La concezione che la destra italiana ha riguardo alla famiglia, ai rapporti che ne intercorrono e, quindi, anche alle relazioni sentimentali che la costituiscono e che ne derivano, è sostanzialmente un campo largo in cui, dalle grossolanamente partecipate piazze dei Family day, si mettono insieme origine culturale, presupposto religioso, devozione verso la patria e, in questa mescolanza di retrività, si uniforma il tutto con il fondamento etnocentrico da cui prende il via questa storia.

Siccome la sessualità non è qualcosa che può prescindere dalle circostanze, dal rapporto che noi abbiamo col resto del mondo che ci circonda ma che, anzi, ne viene spesso e molto poco volentieri ampiamente condizionata, risulta abbastanza evidente come tutto ciò che riguarda la sfera del desiderio, dei sentimenti, del trasporto emotivo e fisico passi, secondo le destre, e debba per forza passare al vaglio di una serie di prove per essere certificato come “normale“, “regolare“, quindi incapace di intaccare i presupposti etici della società.

La normalità, nemmeno a dirlo, è il concetto più abusato e utilizzato, la cui inflazione nei discorsi più disparati è esponenzialissima.

Si ricorre al confronto con la normalità ogni volta che qualcosa di diverso si mette sulla nostra strada, qualcosa di sconosciuto, un confronto mai avuto con un fenomeno singolo o sociale, con una cosa o una persona, con un evento o con qualcosa che ci capita e ci sorprende proprio per il fatto che sta accadendo. Ed ogni volta questo confronto è, almeno dal punto di vista del conservatorismo di destra, un esame di incoscienza.

Nel corso della seconda metà del Novecento, e in tutti questi primi ventiquattro anni del nuovo millennio, il mondo ha preso progressivamente atto che l’uguaglianza è la cifra morale, sociale, civile, umana, culturale e politica (nonché economica… ma questo sarebbe un discorso ancora più lungo e complesso…) verso cui deve puntare se vuole estinguere ogni contraddizione che porta allo sbilanciameno delle relazioni tanto interne agli Stati quanto internazionali: in materia di diritti senza più alcuna distinzione.

Persino i movimenti dei lavoratori, i sindacati, i partiti, le associazioni che si erano battute da fine ‘800 per il suffragio universale (non solo maschile), per il riconoscimento pieno dei diritti civili e sociali tra donne e uomini, hanno capito che non ciò non bastava con il mutare dei tempi.

Ed hanno capito che, se un tempo l’amore tra due uomini o due donne era considerato strano nel meno stigmatizzante e pregiudizievole dei casi, peccaminoso, satanico, scabroso ed escludente da ogni contesto sociale e da ogni diritto nella peggiore delle situazioni, con la fine dei grandi conflitti mondiali, si era prodotta una nuova stagione di voglia di vivere.

Senza pregiudizi, senza più precondizioni, senza che una morale si imponesse sulle altre: nel nome di Dio o nel nome dello Stato.

Per tanto tempo l’oscenità, l’essere, quindi, letteralmente messi “fuori dalla scena” della vita pubblica, derisi e insultati senza soluzione di continuità, è stata la presupposizione su cui fare leva per giustificare il proprio onore di nucleo familiare: chi aveva un figlio gay o una figlia lesbica, oppure un figlio transgender, avrebbe dovuto quasi giustificare tutto ciò davanti alla morale comune.

Il perbenismo borghese aveva, ad un certo punto della ripresa economica nell’asse euro-americano, messo avanti a tutto la soddisfazione delle esigenze primarie e materiali, considerando l’affettività omosessuale un capriccio adolescenziale, una devianza, una inversione di tendenza che sarebbe potuta essere curata, gestita nel contesto proprio della famiglia eterosessuale, timorata di Dio, patriottica e quindi pienamente addentro a tutti i canoni della giustezza etico-politico-economica dell’epoca.

Il conservatorismo morale, a dire il vero, non è deducibile soltanto, ad esempio, dalle tradizioni costituzionali poi emendate negli Stati Uniti. O per lo meno, non soltanto. Anche se le leggi, ed in particolare modo quelli su cui si fondano le nazioni, riflettono prima di ogni altra cosa, lo stato sociale, economico e civile di un paese.

Omofobia e razzismo, quindi, possono rientrare nella stessa categorizzazione di fenomeni che sono il prodotto di una conservazione dei rapporti di forza esistenti: ogni mutamento dei rapporti civili può voler dire un mutamento di quelli sociali, perché ciò che si mette in dubbio è ciò che si è creduto fino ad allora.

La verità, per essere granitica, ha bisogno di quelle forme dogmatiche che consentono di non essere spiegate e, quindi, sia che le proclami un pontefice, sia che le decreti un parlamento riferendosi alla tradizione dei padri della patria, occorre che assolvano al loro compito: l’imposizione senza alcuna critica possibile.

In Italia il movimento per l’affermazione dei diritti civili ha, senza alcun dubbio, avuto alti e bassi, un percorso difficile e accidentato e, sovente, anche a sinistra non ha ricevuto particolari sostegni entusiasti quando si trattava di mettere in discussione l’unicità della famiglia in quanto formata solamente da un uomo e da una donna e a fini procreativi.

La naturalità di questa impostazione, del resto, non è mai stata negata da chi si è battuto per fare progredire i diritti di tutte e di tutti. Eppure, a lungo, il migliore argomento del democristianesimo oltre la DC stessa, è stato quello dell’offesa alla morale, del deturpamento dei valori condivisi, dell’alterazione di un equilibrio sociale che rientrava nei patti costituenti.

Lo sappiamo tutti: lo stesso Partito Comunista Italiano, almeno fino alla venuta alla segreteria nazionale di Enrico Berlinguer, ha mostrato grandi perplessità non tanto su ipotesi di unioni civili o matrimoni egualitari, quanto sulla comprensione che l’amore è amore a prescindere da chi ama. L’omosessualità e la transessualità continuavano, anche a sinistra, ad essere considerate della anormalità, delle inclinazioni tutt’al più tollerabili, ma solo se accadevano ad altri.

Questa tolleranza veniva immediatamente meno nell’attimo in cui tu, padre comunista, lavoratore, aperto a qualunque abbraccio con tutti i fratelli del mondo, mettevi alla porta di casa tuo figlio perché ti aveva detto di amare un ragazzo. Non c’è bisogno di invocare chissà quale aristocratico atteggiamento della classe operaia in questo caso.

E’ la conseguenza di una strutturazione quasi ancestrale di comportamenti che affondano nel tradizionalismo, nella notte dei tempi: la Chiesa, la borghesia e il fascismo hanno messo il meglio della loro indole conservatrice per impedire che dalle suffragette si passasse alla libertà di amare.

La religione ha avuto, e ancora oggi ha, un ruolo di prima attrice in questo dramma che ha portato molte ragazze e molti ragazzi al suicidio, all’emarginazione, a matrimoni forzati, a vite completamente infelici.

I tempi sono cambiati, i diritti si sono diffusi ma, siccome nessuna conquista è imperitura, la difesa di questo respiro ampio, di questa ossigenazione maggiore dei cervelli e dei cuori ha sempre bisogno di mobilitazione e di allerta. Alle destre che provano ad introdurre nuove limitazioni delle libertà civili, che sono poi libertà di tutti e di ognuno, non solamente di una parte della popolazione, di una presunta minoranza, va contrapposta una vigilanza democratica a tutto tondo.

La Corte d’Appello di Roma ha sentenziato: il decreto dell’allora ministro Salvini, che nel 2019 dava indicazione di inserire sulle carte di identità dei minori le diciture “Padre” e Madre“, e non invece “Genitore/i“, non è valido.

Il motivo, a prima lettura e vista parrebbe più tecnico, visto che i giudici lamentano il fatto che l’autorità istituzionale non può scrivere sui documenti diciture differenti da quelle presenti nei registri dello Stato civile. Invece la sua valenza è molto al di là del mero tecnicismo burocratico: se un ragazzo ha due madri o due padri, perché si dovrebbe scrivere sulla carta di identità il falso, ossia che ha un padre e una madre?

Indirettamente è il riconoscimento del diritto di qualunque persona, di qualunque cittadino di poter essere genitore. Qui lo sbigottimento delle destre si riduce a fare spallucce, a minimizzare: quelli del Family day si rifugiano nei fatti naturali, incontestabili, per cui si nasce da un padre e da una madre. La loro vittoria morale sarebbe quindi la vittoria della Natura con la enne maiuscola. Dimenticano sempre che, almeno per lo stesso criterio di oggettività, innalzato a giudice supremo dell’etica comune, tutto ciò che è presente in natura è da considerarsi, ed è naturale.

Due uomini che vogliono bene ad un bambino perché dovrebbero essere una famiglia innaturale? Il tema dell’amore e dei sentimenti è, purtroppo, per la destra qualcosa che deve sottocaterorizzarsi ai princìpi fondamentali di una società che ha bisogno di certezze e non di fluidità, di confini, di barriere invalicabili e non di pervasività, di mutamenti, di trascinamento da parte dei desideri.

Questo è, almeno, quello che vogliono far credere al loro elettorato che, soprattutto per ignoranza, accarezza il pregiudizio tanto verso i migranti quanto verso le persone LGBTQI+. La derisione, lo scherno verso omosessuali, transessuali e queer è parte di quel pregiudizio che, in molti uomini in particolare, è una schermatura psicologica nei confronti del timore di poter essere un giorno anche altro da ciò che si è.

L’irrinunciabilità all’identità di genere è la gabbia entro cui finiscono tutte le mascellari protervie urlanti degli omofobi e le muscolari aggressioni che si registrano sempre più numerose ogni anno nei confronti di ragazze e ragazzi che, alla luce del sole, vivono i loro affetti come tutti gli altri. Quelli considerati “normali“, gli etero.

La sconfitta di Salvini non dimostra solamente l’affermazione del principio dell’uguaglianza anche nel caso dell’omogenitorialità, ma è di più: è il riconoscimento di una artificiosità di certe norme che, in barba ai valori e ai dettami costituzionali, vengono costruite tenendo conto soltanto di una distorsione del concetto di maggioranza. Solo per il fatto di essere in numero maggiore rispetto ad altri, non si ha e non si può avere il diritto di negare i diritti delle minoranze.

Dovrebbe essere, questo, un principio fondante le democrazie liberali: dal ‘700 fino ad oggi.

Eppure la messa in discussione della relazione tra diritti e doveri la si evince proprio nel momento in cui i primi vengono quasi esclusivamente dati alla maggioranza e i secondi alle minoranze. Se passiamo sul piano della socialità dei diritti, nel rapporto tra mondo del lavoro e mondo dell’impresa, addirittura questo schema si capovolge ed è sempre una minoranza ad imporre alla stragrande maggioranza di chi veramente produce la ricchezza del Paese ad imporre i suoi dettami.

Dunque, cos’è naturale? Di per sé non certo il concetto di maggioranza può dirsi in assoluto espressione della “naturalità delle cose“. Sono i rapporti di forza tra le classi che determinano questi squilibri e che, quindi, fanno della morale comune la morale – come avrebbero scritto Marx ed Engels – della classe dominante. La lotta per i diritti civili è lotta per i diritti sociali, e viceversa.

Chi ha tentato una classificazione di importanza dei diritti, cercando di obbedire ad un ottundente dogmatismo comunistico, che avrebbe certamente inorridito il Moro, non ha reso un servizio alla causa dell’emancipazione sociale e, spesso, si è messo al pari di quelli che ha per una vita intera fronteggiato e avversato.

Non solo la lotta per i diritti deve affrontare il tema dell’uguaglianza in sé e per sé, entro il proprio contesto di nascita e crescita tanto nella società quanto nelle idee e nei pensieri che essa esprime, ma deve anche porsi il problema della preservazione degli stessi da un fronte avverso che è certamente espressione del normale conservatorismo che abita un po’ tutte le età della Storia umana, quella difficoltà ad accettare i cambiamenti che è psicologicamente insita nella nostra natura così spaventabile eppure anche così adattabile alle circostanze.

Il processo dialettico qui si nota con lapalissiana evidenza. Non potrebbe essere più chiaro e definito. E, proprio per questo, anche più pericoloso nel suo continuo svolgeri e rivolgersi su sé medesimo, nella contrapposizione degli opposti politici e nel tentativo, quindi, di negare proprio quei diritti che tutti, a parole, dicono di voler acquisire nel nome della comunità e del benessere sociale, civile e morale di un intero popolo, di una intera nazione.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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