevalso il carattere finanziario di una istituzionalità che, a ben vedere, già dalla fondazione della CECA aveva lo scopo dell’ibridazione delle economie nazionali pur senza cancellarne le peculiarità, facendo chiaro riferimento alla parte occidentale e nordatlantica del contesto mondiale.

L’Europa è stata per qualche breve istante un sogno di libertà condivisa tra popoli che erano stati condotti alla guerra reciproca da regimi autoritari il cui scopo era il dominio dell’intero continente e, molto più in grande, del mondo. Il capitalismo globale ha prevalso nella lotta di classe moderna. I ricchi hanno vinto e hanno imposto un modello di mercificazione pressoché universale e totalizzante, da cui niente entra e niente esce se non è regolato dalle leggi del profitto.

Le destre europee fanno finta di contestare questo capitalismo vorace.

Ci prova anche Milei a farsi passare per un “anarco-capitalista“, lasciando intendere di essere libero come presidente di fare l’interesse del popolo, mentre altro non fa se non regalare lo Stato argentino nelle mani dei privati, togliendo risorse a tutti gli ambiti pubblici centrali per la cura di ogni persona, per la garanzia dei diritti fondamentali: umani, civili e sociali.

Il progetto delle destre di casa nostra è ancora al livello mileiano, ma può – nemmeno poi tanto lentamente – arrivare a lambirne la follia devastatrice.

I punti convergenti tra la politica di aggressione al mondo del lavoro e delle pensioni, dei diritti fondamentali dell’essere umano come del cittadino, e l’orbanizzazione del Vecchio continente si possono rilevare nella disposizione autoritaria di gestire i rapporti tra istituzioni ed economia solamente dall’angolazione protezionista delle grandi ricchezze e non da quella di tutela e difesa del mondo dei più deboli, degli sfruttati e degli indigenti.

Al liberismo estremista di Milei le destre in Europa guardano come punto finale di un cammino ancora piuttosto in salita.Gli schemi argentini sono tutti saltati. Soprattutto quelli di un peronismo di centrodestra che teneva ancora le redini di un Paese in cui la debolezza strutturale dell’economia ha precipitato nella povertà assoluta milioni e milioni di persone, privandole di qualunque garanzia.

Ciò che Milei non intende ripristinare, ma logore invece ancora di più, fingendo di combattere contro quella casta che ha ridotto l’Argentina sul lastrico, con una inflazione da bancarotta di Stato.

La spregiudicatezza sudamericana non è applicabile nell’Europa malandata dove, tuttavia, il centro liberal-liberista e le destre moderate hanno ancora un ruolo saldo, mentre la sinistra socialdemocratica fa da comprimaria in maggioranze in cui la riproposizione dello schema delle grandi alleanze pseudo-democratiche è il presupposto para-tecnico (e molto politico invece) per evitare lo scivolamento verso il piano inclinato del populismo sovranista e conservatore in cui gran parte dell’Est si è convertito dopo il crollo del “socialismo reale“.

La “giustizia sociale“, che sarebbe un ottimo antidoto al dilagare delle destre in Europa (e nel mondo) viene invece appellata come una sorta di dannazione per lo sviluppo globale e ridicolizzata come ferrovecchio del passato: Milei usa toni che i leader europei non utilizzano nemmeno nei comizi ed iniziative come quella di Madrid.

Ma tanto Abascal quanto Orbán, tanto Le Pen quanto Salvini e non da meno gli estremisti di destra portoghesi, polacchi e slovacchi, lasciano intendere che, se avessero man libera come il presidente argentino, non esiterebbero a ridurre l’Europa ad una dependance ancora più subordinata di oggi alle regole inflessibili dell’anarco-liberismo.

Confindustria spagnola e grande imprenditoria d’oltreoceano benedicono, del resto, la riemersione dell’autoritarismo in salsa di rinasciamento moderno, di tentativo di archiviazione persino dell’acquiescenza moderata centrista e socialdemocratica nei confronti del grande capitale.

Ciò che promette il macronismo sembra quasi al di qua di una spregiudicatezza alleantista mostrata da Ursula von der Leyen nei confronti dei settori meno irruenti del gruppo dei Conservatori e dei Riformisti europei.

Se le elezioni di giugno segneranno una complessiva sconfitta delle forze che fino ad oggi hanno retto la Commissione, non è escluso che, per rimanere penosamente a galla, vonderlayani e corifei al seguito si possano proporre come mediatori tra il centro e la destra. Ma non più quella soltanto liberale che, del resto, hanno sempre rappresentato, ben al di là dei confini del Partito Popolare Europeo; quella anche sovranista, xenofoba, omofoba, nazionalista al punto da essere la prima svenditrice dei patrimoni di stato-sociale residuo sull’altare dei prestiti a fondo tutt’altro che perduto.

Esiste sempre, però, qualche inciampo da cui guardarsi e Milei lo sa bene, se dismette per un attimo al patetica allegoria del leone che ruggisce sulla via del cambiamento…

Fino ad oggi, il presidente che ha esibito la motosega come aggressivissimo simbolo del mutamento istituzionale, sociale ed economico, non è riuscito a far approvare uno solo dei provvedimenti che aveva agitato nel corso della campagna per le presidenziali. Almeno non fino in fondo, fino al voto finale del Congreso de la Nación Argentina.

Gli scioperi generali proclamati dai sindacati, sebbene non manchino affatto i tentativi di repressione governativa mediante l’utilizzo di ingenti squadroni delle forze di polizia, si rivelano dei successi sul piano della partecipazione e dell’incisività socio-politica che vogliono determinare; ciò unito all’opposizione parlamentare sta rendendo difficile e dura la vita del governo anarco-liberista cui il Fondo Monetario Internazionale plaude sperticatamente.

Le destre non vanno sottovalutate, ma non va nemmeno sopravvalutata la loro capacità di tradurre dalla pratica oratorio-demagogica tutti i loro programmi di smantellamento dei diritti più elementari della povera gente, dei milioni e milioni di salariati che dall’Europa alle Americhe diventano sempre più indigenti e, quindi, acquisiscono – seppure lentamente – una coscienza di classe e si ribellano verso chi vuole, proprio nel nome della giustizia popolare, togliere al popolo ciò che gli spetta di diritto.

In tutto questo scenario assai complicato, la questione bellica non è dimenticabile e non va dimenticata. Anzitutto perché è dirimente nell’0rientare sia le proposte delle forze di destra che tentano l’assalto alla fortezza europea, e poi perché direttamente si insinua nelle pieghe di un capitalismo di rapina che si fa economia di guerra e che viene tollerata dal progressismo moderato come punto di equilibrio nella lotta tra gli imperialismi fatta passare come lotta tra la libertà occidentale e la tirannia orientale, tra due mondi opposti e contrapposti.

Pochissimi commentatori si ricordano di aggiungere che la convenienza bellica è una scelta tanto ad Est quanto ad Ovest, e che è un sostegno sia per le autocrazie sia per le democrazie che intendono continuare ad avere i favori delle oligarchie da un lato e dei grandi gruppi capitalistici dall’altro.

Non esistono, da questo punto di osservazione, paesi amici e paesi nemici. Le destre interpretano certamente meglio il consolidamento della conservazione di un equilibrio tutt’altro che stabile e stabilizzato per il profitto, il privato, il mercato, il liberismo che li include.

Le sinistre moderate e il centro, che hanno proposto fino ad oggi la ricetta antisociale come risposta ad una domanda invece di giustizia sociale, perdono terreno proprio a causa dell’acquiescenza inseguita e praticata nei confronti di una globalizzazione delle merci e della finanza che non ha avuto nessuna corresponsione in quella dei diritti sociali, civili ed umani.

Per questo la destra dell’ossimoro conservatrice-riformista può prevalere. Fermarla unendo movimenti e politica, partiti progressisti e sindacati, civismo e cultura della pace è concretamente possibile. Ma il presupposto non può essere quello del dialogo con il centro liberale, con il compromesso che muta camaleonticamente pelle in compromissione.

Il presupposto deve essere lo stare dalla stessa parte tutte e tutti a sinistra. Dalla parte del lavoro e non dell’impresa. Dalla parte di un rinascimento sociale e non del mercato. Dalla parte di una pace senza se e senza ma.

La chiarezza degli intenti pretende la collocazione altrettanto chiara in seno al Parlamento europeo: per il disarmo, per il dialogo fra le nazioni, per la fine del sostegno ai regimi che invadono, occupano e praticano il genocidio dei popoli. Qualunque regime sia, qualunque pretesa accampi.

Nessuna sarà mai tale da giustificare le carneficine cui si assiste a Gaza. Una parola netta deve venire dalla sinistra europea, socialdemocratica soprattutto. Basta armi, basta con la corsa al riarmo.

La gente vuole vivere in pace. Vuole poter programmare un futuro e non sperare soltanto di poterlo fare domani, sempre e soltanto in un domani che non arriva mai. Se il cambio di passo non sarà in questo senso, la sinistra sarà battuta e il centro farà accordi con la peggiore delle destre che cresceranno in quasi ogni paese. L’ombra del conservatorismo attaglia l’Europa. E i democratici stanno a guardare.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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