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Alla fine l’hanno fatto davvero: il voto del Partito Democratico (e dei Socialisti europei) ha appena portato Raffaele Fitto alla vicepresidenza esecutiva del governo dell’Europa. Una mossa suicida, che toglie d’un colpo ogni credibilità agli stentati tentativi di denunciare il carattere eversivo di questa destra: andando all’osso, non puoi sostenere (a ragione) che abbiamo i fascisti al governo, e poi piazzare il loro candidato ai vertici dell’Unione. Ma c’è qualcosa di peggio. Ed è l’incapacità (questa sì radicale) del Pd di elaborare una prospettiva politica – e, prima, culturale – alternativa a quella che ha condotto l’Europa alla negazione stessa della sua ragione di esistere.
L’Europa nacque con una missione su tutte: sradicare la guerra dal continente, spegnendo per sempre il fuoco dei nazionalismi europei. Rinnegando tutto questo di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, invece di imporre subito le inevitabili trattative di pace (e di farsene sede e promotrice) l’Unione si è trasformata in una succursale della Nato, ha messo la guerra e le armi in cima alle sue ragioni sociali, e la sua presidente tedesca ha rispolverato una atroce retorica della vittoria che ha ridato diritto di cittadinanza a fantasmi osceni, che credevamo esorcizzati per sempre, almeno in Europa.
Confermando Von der Leyen, i socialisti, e con loro il Pd, si sono schierati dalla parte della guerra, del tradimento dell’idea stessa di Europa: nel migliore dei casi, un chiaro segnale di impotenza politica. Votando ora per il commissario Fitto «perché è italiano», l’intera operazione assume un colore anche più nero, perché va a soddisfare «lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo». Sono, queste, parole del Manifesto di Ventotene (1941), altissimo programma morale per l’Europa che sarebbe nata dopo la guerra. Un suo passaggio centrale prendeva atto che «la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale».
Sembravano parole antiche: oggi tornano attualissime. A proposito del risorgere di «vecchie assurdità» abbiamo una presidente del Consiglio che parla solo di nazione (non di Repubblica e, con buona pace dell’amato Giovanni Gentile, nemmeno di Stato). È una nazione barbarica, genetica, brutale: per via di sangue, come ha ben chiarito lungo tutta l’estate la violenta chiusura alle (certo strumentali) proposte di Antonio Tajani sullo ius scholae. Ed è il centro di una retorica identitaria e nostalgica che serve insieme a deportare o ad affondare i migranti, e a reprimere violentemente il dissenso di chi intralci grandi opere di interesse ‘nazionale’. In un mondo in cui i nazionalismi (si pensi a quello israeliano) tornano ad essere il primo pericolo, che futuro può avere una ‘sinistra’ impantanata nella retorica nazionale e nazionalista del commissario votato “perché è italiano”? Qual è il vero interesse dell’Italia: avere un commissario italiano (peraltro dalle deleghe pressoché irrilevanti, con le quali Von der Leyen punisce Meloni per il mancato voto di luglio), o avere una opposizione capace di costruire un’alternativa europea e internazionale al ritorno della guerra come unica forza ordinatrice dei rapporti tra nazioni?
La ragione principale per cui il Pd ha infine deciso di votare Fitto va ravvisata nella sua minorità culturale. A pesare decisivamente – si ammette in queste ore – è stata l’esortazione di Sergio Mattarella, il quale (evidentemente convinto, secondo me a torto, di non esondare in ciò dal suo ruolo arbitrale) ha parlato apertamente di «una nomina importante per l’Italia», venendo subito, e anche più esplicitamente, seguito da due altri “senatori”, Mario Monti e Romano Prodi. Di fronte a tutto questo, la fragilità culturale e politica del Pd di Schlein si è manifestata in un immediato allineamento. Ma, con il dovuto rispetto per i tre “padri della patria”, qui il morto afferra il vivo: la generazione di Mattarella, Monti e Prodi ha completamente fallito nella prosecuzione del lavoro dei loro padri all’Europa unita, lasciando dietro di sé una somma di stati sovrani uniti, in parte, solo da una moneta e da vincoli economici che stanno distruggendo le democrazie. Non si tratta ora di rimproverarli, ma perché seguirne ancora le indicazioni? A chi risponde il Pd, ai nonni o ai nipoti che rischiano di ereditare un cumulo di macerie?
Ad ogni tornata elettorale ci si duole dell’astensione crescente, che consente la vittoria di una destra minoritaria nel Paese. Ma questo sempre più diffuso disincanto non è forse il frutto del tradimento sistematico di ogni decenza da parte della “sinistra”? I democratici hanno appena tranquillamente votato un uomo che è slittato attraverso tutte le sfumature di destra – da un’estrazione democristiana a una ortodossia berlusconiana fino ad arrivare a Fratelli d’Italia –, uno che nel 2008 acconsentiva entusiasta alle affermazioni di Berlusconi e Dell’Utri sul fatto che lo stalliere Mangano fosse un «eroe», dicendo, ai giornalisti che gliene chiedevano conto, di «farsene una ragione». Ebbene, un Pd che si dice pacificamente rappresentato da tutto questo in nome dell’interesse nazionale, non sta forse dichiarando, per l’ennesima volta, una terribile bancarotta morale, culturale, politica?
Una versione precedente (e ‘preventiva’) di questo articolo era apparsa sul Fatto quotidiano